Nel quadro di una geopolitica delle Americhe che sta cambiando, l’accordo di pace firmato a Cartagena il 26 settembre scorso tra il presidente della Colombia, Juan Manuel Santos e Rodrigo Londoño Echeverri, alias “Timochenko” – attuale leader delle Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) – aveva tutto per entrare nella Storia con la “esse” maiuscola.
E non solo perché le Farc sono il gruppo guerrigliero più antico dell’America latina ma perché – dopo l’appeasement tra Stati Uniti e Cuba – L’Avana aveva garantito uno spazio negoziale neutro mentre la presidenza Obama aveva inviato nella capitale cubana Bernard Aronson – già facilitatore degli accordi di pace in El Salvador del 1992 – come mediatore assieme all’Unione Europea, la Norvegia, il Venezuela e gran parte della struttura ONU, messa a disposizione per supervisionare la smobilitazione della guerriglia.
Insomma, dopo 4 anni di negoziati pubblici all’Avana preceduti da altri due di trattative “top secret” tra le parti, tutto sembrava a favore di una pace storica, compreso l’appoggio diplomatico della Santa Sede che a Cartagena aveva inviato il segretario di Stato, Pietro Parolin e, persino, un Nobel per la pace che Santos si è portato a casa (il 7 ottobre) “per gli sforzi pro pace” senza però condividerlo – i misteri di Oslo assomigliano a quelli di Fatima – con l’altra parte firmataria, ovvero le stesse Farc. Del resto, cosa di più nobile se non mettere finalmente fine a 52 anni di “conflitto interno” contro lo stato ed i paramilitari, una guerra fatta anche di decine di migliaia di rapimenti, uccisioni, massacri di contadini e reclute, asini usati come autobombe e sempre più narcotraffico per autofinanziarsi?
Peccato solo che lo scorso 2 ottobre, al plebiscito che doveva approvare l’accordo di Cartagena, i colombiani abbiano votato “No” proprio all’accordo stipulato da Santos e le Farc. Un voto destinato a far discutere a lungo, visti gli appena 54mila voti di scarto sul “Sì” che ne hanno decretato l’esito, ma soprattutto perché, come nel Monopoli, la pace che prima sembrava ad un passo dal vincere la partita è tornata alla classica casella di partenza, senza neanche passare dal via. Impressionante anche l’astensionismo, superiore al 62% degli aventi diritto, a dimostrazione di quanto grande sia la sfiducia e il distacco della maggioranza dei colombiani verso la loro classe politica – per la cronaca Santos ha appena il 25% di gradimento popolare.
Per interpretare la vittoria del “No” una buona parte dei media internazionali si è soffermata sulla presunta incapacità a vivere in pace dei colombiani, che sarebbero ormai assuefatti al conflitto dopo oltre mezzo secolo di guerra civile: un conflitto che ha lasciato sul terreno circa 280mila morti, almeno sette milioni tra rifugiati e sfollati interni (solo il Sudan e la Siria fanno peggio, a detta dell’ONU) e un numero record di mutilati da mine anti-persona.
Un’interpretazione non solo superficiale ma che polarizza il voto tra chi è “per la pace” e chi, invece, “pro guerra”. In realtà, anche la grande maggioranza di chi ha votato “No” vorrebbe la pace, ma si dice contrario ad alcune clausole considerate troppo benevole nei confronti delle Farc. Basti pensare a Timochenko, condannato dai tribunali colombiani ad oltre 400 anni di carcere per più di 300 omicidi. Bene, sia lui che i suoi compagni responsabili di crimini efferati, in base all’accordo, non passerebbero neanche un giorno in cella, in cambio di una confessione davanti a una “Commissione per la Verità”. Inoltre, per favorire il reinserimento delle Farc nella vita politica nazionale, sarebbero stati garantiti ai guerriglieri 10 seggi in Parlamento (anche senza i voti), oltre a una trentina di radio comunitarie e stipendi per due anni.
Un errore di Santos che ha favorito il “No” è stato sicuramente il volere accelerare a dismisura i tempi, senza spiegare bene le 297 pagine di un accordo difficile da decifrare per molti esimi giuristi, figurarsi per il popolo. Una sola settimana tra il voto e la firma di Cartagena (26 settembre), che aveva visto in prima fila il segretario di Stato Usa John Kerry, il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, re Juan Carlos di Spagna e decine di altri leader mondiali.
