La nuova sfida egiziana e la traccia della Primavera araba

 Il Presidente egiziano Abdel Fatah al-Sisi è stato oggetto di alcune proteste di piazza piuttosto massicce nel mese di settembre. E’ un fatto inusitato per lui, che ha ricostruito un regime fortemente repressivo sulle ceneri della lunga eredità di Hosni Mubarak e della breve stagione della Fratellanza Musulmana al potere (tra il giugno 2012 e il luglio 2013). La reazione è stata dura e ha portato ad arresti di massa.

Le ultime proteste sono un segnale importante per ricordare la fragilità del “patto sociale” che regge per ora diversi Paesi mediorientali, oltre l’Egitto. Lo conferma del resto l’esplosione di un apparentemente improvviso movimento di piazza, a inizio ottobre, anche a Baghdad e in altre zone dell’Iraq meridionale (represso con violenza), per contestare alcune scelte specifiche del governo di Adel Abdul Mahdi (del maggiore partito sciita del Paese): l’impressione è che siano le condizioni complessive di vita ad aver ispirato le proteste, con al centro il cronico problema della corruzione politica.

Una veduta del Cairo con la Moschea al-Azhar in primo piano

 

Prima ancora, le vicende algerine e sudanesi della prima metà del 2019, con altre enormi proteste di piazza seguite da qualche cambiamento al vertice (sebbene nulla di radicale) sembravano già aver riattivato alcuni meccanismi che si erano visti all’opera dal 2011 con la cosiddetta “Primavere Araba”. Come si dice spesso – e giustamente – la storia non si ripete, ma fa rima.

Va ricordato anzitutto che sono ancora presenti tutti i medesimi fattori sottostanti che hanno prodotto le contestazioni, le proteste di piazza, e in alcuni casi gli scontri violenti della Primavera. Nella sostanza politico-socio-economica della regione, poco o nulla è cambiato. L’unica vera eccezione è la Tunisia, che vive tuttora una difficile e incerta transizione, caratterizzata quantomeno da un certo consenso su principi pluralisti, aperti e in buona parte laici.

Detto ciò, esistono però alcune differenze rispetto al 2011, legate al fatto stesso che sono passati circa otto anni e la storia non si ferma. La prima differenza è che nei Paesi in cui si è avuta una sorta di piena restaurazione – come nel caso egiziano – non si è verificato alcun miglioramento delle condizioni di vita, cioè nessun vantaggio diffuso per la popolazione. In altre parole, se il prezzo della stabilità in Egitto è un nuovo regime autoritario (dopo il breve periodo burrascoso dei Fratelli Musulmani al governo), certamente questo regime non è in grado di far evolvere il Paese oltre i livelli di benessere (e ovviamente di libertà civili) che esistevano nel trentennio di Hosni Mubarak. E ciò a dispetto della grande opportunità offerta dal ritrovamento dei giacimenti offshore di gas naturale nel 2015. Non si sfugge alla conclusione che il sistema politico egiziano sia stato finora incapace di sfruttare davvero una straordinaria occasione di sviluppo.

Una seconda differenza significativa sta nell’esperienza di ISIS in Iraq e Siria: nei due luoghi che hanno subito il maggiore tasso di violenza in questi anni (l’Iraq in modo quasi ininterrotto dal lontano 2003) l’opzione radicale islamista ha mostrato il suo potenziale distruttivo, ma anche tutti i propri limiti: il “Califfato” ha avuto vita breve e scarso spazio politico, scatenando reazioni durissime da parte di molti attori internazionali (regionali e non) che ne hanno impedito il radicamento sul territorio. Ciò non implica la fine dell’ideologia che ha ispirato e alimentato ISIS, ma certo suggerisce che il suo raggio di azione sarà sempre molto circoscritto come forza politica organizzata che aspira a farsi entità statuale.

Una terza differenza, dalle implicazioni più ambigue, è relativa ai rischi percepiti di un collasso delle strutture statuali, come dimostra il caso siriano in molte parti del Paese e quello libico in modo quasi completo. L’enorme difficoltà nel ricostruire un tessuto statuale (politico e amministrativo) in Iraq dopo l’abbattimento del regime di Saddam Hussein conferma peraltro che il problema è piuttosto generalizzato, pur con tutte le specificità di ciascun Paese.

La combinazione di queste esperienze, piuttosto ben note ai cittadini di tutti i Paesi arabi, sembra privare i possibili movimenti di protesta di quasi ogni opzione e visione politica con cui contrastare i regimi al potere. Ovunque si volgano in cerca di modelli plausibili, trovano in effetti fallimenti e talvolta una vera spirale di violenza. Da ciò deriva un netto abbassamento delle aspettative, anche tra i piccoli strati delle popolazioni che nutrono ancora qualche speranza di un cambiamento profondo, pacifico e duraturo.

Al contempo, i governi al potere sono altrettanto coscienti di queste spinte dal basso che comunque ci sono, e stanno tentando in vari modi di non farsi superare dagli eventi – come in fondo dimostra la presa di posizione dei militari in Algeria, che certo non preannuncia politiche liberali o progressiste, ma segnala quantomeno una preoccupazione. Aggrapparsi semplicemente alla presunta stabilità assicurata dai regimi esistenti non è una soluzione valida, anche se alcuni sono tuttora tentati da questa strada tradizionale. E’ possibile allora che qualche germoglio sia stato piantato con le primavere arabe, e che stia crescendo sottotraccia: l’idea che i governi hanno una responsabilità verso la società civile, ulteriore rispetto al mantenimento a tutti i costi dell’ordine pubblico.

Le Primavere sono in larga misura fallite in quanto “rivoluzione”, ma potrebbero rivelarsi un passaggio decisivo in quanto avvio di una vasta trasformazione nel medio termine. Non si deve sottovalutare la forza carsica del mutamento sociale perfino nelle condizioni politiche apparentemente più avverse.

Certo, gli ostacoli lungo questa via restano moltissimi, e ciò lascia anche l’Europa in una situazione difficile, vista la prossimità geografica: come ha scritto recentemente Walter Russel Mead, l’Occidente non è più visto realmente come un modello rapidamente applicabile alla regione – cosa evidente nel caso egiziano, e ancor più in quello saudita, guardando solo ai due paesi che tradizionalmente sono punti di riferimento per i loro vicini. D’altra parte, sulla sponda Nord del Mediterraneo non possiamo né risolvere i problemi del mondo arabo né del tutto ignorarli. Intanto, molti giovani nati in Medio Oriente vedono l’emigrazione come l’opzione più ovvia. Siamo insomma destinati, volenti o nolenti, a convivere a stretto contatto; sperando che lo spirito costruttivo della Primavera abbia lasciato una traccia positiva e segua i percorsi meno pericolosi e violenti.

Questo esito appare oggi nuovamente in bilico, soprattutto guardando al clima politico in Egitto: se il Presidente vede se stesso come l’ultimo e unico baluardo contro la deriva islamista o della guerra civile, si avvierà fatalmente lungo la strada già seguita da Mubarak. La speranza è invece che comprenda e accetti i limiti del suo ruolo, lasciando aperta una via diversa, fatta di faticosi compromessi politici e di maggiore sensibilità per le richieste dei cittadini.

 

 

 

Questo articolo è una versione aggiornata di un precedente Editoriale.

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