Un dato piuttosto paradossale che ha caratterizzato le elezioni israeliane 2009 è stata la quasi totale assenza, tra le priorità definite in campagna elettorale, di una visione regionale della politica estera. Questo nasconde però un atteggiamento largamente maggioritario: sfiducia nel processo di pace, e tendenza a guardare all’interno piuttosto che ricercare intese o appoggi esterni. Una combinazione che può portare Israele fino ad un forte isolamento internazionale.
Se è vero che almeno dal 1987 l’agenda politica israeliana si costruisce intorno alla questione dell’assetto da conferire ai Territori e dei rapporti con i Palestinesi, si può allora sostenere che, a dispetto della debolezza delle coalizioni di governo che si sono succedute al potere almeno dal 1998, i temi su cui impostare le campagne hanno dimostrato una sostanziale continuità.
Sembra un fatto assodato che il consenso in Israele si sia spostato a destra, ma questo non significa che emergano progetti alternativi per la coesistenza con i Palestinesi: questo viene comunque trattato sostanzialmente alla stregua di un problema interno, ovvero come una “questione di politica nazionale”, e non internazionale come la si vorrebbe accreditare presso l’opinione pubblica mondiale. L’assenza di alternative politiche valide si radica in una sfiducia generalizzata e sempre più condivisa (tanto dalla destra che dal centro moderato dello spettro politico israeliano ) verso il processo di pace e le sue possibilità di riuscita nel breve e medio periodo. Si tende inoltre a valutare la strategia dei ritiri israeliani unilaterali come poco pagante, e si ritiene maggiormente opportuno congelare la questione fino al momento in cui nuovi interlocutori emergano nel campo palestinese. La scelta dell’attendismo sembrerebbe cioè dominante e attraente per tutti i partiti a dispetto dei toni roboanti adottati da alcuni di questi in campagna elettorale.
La dimensione internazionale del dibattito scaturito dalle elezioni assume dunque una posizione molto marginale, se intesa in senso diretto, ma risente di tre temi importanti: il processo di pace con la Siria, legato al dibattito aperto sull‘utilità o meno di riavviare un ciclo di negoziati con Damasco affrontando l’irrisolta questione delle alture del Golan; il rapporto con l’Iran, che si configura come il più problematico per lo Stato di Israele nel lungo e medio periodo e lo obbliga, proprio per le sue dimensioni di politica internazionale, a negoziare e cercare comunque una posizione comune con i Paesi occidentali; e la nuova strategia americana in Medio Oriente, sulla scia delle prime dichiarazioni dell’amministrazione Obama.
Sulla questione dei negoziati con la Siria i partiti israeliani hanno rivelato i maggiori contrasti. Kadima e il suo leader Tzipi Livni ritengono infatti che vada aperto un nuovo fronte dei rapporti israelo-siriani, anche tenendo conto del comportamento sostanzialmente moderato assunto dalla Siria durante l’ultima azione militare israeliana a Gaza. Netanyahu, leader del Likud, ha invece dichiarato ufficialmente in campagna elettorale che non avrebbe mai rinegoziato l’appartenenza delle alture del Golan ad Israele. Israel Beitenu, nuova forza emergente suscettibile di entrare nella futura coalizione di governo, ha esteso il principio del rifiuto della formula “pace in cambio di territori” anche agli eventuali negoziati con gli Stati arabi, e dunque non con i soli Palestinesi. In realtà quest’ultimo partito pare aver assunto posizioni ancora più critiche dello status quo generale vigente nella regione, con il suo leader Avigdor Lieberman che ha proclamato la Siria responsabile anche degli eventuali attacchi lanciati dal Sud del Libano. Più cauto il Partito laburista di Barak – del resto grande sconfitto di queste elezioni – che ha difeso una posizione favorevole ai negoziati in termini molto simili a quelli adottati d Kadima, senza però affrontare i nodi irrisolti derivanti dai fallimenti precedenti imputabili proprio al Partito laburista. Questo atteggiamento non si discosta comunque dal generale orientamento israeliano a non analizzare le cause degli errori politici precedenti, puntando piuttosto a un imprecisato riscatto nell’immediato futuro.
Per quanto riguarda l’Iran, in modo quasi speculare a quanto avvenuto per Gaza, tutti i partiti valutano Teheran come un pericolo sostanziale, non scartando la possibilità di ricorrere a mezzi militari per farvi fronte in virtù del principio di difesa preventiva. Tuttavia, si esprimono sensibilità diverse sul grado di cooperazione da ricercare con i Paesi occidentali ai fini di un’azione comune verso l’Iran. Kadima (come i Laburisti) è infatti più favorevole a sollecitare un vasto consenso internazionale in caso di un’eventuale attacco militare israeliano, mentre Likud e Israel Beitenu ritengono valido il solo principio dell’interesse nazionale.
Ancora, per quanto concerne il rapporto con la nuova amministrazione americana, non sono emerse delle dichiarazioni specifiche, a parte vaghi auspici di collaborazione. E’ sintomatico però il fatto che il Likud abbia smentito pubblicamente l’informazione contenuta nell’autobiografia dell’ex Presidente Bill Clinton di aver mostrato in passato, nel 1999, una certa apertura sulla cessione del Golan. Ciò sembrerebbe rispondere più a una necessità elettorale che ad un effettivo desiderio di distanziarsi dalle politiche americane per la regione, ma segna comunque la sconfessione pubblica di un determinato progetto politico americano per il Medio Oriente – che presumibilmente era molto simile a quello che verrà proposto dall’amministrazione Obama.
In ultima analisi, la dimensione internazionale dei rapporti di Israele con il mondo arabo, e soprattutto con i Paesi più problematici, non ha determinato gli esiti di queste elezioni. L’assenza di un dibattito serio sul Libano, in particolare, appare poco lungimirante da parte delle autorità israeliane, consapevoli delle potenzialità di ripresa del conflitto in qualsiasi momento.
Come si può spiegare tale miopia se non come l’ulteriore manifestazione dell’etnocentrismo e dell’autoreferenzialità assunte dal dibattito pubblico ed elettorale israeliano? L’azione Piombo Fuso, nella sua palese sproporzione rispetto ai pericoli effettivamente corsi dallo Stato di Israele e dai suoi civili, sembra stare ad indicare proprio questa tendenza. Ed è una tendenza decisamente pericolosa, con la contraddizione di un Paese fortemente frammentato al proprio interno ma alla costante ricerca di un “governo forte” perché non può permettersi, nell’effettivo stato di guerra in cui si trova, una guida debole e “a più voci”.