La “marcia della scienza” tra cultura e politica

La March for Science del 22 aprile – a Washington D.C., ma con altri 600 punti di raduno negli Usa e nel mondo – è forse il prodotto del primo movimento politico neo-illuminista del XXI secolo. O quanto meno ci troviamo di fronte al riaffiorare di una linea di conflitto, più che secolare, tra approccio laico-scientifico alla vita pubblica e il pregiudizio, a volte di massa, verso la “casta” degli esperti e degli intellettuali, nelle diverse forme che i depositari e produttori di sapere assumono nella società americana.

La filosofia della Marcia è facilmente sintetizzabile: innanzitutto si tratta di un movimento anti-dogmatico. Da un lato si ribadisce che progresso, scienza e attività di governo devono sostenersi a vicenda. Ovvero: il dibattito pubblico non può rinunciare a un confronto che parta da evidenze empiriche frutto di una rigorosa valutazione di fatti e teorie, attraverso la quale poter compiere scelte e decisioni informate (nella vita pubblica, sia per gli elettori comuni sia per chi ha responsabilità politiche). Dall’altro, gli obiettivi degli organizzatori della marcia hanno un’impronta nettamente più politica e sociale: la scienza come bene comune (“common good”). Ovvero: il sapere scientifico deve essere diffuso, “popolarizzato” (non a caso uno dei leader della marcia, Billy Nye, è un divulgatore scientifico che si è diviso per anni tra radio e tv) e deve essere slegato, il più possibile, dai grandi interessi economici; si chiede l’aumento del finanziamento pubblico per la ricerca scientifica, anche al fine di sostenere il desiderio dei giovani benché privi di mezzi economici di fare della scoperta il loro mestiere – anche qui la Marcia ha la sua leader-simbolo, Lydia Villa-Komaroff, una biologa molecolare fondatrice della Society for the Advancement of Chicanos/Hispanics and Native Americans in Science; e si deve permettere alla comunità scientifica di dialogare con il resto della società, al fine di rendere consapevoli tutti del ruolo che la scienza gioca nelle proprie vite.

Un momento della “March for Science” a Washington, DC.

Una scelta, appunto, di stampo prettamente illuministico: combattere pregiudizio e ignoranza attraverso la diffusione del metodo scientifico e mediante un approccio critico ai problemi collettivi. E sostenere che metodo scientifico e democrazia siano inseparabili, così come istruzione e democrazia. Ma è anche visibile un processo di politicizzazione di un segmento di società americana che si percepisce come sentinella inascoltata – in alcuni casi con ragione da vendere – dei tanti mali del Pianeta.

Non a caso per la Marcia è stata scelta la data del 22 aprile, che coincide con la “Giornata mondiale della Terra” delle Nazioni Unite, un’iniziativa vecchia quasi di 50 anni – di ispirazione kennediana. Oggi, l’evento accosta il tema della preservazione del pianeta a quello della lotta al riscaldamento globale.

Chi volesse addentrarsi nell’immaginario di un mondo futuro, nel quale gli allarmi degli scienziati sono rimasti inascoltati, può trovare un ottimo riferimento nel romanzo distopico di Bruno Arpaia del 2016 “Qualcosa, là fuori”. Nella storia di Arpaia il Presidente degli Stati Uniti è un predicatore incredibilmente simile a Donald Trump (anche se il libro è stato scritto prima dell’ufficializzazione della sua candidatura) chiamato a gestire la crisi economica, umanitaria e sociale derivante dagli effetti del riscaldamento globale.

E proprio Trump e il riscaldamento globale sono i due convitati di pietra della Marcia: mentre Barack Obama concludeva il suo mandato richiamando ancora una volta l’attenzione su questa minaccia, Trump lo definiva una “bufala”. La Marcia è quindi divenuta anche risposta politica al trumpismo, così sprezzante con chi ha prodotto anni di studi e ricerche su un tema tanto delicato, all’interno di un conflitto tra mondo scientifico e nuova amministrazione per niente mascherato – anche se la marcia ha ricevuto critiche da una parte dello stesso mondo accademico, che teme la radicalizzazione dello scontro ideologico e la possibile assimilazione degli scienziati a un mero gruppo d’interesse. Ciò chiarisce perché gli organizzatori abbiano cercato da subito – quale vera e propria fonte di ispirazione – un rapporto diretto con la Marcia delle Donne del 21 gennaio 2017, ovvero con la prima mobilitazione movimentista anti-Trump.

