La nuova fase irachena della grande questione curda

I curdi della Regione autonoma in Iraq hanno finalmente celebrato il loro storico e tanto atteso referendum, lunedì 25 settembre 2017. Com’era stato ampiamente previsto, i “sì” alla richiesta di indipendenza da Baghdad hanno stravinto. Le operazioni di voto sono state considerate valide dagli osservatori internazionali: tuttavia, sono stati per ora diffusi solo dati complessivi relativi alla partecipazione (circa il 72% degli aventi diritto, su circa quattro milioni e mezzo di ammessi al voto) e alla consistenza dei “sì” (oltre il 92%) e “no”. La scelta di non diffondere (ancora) dati più dettagliati impedisce di analizzare pienamente gli esiti del referendum, in particolare nelle aree contese (cioè aree la cui appartenenza alla regione autonoma è contestata dal governo iracheno, tra cui la grande e ricca città di Kirkuk) e nelle città dove forte è stata la campagna contro Masoud Barzani, presidente del Kurdistan iracheno da 12 anni.

Combattenti curde festeggiano l’esito del referendum

 

Quello che accadrà, ad annunciarlo è stato lo stesso presidente Barzani, è l’avvio di trattative con il governo di Baghdad, anche se, per ora, non è per nulla chiaro come saranno condotte. Innanzitutto pesa la particolare natura costituzionale del rapporto con l’Iraq. La Regione autonoma curda, con capitale Arbil, gode di poteri propri dalla fine della prima Guerra del golfo, quando anche grazie alla no fly zone internazionale i curdi riuscirono a liberarsi dall’esercito di Baghdad e a imporre una propria sovranità de facto.

La costituzione del 2005 appare una formula compromissoria dai tratti estremamente ambigui che non delega ai curdi alcun potere, ma si limita a riconoscere e legittimare nel progetto federale una situazione di fatto: non è un caso che più di un interprete ritenga che l’Iraq post-Saddam più che uno Stato federale sia una federazione tra l’Iraq propriamente detto e la Regione curda. Per ora, comunque, il governo iracheno ha annunciato di non voler avviare alcuna trattativa con Arbil, ha chiesto di annullare il risultato referendario e ha preso anzi alcune misure “punitive”, come la chiusura dei due aeroporti nella regione ai voli internazionali

Il presidente Barzani puntava a una grande giornata popolare di orgoglio curdo e, indubbiamente, il referendum è un suo successo. Il presidente intende capitalizzarlo già alle prossime elezioni per il parlamento fissate a novembre: conta qui di fare nuovamente del proprio partito la prima forza politica del paese.

Sul piano interno, il referendum è stato un mezzo per superare la crisi politica nella quale la Regione autonoma si dibatte da tempo. Dopo la presa di Mosul, città di importanza fondamentale strappato alle forze dell’ISIS nell’estate 2017, Barzani doveva fronteggiare la richiesta di riaprire il parlamento, chiuso da due anni, e di nuove elezioni; ha invece convocato il referendum, compattando il suo partito e garantendosi il controllo della regione autonoma per l’intera durata delle eventuali trattative.

A destare maggiore preoccupazione nella Regione autonoma è l’impermeabilità a qualsiasi processo di trasformazione politica: il referendum è appunto un successo personale di Barzani e del suo partito, il PDK (Partito democratico curdo). Ma è ovviamente un potenziale problema il fatto che le opposizioni siano stato travolte: l’uso quantomeno spregiudicato della questione nazionale da parte di Barzani ha messo in crisi le altre forze politiche, per niente felici di contribuire al successo personale del presidente, ma impossibilitate a schierarsi contro la sua iniziativa referendaria. In particolare Gorran, il partito politico che più ha contrastato Barzani negli ultimi anni, dopo una lunghissima riunione del suo direttivo ha finito per lasciare ai propri membri libertà di votare secondo coscienza. Lo stesso leader di Gorran, Omar Ali, si è poi recato al seggio per votare “sì”. Barzani è riuscito così a legittimare, ex-post, l’emergenza istituzionale degli ultimi quattro anni, da quando cioè in realtà il suo mandato è scaduto.

Le conseguenze di questa dinamica sono però ben più consistenti del solo destino politico di Barzani e del PDK: la mobilitazione popolare seguita all’annuncio del referendum – di per sé un fatto quasi ovvio, vista la rilevanza della questione nazionale per i curdi – ha nuovamente compattato le tradizionali espressioni della rappresentanza politica: non solo il PDK di Barzani ma anche l’UPK (su posizioni alternative a quelle del PDK, con il quale si determinò la sanguinosa guerra civile di metà anni novanta che hanno animato l’intera storia recente del Kurdistan meridionale.

