La percezione iraniana della visione saudita

È stata accolta con un malcelato scetticismo, a Teheran, la divulgazione dell’ambizioso piano saudita di sviluppo economico e diversificazione industriale conosciuto come Vision 2030.

Il documento, presentato con grande enfasi a Riyad alla fine di aprile, illustra i tre pilastri dello sviluppo saudita per il prossimo quindicennio: il riconoscimento del suo speciale ruolo religioso nel mondo musulmano; la determinazione a diventare un polo di attrazione per gli investimenti globali; la diversificazione industriale in chiave post-petrolifera, con lo sviluppo di una vasta ed eterogenea gamma di settori produttivi, minerari e non. Naturalmente, si tratta un programma politico-economico che rispecchia in pieno gli interessi della dinastia saudita al potere.

Sicuramente complice il non facile momento nelle relazioni bilaterali tra Iran e Arabia Saudita, questa “visione” saudita al 2030 è stata percepita a Teheran più come un esercizio di diplomazia per rassicurare i partner occidentali che non come una vera e fattibile linea programmatica per la modernizzazione del paese. Il documento, certamente ambizioso e innovativo nei termini generali, viene giudicato altamente irrealistico e disperatamente fuori tempo: lo si interpreta quindi come una richiesta di sostegno soprattutto agli alleati occidentali, in una fase particolarmente critica per la politica e l’economia saudita.

È necessario sottolineare come particolarmente limitata sia la fiducia accordata al giovane principe Muhammad bin Salman in seno all’establishment iraniano, che lo considera alla stregua di un usurpatore del potere all’interno della stessa famiglia reale degli Al Saud, oltre che l’artefice principale non solo dell’attivismo politico e militare saudita – apertamente anti-iraniano e comunque destabilizzante per la regione – ma anche del disastroso dissesto economico.

Teheran lamenta da tempo la difficoltà nell’individuare una linea di dialogo con la dirigenza saudita a Riyad, e accusa apertamente il giovane principe Muhammad bin Salman di aver determinato una brusca e radicale chiusura delle relazioni con l’Iran, attraverso una politica regionale costruita sul settarismo e sull’istigazione proprio contro l’Iran e le comunità sciite.

Sono molteplici gli aspetti che non convincono Teheran in relazione alla Vision 2030. Il primo “pilastro” del programma, ad esempio, chiama a raccolta la comunità musulmana globale in direzione dei luoghi sacri e della loro custodia: gli iraniani sospettano dunque che l’Arabia Saudita voglia approfondire la sua strategia settaria, da tempo adottata, in funzione di un contenimento dell’Iran nella regione e sul piano globale.

Sono tuttavia il secondo e il terzo punto del piano ad allarmare maggiormente gli iraniani. La volontà di creare un hub per gli investimenti finanziari e di avviare un poderoso progetto di diversificazione industriale in Arabia Saudita sono visti come un tentativo per scongiurare il rientro post-sanzioni dell’Iran nel mercato energetico globale. La Vision 2030, quindi, viene letta in Iran come un – forse postumo e disperato – tentativo di Riyad di riguadagnare la fiducia dei tradizionali alleati occidentali offrendo un modello di sviluppo che torni a essere innovativo e appetibile per la finanza e gli investitori globali.

Non a caso infatti, nella strategia di comunicazione del programma i sauditi fanno esplicito riferimento al fondatore del regno e della dinastia, il re Abdulaziz Al Saud. In tal modo, con una specie di richiamo alle origini, si cerca offrire un’immagine più rassicurante all’opinione pubblica internazionale, ormai insofferente di fronte alle intemperanze e ai radicalismi prodotti negli ultimi tempi dalla corona saudita.

Se il giudizio di Teheran sul piano di Riyad è particolarmente negativo, tuttavia, è necessario sottolineare come questa circostanza sia in larga misura provocata dalla mancanza di una vera e propria capacità di interazione con i vertici del regno. Ha finora contato più L’emotività del momento non ha preceduto una valutazione più accurata.

È evidente in questo momento a Teheran l’incapacità, soprattutto in seno agli esponenti della prima generazione giunta al  potere con la Rivoluzione del 1979, di stimolare e gestire un dialogo virtuoso con Riyad. D’altro canto, quegli esponenti della corte saudita legati da rapporti personali di amicizia o stima politica con i loro omologhi iraniani rappresentano di fatto oggi l’opposizione all’attuale sovrano; inoltre si stanno dimostrando incapaci non solo di gestire il rapporto bilaterale ma anche di aprire  nuovi e più proficui canali.

In effetti, la leadership iraniana ha più volte cercato di favorire la ripresa del dialogo, soprattutto in chiave di sicurezza regionale, senza però riuscirci. Il rapporto con Riyad attualmente soffre le mosse saudite in politica estera: a Teheran le considerano null’altro che strategie anti-iraniane. L’Arabia Saudita è vista come il principale fautore delle instabilità politiche e militari del Medio Oriente, ed è accusata di mobilitare il settarismo anti-sciita anzitutto contro l’Iran.

Ma ancor di più, l’Iran percepisce l’ostilità dell’Arabia Saudita dalle scelte politica economica ed energetica. La strategia di massimizzazione della produzione petrolifera atta a determinare (o quantomeno rischiare) il collasso dei prezzi è vista a Teheran come un deliberato tentativo di impedire all’Iran di fruire dei benefici della revoca delle sanzioni, manipolando l’OPEC a tale fine. Il fallimento dell’ultimo vertice dell’Organizzazione a Vienna è stato determinato dal rifiuto dell’Iran di congelare la produzione ai livelli dello scorso gennaio – decisione che l’Iran ha denunciato come un palese tentativo di arrestare la sua ripresa produttiva.

Dopo una fase di vertiginosi aumenti, infatti, l’Arabia Saudita ha di fatto chiesto ai membri dell’OPEC di bloccare la produzione all’apice delle rispettive possibilità, chiedendo invece all’Iran di congelarla ai valori dello scorso gennaio, di poco antecedenti alla ripresa della produzione post-sanzioni. L’Arabia Saudita ha poi rifiutato la controproposta iraniana che chiedeva una deroga sino al raggiungimento dei valori produttivi pre-sanzioni. Il summit è così fallito, lasciando l’OPEC nel caos, senza una strategia complessiva per i prossimi mesi.

Per finire, la Vision 2030 è oggetto a Teheran di critiche e ironie per quanto riguarda il piano di sviluppo culturale e sociale del regno. Agli occhi degli iraniani si tratta di un tentativo puerile di dimostrare all’estero una volontà modernizzatrice e liberale che invece non solo è del tutto assente in Arabia Saudita, ma è anche difficilmente realizzabile per colpa del rigido sistema religioso e del verticismo politico locale.

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