Un’arma di distrazione di massa a uso interno, che però può esporre la Siria e il Vecchio Continente a un rischio terroristico che si sarebbero evitate volentieri. Ma ormai il dado è tratto, e l’unica cosa che ci si può augurare è che l’invasione della Turchia nel nord della Siria abbia un’estensione limitata e duri il meno possibile. Gli estremi perché questo succeda ci sono tutti.
Per quanto riguarda il punto fino a cui spingersi, Ankara sa perfettamente che più penetra verso l’interno della Siria, più ha possibilità di trovarsi di fronte l’esercito del presidente Bashar al-Assad. In quel momento l’irritazione del Cremlino, alleato per opportunismo alla Mezzaluna ma scontento di un’invasione che mette a rischio i piani russi per il dopoguerra siriano, aumenterebbe considerevolmente. La Turchia rischierebbe una sonora batosta in quello che considera uno dei suoi fiori all’occhiello: il valore militare. L’esercito turco è numeroso, ma le purghe dopo il fallito golpe del luglio 2016 hanno portato in carcere molti tra i graduati migliori, sostituiti con altri forse più fedeli, ma di sicuro meno esperti e preparati. Ed è accaduto anche nell’intelligence.
Per quanto riguarda invece la durata, l’idea è che questa invasione non durerà a lungo: il tempo di togliere ai curdi qualche posizione strategica nel nord-est della Siria. Dopo, Recep Tayyp Erdoğan potrà tornare a casa da vincitore, sapendo comunque che non ha sconfitto assolutamente nulla.
Ma questa operazione è cruciale per il presidente turco almeno per quattro motivi. Il primo è l’atto simbolico: l’aver passato nuovamente, dopo l’acquisto del sistema missilistico russo S-400 i paletti della NATO senza che l’Alleanza Atlantica abbia sostanzialmente reagito. Il secondo è l’arma di distrazione di massa: l’operazione può allontanare per qualche tempo i pensieri dei turchi, soprattutto del ceto medio, dalla situazione economica, che è disastrosa. Il terzo è la leva sul sentimento anti-curdo e adesso anche anti-siriano della popolazione, per recuperare una parte dei consensi persi negli ultimi mesi, servendosi di quel minimo comune denominatore che in Turchia unisce tutti: il nazionalismo. In questo periodo, il presidente Erdoğan ne ha particolarmente bisogno. Le recenti dimissioni di due ex ministri importanti, come Ali Babacan e Ahmet Davutoğlu e le voci di un nuovo partito che avrebbe dietro niente meno che l’ex presidente della Repubblica, Abdullah Gül, devono avere suggerito al Capo di Stato che era il momento di sparigliare le carte e creare una situazione di emergenza nazionale che disincentivasse qualsiasi nuova iniziativa politica. Il quarto motivo è che così Erdoğan ha in mano una nuova arma per compiere repulisti fra gli oppositori.
E infatti, nelle ore successive all’inizio dell’invasione, sono finiti sotto processo con tanto di richiesta di incarcerazione i responsabili dei siti web Birgün e Diken. L’accusa è quella di aver permesso la pubblicazione di articoli considerati oltraggiosi nei confronti dell’operazione militare. Chi frequenta la Turchia sa che queste due testate sono quanto mai particolari, perché si tratta di due delle poche piattaforme web rimaste a fare informazione senza censure e sui quali è possibile trovare notizie depurate dalla propaganda.
Ma le messe in stato di accusa che stanno fioccando in queste ore riguardano anche deputati e militanti curdi in Turchia. Il capo di accusa è “propaganda a organizzazione terroristica” (“terrorista” è la definizione con cui Ankara etichetta molte organizzazioni politico-sociali curde); di fatto però anche in questo caso basta una semplice critica a Barış Pınarı Hakeratı, l’Operazione sorgente di pace, come è stato deciso di chiamare la (ulteriore) penetrazione militare nel nord della Siria, per rischiare il carcere.
Eppure apparentemente Erdoğan gode dell’appoggio di tutte le forze politiche del Paese (curdi esclusi). All’annuncio che l’invasione della Siria stava iniziando, gli altri principali partiti si sono affrettati ad aderire, in nome della sicurezza e dell’interesse nazionale. Fra questi c’è anche il CHP, il Partito repubblicano del Popolo, maggiore voce dell’opposizione e sulla carta di orientamento laico e liberale. In realtà, la maggior parte dei suoi componenti appoggia le politiche del presidente sia sul capitolo rifugiati siriani sia su quello curdo.
E anche se ci fosse qualche voce fuori dal coro, difficilmente parlerebbe ora. Da settimane infatti all’interno dei repubblicani si era diffusa la voce che Erdoğan era pronto a una nuova ondata di purghe e avrebbe potuto usare una possibile operazione in Siria come pretesto. A tacere c’è anche Ekrem Imamoğlu, il neo eletto sindaco di Istanbul e da molti considerato l’uomo del cambiamento che però, va ricordato, oltre a venire da una corrente conservatrice del CHP, pur essendo stato eletto anche grazie ai voti dei curdi, ha basato gran parte della sua campagna elettorale sull’allontanamento dei rifugiati siriani. E non è un mistero che il governo voglia sgranocchiare fette di territorio alla Siria proprio per dislocare laggiù i quasi 4 milioni di rifugiati siriani ospitati oggi dalla Turchia.
Chi ha preso posizione contro, in modo forte, sono stati i sindacati, preoccupati per il costo economico e l’impatto sulle condizioni di vita della popolazione della nuova azione militare. Come detto, su questo capitolo i turchi sono dalla parte del Presidente, e vedono ormai nell’Occidente un nemico tanto quanto i curdi che stanno combattendo; tuttavia, non si deve dimenticare che la priorità per tutti è quella di veder uscire il Paese dalla crisi economica.
C’è poi il rapporto ondivago con gli Stati Uniti. Se la Turchia da una parte persegue una sorta di doppio binario, che la porta a essere alleata di Vladimir Putin, ma in contatto anche con Washington, dall’altra parte il presidente americano, Donald Trump, sta prendendo tempo e in un primo momento sembrava avere in qualche modo avallato l’operazione militare, adesso, complici anche le pressioni che arrivano dallo stesso partito Repubblicano, sta cercando una mediazione. L’impressione è quella che l’operazione militare fosse stata pattuita da tempo, con ambiti e zone ben delimitate e che con questa concessione la Casa Bianca cercasse di “recuperare” Ankara e riportarla nell’alveo della NATO, soprattutto dopo la crisi del sistema missilistico S-400 acquistato dalla Russia e l’esclusione di Ankara dal programma F35.
Considerata la situazione, il Presidente turco cerca di ottenere il massimo, a seconda dei capitoli, ora dall’alleato russo, ora da quello americano. L’obiettivo di Erdoğan è quello di giocare la sua partita da solo, sfruttando le potenzialità del “pendolo” diplomatico. Dovrà dunque minimizzare l’idea che quello nel nord della Siria più che una incursione militare sembra un contentino concesso per tenerlo buono; ma soprattutto dovrà evitare che questa impostazione corsara delle relazioni internazionali finisca per isolare la Turchia, rendendola ancora più vulnerabile quando una delle due parti, gli Stati Uniti o la Russia, deciderà che è arrivato il momento di attuare una stretta.