Gli elementi di novità più freschi e più genuini – non solo Gorran ma anche, più in generale, una mobilitazione di lavoratori e intellettuali per migliori condizioni di vita nella Regione, il nuovo partito di Barham Salih, storico dirigente dell’Unione Patriottica del Kurdistan, e il movimento No for now del costruttore e uomo d’affari Shaswar Abdulwahid – sono stati travolti dal loro dilemma: l’impossibilità di trovare una “terza via” tra l’accettare i termini di Barzani (come ha fatto ad esempio, pragmaticamente, l’UPK) e l’opporsi al referendum, alienandosi così le simpatie di gran parte della popolazione.

Barzani consegue così con l’uso spregiudicato del referendum il doppio risultato di silenziare le opposizioni, vecchie e nuove, e di proporsi come l’unico leader che potrà trattare con Baghdad, assicurandosi un ulteriore mandato politico:  ecco perché ha persino annunciato che le trattative con il governo centrale dureranno non meno di due anni e in questa direzione va anche la scelta, subito contestata dalle opposizioni, di trasformare l’Alto consiglio per il Referendum in una nuova istituzione non prevista dalla Costituzione, la Guida politica del Kurdistan.

Quanto ai rapporti con l’Iraq, la scelta di Barzani di indire il referendum consultivo conteneva due messaggi al governo di Baghdad: avviare delle trattative per raggiungere l’indipendenza in modo pacifico e concordato ma, soprattutto, ribadire nuovamente la sovranità curda sulle regioni contese e, in particolare, su Kirkuk. Ed è proprio quest’ultima pretesa che non può essere tollerata da Baghdad, vista la centralità strategica ed economica della città (e, in generale, la rilevanza territoriale delle aree contese che aumenterebbe sensibilmente l’estensione della regione curda). A Kirkuk si rischia un conflitto, vista l’indisponibilità delle parti a trattare e la vicina presenza delle milizie popolari sciite Al-Hashd Al-Sha’abi, che hanno già avvertito di non tollerare alcuna menomazione territoriale.

Il referendum è stato particolarmente osteggiato dai vicini regionali, Turchia (che ha addirittura svolto esercitazioni militari al confineinsieme all’Iraq), Iran e Siria; e vissuto come un problema da Stati Uniti e Unione Europea.

Tuttavia, dietro la comune e apparente irritazione si nascondono strategie diverse. La Siria teme un processo simile per le proprie aree occupate dai curdi che metterebbe in crisi definitiva l’esistenza dello Stato siriano. Un Kurdistan ai propri confini è storicamente l’incubo dei governanti turchi: da qui le parole dure di Recep Erdoğan e dei suoi ministri a proposito del referendum. Ma in effetti il governo di Ankara, nonostante la formale opposizione, potrebbe accettare la nascita di uno Stato curdo limitato ai confini della Regione autonoma irachena, che in gran parte è già dipendente dall’economia turca: ciò sia in chiave anti-PKK (il movimento curdo in Turchia che da anni lotta contro il governo), vista la storica alleanza tra Ankara e Arbil contro il PKK; sia come deterrente contro l’Iran. Da rimarcare la posizione di Khamenei che nei giorni scorsi ha bollato il referendum come un errore, non dimenticando di sottolineare il ruolo israeliano nella vicenda: proprio il governo di Tel Aviv è stato tra i primi a sostenere il referendum indetto da Barzani.

Gli Stati Uniti hanno avuto un atteggiamento ambiguo: certamente il referendum, come pure l’indipendenza che ne potrebbe un giorno scaturire, sono fattori destabilizzanti per la regione. Nella prospettiva di Washington, la lotta allo Stato Islamico come pure la delicata questione siriana impongono di evitare una crisi ulteriore. Va comunque ricordato che l’alleanza con i curdi iracheni è piuttosto solida, e alla fine gli americani potrebbero accettarne la secessione. Anche perché sul fronte curdo è molto attiva la Russia, che non ha posto obiezioni rispetto al referendum, pur riconoscendo la necessità di salvaguardare l’integrità dell’Iraq. Proprio Mosca si appresta a diventare il principale partner commerciale del governo di Arbil tramite il colosso petrolifero Rosneft, che ha già firmato ben tre commesse ed è dal febbraio scorso la prima compagnia straniera nel paese.

Ancora una volta, insomma, la questione nazionale curda s’intreccia in modo indissolubile con un quadro regionale molto instabile e conflittuale. Non è detto che le forze internazionali in gioco consentano di accogliere la richiesta di cambiamento che in questi giorni si è manifestata per le strade del “Kurdistan meridionale”.

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