Rebus sic stantibus, a regnare è l’incertezza sul futuro. Certo, fa ben sperare che Timochenko abbia ribadito di voler comunque abbandonare le armi, mentre Santos, dopo aver prolungato il cessate il fuoco sino al 31 dicembre, ha invitato a partecipare a nuovi negoziati anche l’ex-presidente Álvaro Uribe, il principale supporter della campagna per il “No”. Staremo a vedere se servirà a qualcosa.
Anche con le Farc in Parlamento e l’implementazione dell’accordo, comunque, la pace sarebbe tutt’altro che una cosa fatta per la Colombia per almeno quattro problemi. Il primo, fondamentale, è legato a ciò che garantisce più margine di guadagno, oggi come ieri, all’economia colombiana, ovvero la produzione di cocaina. Dopo la decisione, un paio di anni fa, di interrompere le fumigazioni via aerea delle piantagioni di foglie di coca, quest’anno la produzione è cresciuta in modo straordinario tanto che la Colombia, dal 2015, ha recuperato dal Perù lo scettro di primo produttore al mondo – il terzo è la Bolivia, secondo la sezione anticrimine dell’ONU (UNODC).
A differenza degli anni ‘80 e ‘90, quando dominavano prima il cartello di Medellin e poi quello di Cali, oggi chi coltiva e produce più cocaina sono proprio le Farc, che forniscono il 60% della polvere bianca che entra negli Stati Uniti. Certo, nelle clausole dell’accordo di pace è dedicata un’ampia sezione al tema: si prevedeva lo sgombero di queste zone da parte di Timochenko e compagni non appena la pace fosse confermata dalla volontà popolare. E poi lo sradicamento delle coltivazioni da parte degli stessi guerriglieri.
Peccato che quegli stessi terreni – e siamo al secondo problema – siano già stati rioccupati da altri attori armati, che di fare la pace col governo non hanno alcuna intenzione. Tra loro, i paramilitari che non aderirono alla smobilitazione una decina d’anni fa (molti dei quali ex membri dell’esercito regolare riuniti in veri e propri squadroni della morte in funzione anti-guerriglia ed a protezione degli interessi di latifondisti e multinazionali), le “BaCrim”, semplicemente “Bande Criminali”, la più forte delle quali è quella degli Urabeños, l’Ejercito de Liberación Nacional (ELN) e l’Ejercito Popular de Liberación (EPL), organizzazioni simili alle Farc. Tutti questi gruppi oggi si finanziano con il narcotraffico, oltre che con sequestri, pizzo e rapine.
Inoltre, e veniamo al terzo problema, quando iniziarono le trattative di pace, gli uomini, donne e minori dediti alla guerriglia delle Farc erano a detta di tutti gli analisti tra 8mila e 10mila (Santos diceva fossero addirittura 17mila) ma, nei registri consegnati alle autorità da Timotchenko ci sono appena 5.765 nominativi. Il timore è che, come già annunciato dal Frente numero 1 delle Farc composto da circa 200 unità, solo una parte abbandoni le armi, mentre gli altri continuino a dedicarsi al narcotraffico, ingrossando le fila di paramilitari, BaCrim, ELN ed EPL.
L’ultimo problema riguarda il vicino Venezuela: la questione è stata paventata già dopo la Decima Conferenza delle Farc, l’ultima tenutasi in armi prima dell’agognato passaggio alla vita civile, quando è stato scelto di chiamare Movimento Bolivariano il futuro partito politico dei guerriglieri. Un chiaro riferimento all’ideologia chavista e, visto il confine poroso e violento tra Venezuela e Colombia – sia per il narcotraffico che per la presenza massiccia di uomini in armi – il rischio è che possa nascere una nuova guerriglia proprio nel paese vicino, che già di per sé vive una stagione sociale e politica tumultuosa, e dove tra l’altro vive la maggior comunità estera di rifugiati colombiani.
Quello tra le Farc e lo Stato colombiano è un conflitto anti-storico almeno dagli anni Ottanta, decennio a partire dal quale tutte le altre guerriglie latinoamericane lasciarono le armi per entrare nell’agone politico. Tutte meno due: quella colombiana e, in misura minore, quella peruviana di Sendero Luminoso, che oggi si limita alla regione de VRAEM, acronimo che sta per Valle de los Ríos Apurímac, Ene y Mantaro, e descrive un’area impervia tra Cuzco, Huancavelica e Ayacucho, compresa tra i fiumi Apurímac, Ene e Mantaro, dove almeno 20mila ettari di terre sono coltivate illegalmente per la produzione della coca secondo l’UNODC.