La nuova legislatura europea ai blocchi di partenza

Il fascino e il riflesso automatico del calcolo per nazionalità nel giudicare le nuove nomine ai posti più in vista nelle istituzioni europei ha contagiato molti. La nomina di Ursula von der Leyen alla testa della Commissione e quella di Christine Lagarde al posto di Mario Draghi esprimerebbero la vittoria dell’asse franco-tedesco. La scelta del liberale belga Charles Michel alla presidenza del Consiglio europeo, quella del socialista spagnolo Josep Borrell alla guida della politica estera dell’UE e quella del dem italiano David Sassoli alla presidenza del Parlamento completerebbero un quadro che, se giudicato in questi termini, ci riporterebbe a un’Unione “occidentale”, precedente addirittura alla caduta del Muro, dove gli stati e le famiglie politiche “storiche” fanno il bello e il cattivo tempo.

L’entrante e l’uscente presidente della Banca Centrale Europea

 

Naturalmente è altrettanto facile, a uno sguardo più attento, accorgersi che non è così. La scorsa legislatura europea (2014-2019) ha visto queste cinque posizioni occupate da ben tre italiani (Mario Draghi alla BCE, Antonio Tajani al Parlamento, Federica Mogherini come Alta rappresentante), più il lussemburghese Jean-Claude Juncker alla Commissione e il polacco Donald Tusk al Consiglio europeo. Un vero dominio per l’Italia, ma è bastato questo a rendere l’Unione Europea “italiana” negli scorsi anni?

Nessun francese era tra i “top five”, eppure Parigi è stata capace di avere un’influenza sostanziale sugli affari europei grazie alla presenza del socialista Pierre Moscovici alla Direzione generale per l’Economia e di Michel Barnier alla testa dei negoziati sulla Brexit: due posizioni-cardine nell’architrave politico-istituzionale che gestisce nei fatti il potere all’interno dell’Unione Europea. Allo stesso tempo la Germania si è accontentata per cinque anni di essere rappresentata solo dal poco conosciuto commissario Günther Oettinger (prima agli Affari digitali, poi al Bilancio e Risorse umane): non per questo, naturalmente, ha smesso di essere il punto di riferimento delle decisioni prese in seno o ai margini del Consiglio europeo, dove vengono fatte le scelte che più contano.

Ed è stato anche stavolta il Consiglio europeo il luogo dove il rebus politico è stato risolto. Un rebus più nebuloso che in passato, perché nel 2014 il principio dello Spitzenkandidat, il capolista indicato da ogni partito come candidato alla testa della Commissione prima delle elezioni, era stato rispettato. Juncker, capolista del partito popolare, era stato scelto proprio perché il partito popolare era stata la forza politica più votata nel complesso delle elezioni europee di cinque anni fa. A rigor di logica, il bavarese Manfred Weber sarebbe dovuto essere il suo successore, capolista designato dal partito popolare, cartello più votato anche nel 2019.

Manfred Weber era il successore designato di Jean-Claude Juncker

 

Quel legame tra il voto degli elettori e le nomine europee, però, è stato reciso. Per cominciare, alcuni tra i capi di stato e di governo che compongono il Consiglio europeo hanno valutato che il socialista Frans Timmermans avrebbe avuto i numeri per essere nominato, anche se i socialisti non erano stati affatto il gruppo più votato dagli elettori europei, mentre Weber sarebbe stato dirottato ad altra carica.

Nuove alleanze si stavano tessendo, nuove alleanze in cui un fronte ampio, dalla sinistra radicale ai liberali, immaginava di rovesciare l’egemonia popolare grazie a una nuova maggioranza nel Consiglio europeo e in Parlamento. Nella tessitura, sancita da un accordo informale tra Francia, Germania, Spagna e Paesi Bassi raggiunto a fine giugno ai margini del G20 di Osaka (un momento e un sito anche simbolicamente davvero lontani dalle elezioni europee), qualcosa però è andato storto: una minoranza di blocco di sette paesi è intervenuta a sparigliare la nuova intesa, minacciando di affondarla con una bocciatura bruciante nel Consiglio europeo. “E’ più facile eleggere il papa”, chiosava il premier irlandese Leo Varadkar.

I capi di stato e di governo sono tornati a riunirsi l’indomani, trovando una soluzione che rovesciava lo scenario precedente: il partito popolare tornava ad accaparrarsi le poltrone più ambite. Ma non con Manfred Weber, vittima sacrificale della fallita offensiva socialista-liberale: al suo posto veniva pescata la ministra della Difesa tedesca Ursula von der Leyen, presente nei governi Merkel sin dal 2005. Insieme a lei, la ex presidente del FMI (ma anche ex ministra nei governi di François Fillon sotto la presidenza Sarkozy in Francia) Christine Lagarde saliva alla Banca Centrale.