La politicizzazione del mondo scientifico americano, rappresentato almeno in parte da questa Marcia, si denota anche per la presenza di altri due aspetti, accennati in precedenza. Il primo è il richiamo alla libertà di accesso alla ricerca e all’istruzione (attraverso maggiori fondi pubblici), cioè la scienza per tutti, da praticare, insegnare e divulgare. Il secondo aspetto è l’istruzione e la crescita delle competenze individuali quale strumento contro ogni forma di manipolazione, cioè la battaglia contro la cultura anti-scientifica che si diffonde con grande facilità attraverso i media (soprattutto i social media). Se internet può diffondere alcuni punti di vista anti-scientifici con la velocità di un virus, serve stabilire un confronto permanente con la società: un vero e proprio richiamo all’attivismo sociale degli scienziati e degli intellettuali, che accoglie la necessità di adeguare la comunicazione della scienza agli ecosistemi mediatici delle nostre società democratiche, senza che essa perda di rigore e qualità.

Ma c’è dell’altro. Oltre alla prospettiva delle cosiddette “scienze dure”, è chiaro che a interrogarsi sul rapporto tra consenso, politica e la formulazione di policy “evidence-based” sono anche gli scienziati sociali, i quali – in particolare negli Stati Uniti – vantano meccanismi consolidati di relazione con il decisore pubblico e le leadership politiche. E, soprattutto, hanno condiviso valori, percorsi formativi, think tank, carriere e obiettivi con l’élite politica del Paese per larga parte del Novecento (a questo proposito, vale la pena ricordare il volume del 2015 “Tecnocrati del progresso” di Giovanni Borgognone). In fondo, il radicato anti-intellettualismo della società americana era stato tenuto più o meno a bada, almeno fino alla presidenza di Richard Nixon. Però, nonostante una costante conflittualità tra leader conservatori e una parte del ceto intellettuale delle grandi università americane, nulla di simile a Trump si era mai visto; solo il movimento Physicians for Social Responsibility – nato contro la corsa agli armamenti degli anni Ottanta – può mostrare una vaga somiglianza con la mobilitazione del 22 aprile (a ricordarlo è stato lo storico Robert Proctor sul Washington Post).

Andrebbe valutato se, in fondo, questa Marcia non sia anche un tentativo politico – di nuovo va sottolineato l’aggettivo – dei ceti intellettuali (anche se mai gli americani si autodefinirebbero così) per far uscire dall’accerchiamento una parte di quella élite additata da Trump come generatrice del presunto, recente, fallimento del Paese.

Il brusco risveglio dopo otto anni di un Presidente-professore come Barack Obama ha riportato i produttori di sapere americani nella cerchia del “loro”, quell’élite apolide e cosmopolita che non appare americana fino in fondo. La ricerca di un confronto mobilitante verso il resto della società è un modo per non accettare passivamente il gioco delle parti imposto dal nuovo Presidente, cercando di abbandonare la torre d’avorio dell’accademia: “We also look to the public for inspiration about what new questions need to be asked about the world around us. These lines of communication must reach all communities and must go in both directions. If scientists hope to discuss their work with the public, they must also listen to the public’s thoughts and opinions on science and research. Progress can only be made by mutual respect” – come recita il manifesto della Marcia.

La grande enfasi che la Marcia pone sulla costruzione di una scienza accessibile e democratica – “a career in science should be an option for anyone and everyone who is passionate about discovery. Likewise, the process and results of scientific inquiry should be open to all” – segna anche la “conversione” di una parte del corpo accademico americano, dopo anni di confronto sulla crisi del sistema dell’alta formazione. Il dibattito è davvero molto ampio, ma la Marcia allude a due temi (sempre in chiave anti-Trump): la necessità di ri-democratizzare il sistema della formazione, prendendosi cura del livello medio di competenza dei ragazzi americani (è recente la polemica sul declino delle capacità matematiche dei giovani statunitensi); ridare centralità alla formazione come pilastro della crescita del Paese, dopo che la crisi aveva seriamente incrinato il patto con la classe media americana: studia – o meglio, fai investire i tuoi genitori nella tua formazione – e avrai una vita migliore. Proprio la rottura di quel patto ha creato un’intera generazione di attivisti che si battono per la riduzione del debito d’onore e la riduzione dei costi delle università, come ha insegnato il sostegno giovanile per Bernie Sanders nella campagna presidenziale del 2016.

A detta di molti la Marcia ha rappresentato una iniziativa senza precedenti per la comunità scientifica americana, per la prima volta mobilitata con l’obiettivo di difendere il suo ruolo e immaginare una nuova modalità d’interazione con il potere e la società. Se in precedenza essa si era resa attiva attorno a singole questioni – dalle cellule embrionali fino alle piogge acide – ora cerca alleanze (gliela offre pubblicamente la Organizing for Action degli Obama) e si interroga sulle tecniche dell’organizzazione politica. In America sono, sempre, tempi interessanti.

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