Domenica 18 settembre i cittadini russi sono stati chiamati alle urne per rinnovare la Duma, la camera bassa del Parlamento e l’organo che di fatto legifera (l’altra camera, il Consiglio della Federazione, ha un ruolo molto più ridotto). Il partito di Vladimir Putin “Russia Unita”, guidato da Dmitry Medvedev, ha ottenuto il 54,2% dei voti, riuscendo ad assicurarsi 343 seggi su 450, il che garantisce al partito governativo la maggioranza costituzionale (300 seggi), ossia una maggioranza legittimata a cambiare la Costituzione.
Nel 2011, il partito si era fermato al 49,3%. C’è stato quindi un aumento del consenso nei confronti dell’operato del governo che ha portato in dote ben 105 seggi in più della precedente tornata elettorale. Se disaggregato, però, il voto favorevole ci dà un’immagine del paese più accurata. Nelle grandi città (Mosca, San Pietroburgo, Novosibirsk) Russia Unita si ferma al 40% circa. In altre regioni della Federazione si raggiungono invece picchi di popolarità superiori al 90% (Cecenia, Dagestan). In Crimea il sostegno è al 74%.
Con il 13,3% dei voti, i comunisti di Gennadij Zyuganov ottengono 42 seggi, perdendone 50 rispetto al 2011si ritrovano con la compagine più che dimezzata. I liberaldemocratici di Vladimir Zhirinovskij (LDPR) ottengono 39 seggi, ottengono una percentuale maggiore rispetto al 2011, dall’11,6% al 13,1% dei voti, ma perdono comunque 17 seggi. Con il 6,2% dei voti (contro il 13% del 2011), Russia giusta, il partito di centro social-democratico, conquista 23 seggi (contro i 41 del 2011). Un seggio va poi al partito nazionalista Rodina, uno alla piattaforma civica e uno a un candidato indipendente.
I restanti tra i 14 partiti che hanno partecipato alle elezioni sono rimasti esclusi dell’assegnazione dei seggi. In particolare il partito di destra Parnas e i liberali di Yabloko non hanno oltrepassato né la soglia del 5% per ottenere i seggi né quella del 3% che consente di ottenere finanziamenti pubblici fino alle prossime elezioni.
La partecipazione alla votazione è passata dal 60% al 47,8% degli 111 milioni aventi diritto. Particolarmente basso è stato il tasso di partecipazione nelle grandi città: Mosca 20%, San Pietroburgo 16%. La correttezza delle procedure di voto è stata riconosciuta anche dagli osservatori internazionali.
I risultati confermano in linea di massima le aspettative e ci segnalano alcuni significativi elementi – alcuni di tipo nuovo. Il tasso di consenso del partito putiniano è cresciuto rispetto alle precedenti elezioni e di conseguenza gli altri partiti hanno quasi tutti peggiorato il loro tasso di gradimento.
Per la terza volta consecutiva, la Duma vedrà la presenza di soli quattro partiti. Alcuni sostengono che questo sia un lento processo di bipolarizzazione del sistema politico russo con Russia Unita e i Liber-Democratici da una parte e Russia Giusta e i Comunisti dall’alta. Più plausibile è invece sostenere che il sistema politico russo continui ad essere dominato da un unico partito, con gli altri partiti ridotti di fatto a fare da comparse nella Duma.
Le procedure di voto soddisfano, come detto, i criteri internazionalmente riconosciuti di correttezza, ma sul processo elettorale in senso più ampio ci sono invece dei seri problemi. I grandi mezzi di informazione rimangono perlopiù vicini o controllati dal Cremlino. La stampa di opposizione non trova spazio e continua a soffrire forte censura (la Russia è 148° nella classifica sulla libertà di stampa redatta quest’anno da Reporters without Borders).
Tra i motivi che spiegano l’accresciuto consenso per Russia Unita ce sono certamente anche di carattere internazionale. La forte campagna mediatica occidentale anti-Putin, le sanzioni, la tensione con la NATO sono tutti elementi che il Cremlino ha sfruttato per rinvigorire il nazionalismo russo e spingere una parte ulteriore dell’elettorato russo ad avvicinarsi al governo. Quando il paese è minacciato dall’esterno ci si riunisce interno alla bandiera. Succede in tutti i paesi; è successo ripetutamente nella storia Russia. La strategia di pressione internazionale per indebolire il governo russo sembra aver generato esattamente l’effetto opposto.
C’è poi la questione dell’astensione. È questo probabilmente il punto più controverso. La tendenza generale in quasi tutti i paesi è quella di un calo della partecipazione al voto. Si aggiunga a ciò la crisi economica che contribuisce spesso a radicalizzare alcuni elettori e ad allontanarne altri dai seggi. Fonti governative sostengono che il calo della partecipazione sia un sintomo della soddisfazione dei cittadini che confidano nel governo e non sentono la necessità di andare alle urne, un segno di normalità del paese. L’opposizione sostiene invece che l’astensione sia l’unico modo di protestare oggi contro il governo, una protesta silenziosa contro la deriva del potere putiniano. E tuttavia, se è vero che i votanti sono calati, è altresì evidente che anche i partiti di opposizione hanno visto diminuita la fiducia degli elettori tanto da non riuscire neanche ad oltrepassare la soglia di sbarramento del 3%. Per capire meglio questa tensione bisogna fare riferimento a parametri che vanno oltre le circostanze attuali.
Se adottassimo una prospettiva di lungo termine e cercassimo di identificare alcuni tratti di fondo della politica russa potremmo vedere con chiarezza che l’assenza di un sistema genuinamente pluralista e multipartito non è certamente un unicum della fase putiniana. In tale prospettiva emerge che un forte accentramento governativo e che un certo grado di autoritarismo sono tratti comuni della cultura politico-istituzionale russa che dall’epoca imperiale sono transitati durante l’epoca sovietica, hanno segnato in parte gli anni ’90 di Yeltsin e con l’inizio del nuovo millennio sono arrivati a Putin in una linea di continuità incarnata dall’apparatchik governativo. Da questo punto di vista l’inconsistenza politica dei partiti minoritari nella Duma e del resto dell’opposizione nel paese apparirebbe allora come un’ennesima ripetizione della tradizionale distribuzione di potere all’interno dello stato russo, dove il potere appunto si concentra nel gruppo che detiene la leadership in modo molto intenso e agli altri rimane soltanto la scelta tra cooptazione e marginalizzazione.
In sostanza, l’era di Putin rimane in fondamentale continuità con il tradizionale rapporto tra governo centrale e i vari gruppi di interesse all’interno della Federazione Russa, un rapporto che spesso si personalizza in modo verticistico. La supposta eccezionalità di Putin ci appare tale perché viene inevitabilmente letta in senso diacronico: cronologicamente viene dopo gli anni dello sbandamento dello stato russo dopo la caduta del muro, anni nei quali lo stato stava collassando e il potere si andava disperdendo nelle mani degli oligarchi. Se però riusciamo ad andare oltre quel decennio del tutto eccezionale nella storia russa, la leadership di Putin diventa allora decisamente più “normale”.