Ursula von der Leyen con alcuni soldati tedeschi

 

Ai socialisti che avevano accarezzato la presidenza della Commissione, invece, venivano assegnati posti di prestigio ma di scarsa sostanza: Borrell come Alto rappresentante e Sassoli come presidente del Parlamento. Un boccone così amaro che la SPD, partner di coalizione al governo di Berlino, costringeva paradossalmente Angela Merkel ad astenersi nella votazione finale.

Ma quelli di Timmermans e Von der Leyen sono dei profili così diversi? Certamente lo sono per storia ed esperienza politica. Timmermans è un olandese di origine cattolica e di formazione internazionale, che è stato funzionario e burocrate di stato prima di entrare in politica e occuparsi soprattutto di politica estera con il partito laburista. Von der Leyen, di lignaggio aristocratico ma anche di famiglia già coinvolta in politica, ha da sempre respirato aria di istituzioni europee grazie al padre Albrecht, tra gli estensori del Trattato di Roma del 1957 e tra i funzionari preminenti della prima Commissione europea, poi uomo politico in Germania. Ma due hanno in comune alcuni tratti decisivi: entrambi non hanno alle spalle una storia di militanza, sono invece stati scelti per le loro cariche ministeriali grazie alle loro qualità esperienziali e relazionali, e a una provata affidabilità tecnica. Ed entrambi sono abituati a muoversi in una logica di coalizioni larghe, che includono popolari, socialisti e liberali, la logica di stampo mitteleuropeo che è stata traslata nell’Unione. Si tratta dunque di due caratteristiche fondamentali per il successo nella politica bruxellese – caratteristiche che, inoltre, garantiscono contro eventuali deviazioni dall’attuale ortodossia politico-economica.

I liberali, che fino al giorno prima disegnavano innovativi equilibri politici continentali, e che invece finivano per benedire la ri-affermazione dei popolari, al quarto mandato consecutivo alla testa della Commissione dopo la doppietta Barroso e Juncker, ottenevano l’importante posto di mediazione alla testa del Consiglio europeo con il belga Charles Michel. Una scelta che, in mancanza di meglio, il presidente francese Emmanuel Macron, punto di riferimento del fronte liberale, salutava come “una vittoria della francofonia”, non potendo rivendicare troppo apertamente la fine del sistema degli Spitzenkandidat come una vittoria propria. Il presidente francese, inoltre, spera che Christine Lagarde riesca – come Mario Draghi – a tenere la barra della politica monetaria nella direzione di politiche almeno moderatamente espansionistiche, che darebbero respiro alla spesa pubblica di Paesi indebitati come la Francia.

Come se non bastasse questa dimostrazione delle logiche quantomeno sfuggenti, oscure e imponderabili che reggono la politica europea – il nome di Ursula von der Leyen non era mai stato fatto in precedenza, e certamente non agli elettori – , nella casella del Parlamento i socialisti decidevano di disfare l’accordo che prevedeva la nomina del bulgaro Sergei Stanishev, preferendo invece Sassoli – forse per “vendicare” il mancato sostegno a Timmermans da parte dei Paesi dell’Europa centro-orientale, e senza nemmeno ottenere la maggioranza alla prima votazione di ratifica, a riprova dei profondi dissensi tra gli eurodeputati. Un bottino magro per il capo del governo spagnolo Pedro Sánchez, capo negoziale del gruppo socialista, arrivato a Bruxelles sulle ali dell’ottimismo, costretto a tornare a Madrid senza le sponde politiche desiderate per il suo esecutivo, rifugiatosi anche lui nel valorizzare la nomina di Borrell come prova che “la Spagna è tornata”. Timmermans, quanto a lui, si accontenterà della vice presidenza che già occupava, assieme alla liberale Margrethe Vestager, anche lei “stella caduta” di questo giro di nomine. Nessuna notizia dello Spitzenkandidat Weber, a cui resta la poltrona di capogruppo del suo partito all’Eurocamera.

Pedro Sánchez e Frans Timmermans speravano in un esito diverso delle nomine europee

 

Il parlamento, appunto, è stato politicamente “suonato” dall’affondamento del sistema dei capolista, di cui era sponsor principale. I gruppi sono divisi, scontenti ed estenuati al loro interno dopo la lunga lotta, finita con una dimostrazione schiacciante della preminenza della volontà degli stati e dei compromessi tra governi sulle istituzioni sovranazionali. Lo dimostra l’esclusione dei Verdi, nonostante la grande crescita elettorale, da ogni discussione sui cinque posti preminenti. L’esclusione di esponenti di paesi dell’Europa centro-orientale è altrettanto clamorosa. Lo stesso Jean-Claude Juncker ha espresso rammarico per un procedimento “non trasparente”.

Non sarà così semplice dunque per von der Leyen trovare i voti per ratificare, nella plenaria del 16 luglio a Strasburgo, la volontà del Consiglio europeo. Se il parlamento accetterà, entro ottobre la lista dei nuovi membri della Commissione dovrà essere completata. Tra i dossier più urgenti, l’accordo di divorzio con il Regno Unito e le nuove linee di politica economica.

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