A un primo sguardo, le rivolte iniziate in Nord Africa e Medio Oriente tra il 2010 e il 2011 hanno rappresentato, per le monarchie del Golfo, soprattutto una grande opportunità geopolitica. Ma questo è solo il più vistoso, seppur molto importante, dei livelli di lettura possibili.
Di certo, dopo lo shock provocato dalla caduta dei regimi alleati di Tunisia ed Egitto, le leadership del Golfo hanno attivamente partecipato alla ridefinizione degli equilibri regionali, spesso in competizione reciproca. La rivalità fra i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), con gli Emirati Arabi Uniti (EAU) e l’Arabia Saudita contro il Qatar (e viceversa), ha segnato una stagione politica in Medio Oriente. Tale dinamica ha contribuito a regionalizzare i principali conflitti civili nati dal fallimento politico-istituzionale della “Primavera” (in primis in Libia, poi in Siria e Yemen, dove agisce anche l’Iran).
Tale rivalità, ora formalmente mitigata, su volontà saudita, con la “Dichiarazione di Al Ula” siglata a Riyad nel gennaio 2021, ha plasmato nuove alleanze e contro-alleanze. Una “corsa all’influenza” tra Riyad, Abu Dhabi e Doha, giocatasi anche in Egitto e Tunisia e che poi è tracimata oltre il Medio Oriente, estendendosi al Corno d’Africa (Sudan e Somalia), nonché al Maghreb-Sahel (Marocco, Mauritania e Mali). Ed è proprio nei principali campi di battaglia, anche geopolitica, del mondo islamico che la reale portata della rappacificazione nel CCG verrà subito messa alla prova.
Oltre la riflessione geopolitica: la “Primavera” e il cambiamento (ma dall’alto)
Poi c’è l’altro livello di lettura, che si concentra su come le “thawrat”, ossia le rivolte, abbiano inciso sulla politica interna nonché sulle società delle monarchie del Golfo. Provare a scoprirlo, un decennio dopo, significa mettere a fuoco la fisionomia dei regni di domani e, dunque, le coordinate delle relazioni internazionali dell’area.
Le rivolte hanno rimesso al centro il tema, mai così politico, dell’identità nazionale: perché la scossa rivoluzionaria partita dalle sponde del Mediterraneo arrivò anche nel cuore arabo del Golfo, in Yemen, Bahrein, nella regione orientale dell’Arabia Saudita, e in misura minore anche in Oman e Kuwait. Anche qui i manifestanti gridavano “karama” (dignità), declinandola in richieste differenziate: riforma politica ed eguaglianza (sciiti del Bahrein e della regione orientale saudita), occupazione e inclusione sociale (Oman), lotta alla corruzione (Kuwait).
Gli eventi hanno dimostrato che nel Golfo non vi è al momento spazio per cambiamenti, o riforme, dal basso. Denunciando un complotto iraniano, i sauditi hanno prosciugato le contestazioni in Bahrein e nella loro regione orientale, qui arrivando persino a demolire, nel 2017, la città vecchia di Awamiya epicentro della contestazione sciita, per avviare progetti di “riqualificazione urbana”. Il religioso sciita saudita Nimr Al-Nimr, il leader spirituale della rivolta, è stato giustiziato nel 2016, l’anno in cui la principale società politica sciita bahreinita, al-Wefaq, è stata messa fuorilegge. Ma la protesta bahreinita, la più accesa del Golfo, era già stata largamente drenata dalle forze di sicurezza nazionali (con l’aiuto determinante di quelle saudite ed emiratine), nonché dal governo, con un mix di cooptazione e repressione. L’Oman ha sedato le proteste sociali nelle città del nord (Sohar, Sur). In Kuwait riaffiorano, sporadici, i sit-in anti-corruzione contro governo e deputati dell’Assemblea Nazionale, o le proteste dei “bidun”, gli arabi apolidi storicamente marginalizzati.
A parte in Yemen – che è un abisso di cui ancora non si scorge il fondo – nessun cambiamento dal basso si è quindi prodotto. E ciò nonostante le rivolte abbiano ridefinito gli spazi della politica nelle monarchie del Golfo: non più solo i tradizionali luoghi del confronto istituzionale o informale (come la Shura consultiva e le diwaniyyat kuwaitiane), ma anche le piazze fisiche e virtuali dei social media.
Eppure, per reazione, le rivolte hanno generato altri cambiamenti, però dall’alto. Ovvero progetti nazionali di trasformazione economica, sociale e identitaria, controllati direttamente dalle leadership, spesso disegnati e sponsorizzati da sovrani o principi ereditari. Non operazioni cosmetiche, ma veri ´cantieri nazionali` non privi di incognite. Le “Vision”, ovvero i programmi di diversificazione economica “oltre gli idrocarburi”, racchiudono infatti le tre partite intrecciate che le leadership del Golfo stanno giocando nel mondo arabo post-2011: trasformazione della struttura economico-sociale, influenza regionale e successioni interne.
La Nazione come approdo?
Nel 2011, dopo i primi tentativi di contro-rivoluzione (con la classica formula sussidi, cooptazione e repressione), i sovrani del Golfo hanno reagito all’onda transnazionale delle rivolte provando a territorializzare il potere. L’obiettivo è trasformare in stati-nazione dei Paesi che hanno una struttura essenzialmente ereditaria; e farlo anche con le tradizionali leve del Novecento, ovvero tasse (fin qui indirette, come l’IVA al 5% introdotta in Arabia, EAU, Bahrein, dal 2021 prevista in Kuwait e Oman) e coscrizione militare (in EAU, Qatar e Kuwait): trovare un punto di equilibrio fra doveri e diritti è già la sfida dell’oggi.
In tale quadro, riforme e inclusione sono calibrate e gestite verticalmente. Tre esempi: l’Emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani ha appena annunciato elezioni per metà del Consiglio della Shura nell’ottobre 2021, cui potrebbero seguire maggiori poteri per l’organo, fin qui consultivo. Il Sultano dell’Oman Haitham bin Tariq Al Said ha promulgato nel gennaio 2021 una nuova Legge Fondamentale in cui si sottolinea che “le libertà di opinione e di espressione, nello scritto e nel parlato, sono garantite” così come la libertà di pratica religiosa. Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman Al Saud ha concesso più diritti alle donne, tra cui guidare la macchina e viaggiare senza il consenso di un parente maschio: ma molte di quelle stesse attiviste che erano state arrestate mentre manifestavano per ottenere proprio quei diritti, rimangono incarcerate.
Il potere economico-finanziario è sempre necessario, ma non più sufficiente ad assicurare – dall’interno – tenuta politica e concordia sociale di “reami” ormai molto complessi e stratificati. E allora giovani (o più giovani) emiri, sultani e principi ereditari adeguano gli strumenti agli obiettivi.
Per “fare una nazione”, specie se il prezzo del petrolio si stabilizza al ribasso e l’impatto finanziario di Covid-19 morde, occorrono discorsi patriottici, riscoperta delle radici culturali e delle tradizioni nazionali, parate militari, soldati-eroi e talvolta “martiri” caduti in battaglia (in Yemen), musei nazionali e celebrazioni pubbliche, bandi per il servizio civile e volontari anti-Covid, consapevolezza di un destino comune. Occorrono cittadini intraprendenti che non diano più per scontato – come in passato – l’impiego pubblico “per diritto”, ma che sappiano contribuire, con senso del dovere e della responsabilità comunitaria, a trasformare in realtà le “Vision” con le quali rinnovate classi dirigenti si giocano futuro personale, ruolo regionale e sostenibilità del sistema post-idrocarburi.
Un messaggio rivolto al singolo cittadino – un’altra novità per società dai forti legami tribali, locali o comunitari – che sta velocizzando, specie nei giovani stati degli Emirati Arabi Uniti (EAU) e del Qatar (indipendenti dal 1971), il passaggio fin qui incompiuto dallo stato alla nazione. Laddove l’identità nazionale è già marcata, come in Arabia Saudita e Oman (stati più maturi per storia politica, con il regno saudita formatosi nel 1932 e l’Oman indipendente addirittura dal 1650), questo approccio intende ridefinire il significato di nazione in paesi che sperimentano profonde, nonché rapide, mutazioni all’insegna, rispettivamente, del principe ereditario e di un nuovo Sultano. Ecco contestualizzato il ´flirt nazionalista` di Mohammed bin Salman che si discosta dal tradizionale paradigma islamico-tribale saudita, o il tentativo di Haitham bin Tariq di ri-costruire la nazione omanita, fin qui identificata con il carisma dell’indimenticato Sultano Qaboos.
La fascinazione per lo “Stato-Nazione” spesso citato, per esempio, nei discorsi del ministro di stato agli Affari Esteri degli Emirati Anwar Gargash, è scaturita proprio dalla sfida transnazionale posta dalle rivolte iniziate un decennio fa: si pensi al rilancio che ne avevano ricevuto i movimenti della Fratellanza Musulmana invisi ad Abu Dhabi. Le monarchie regnanti sui paesi del Golfo, inoltre, possono vestirsi del nuovo ruolo di “garanti della nazione”, di fronte a un’opinione pubblica più coinvolta e partecipe nell’arena pubblica, che un giorno potrebbe arrivare a interrogarsi sulla forma di stato e governo dei propri paesi.
Il modello dello “Stato-Nazione” è destinato ad aprire, però, riflessioni e dibattiti sul ruolo della religione nonché, in secondo luogo, sul rapporto con i tanti lavoratori stranieri in un’era di stretta economica e disoccupazione. Nel mezzo di una tempesta c’è (quasi sempre) una meta cui approdare: quella dei monarchi del Golfo si chiama Nazione. Un approdo, ma anche un progetto in divenire, cui le rivolte del 2011 hanno dato un’enfasi speciale.