La guerra sul corpo del Medio Oriente

Un episodio come l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 non può non segnare uno spartiacque, nel racconto e nello svolgimento degli eventi nel pur sempre turbolento e travagliato Medio Oriente. Anche perché mirato a essere il più possibile dirompente e sconvolgente: per il numero di vittime cercate alla cieca (e gli ostaggi rapiti), che avrebbe dovuto trascinare Israele in una sanguinosa vendetta – come è poi puntualmente accaduto. Per l’irridente superamento della gabbia costruita attorno alla Striscia, che rendeva Gaza “la prigione a cielo aperto più grande del mondo”: il messaggio era “non sarete sicuri neanche così”. Per il senso d’orgoglio, di rivincita, di “resistenza” che l’azione ideata da Yahya Sinwar avrebbe dovuto ispirare nei palestinesi e nei loro alleati, che sarebbero scesi insieme in guerra contro il comune nemico, attaccandolo da tutti i fronti.

Giornali in Libano annunciano la morte di Nasrallah

 

Un conflitto già in movimento

E in effetti l’enormità dell’attacco di Hamas ha oscurato il fatto che nella regione il conflitto fosse già latente e intermittente da tempo. Gli attori in campo si stavano muovendo come i due lati di una faglia tellurica, che scorrono in direzioni opposte e sono soltanto in attesa del tremendo e fragoroso punto di rottura. Nella martoriata West Bank i coloni israeliani – con i loro insediamenti ormai trasformati da avamposti, a villaggi, a città – erano già all’attacco, appoggiati dall’esercito, tanto che sia il 2022 che il 2023 erano stati gli anni con più vittime dalla II Intifada (2000-2005). I dirigenti dell’Autorità Nazionale Palestinese avevano già lasciato i palestinesi senza rappresentanza (non si vota dal 2006), e i loro due partiti, Hamas e Fatah, coinvolti in una spirale di violenze crescenti per l’egemonia. Hezbollah e Israele erano già impegnate in continue schermaglie per cui decine di migliaia di persone avevano dovuto lasciare le proprie case nel nord d’Israele.

L’alleanza tra Benjamin Netanyahu e la destra religiosa aveva già portato al potere un fronte politico-culturale suprematista e propenso all’uso della forza, che trae forza e legittimità dalla negazione assoluta dell’altro, tanto da favorire di fatto Hamas come “interlocutore” palestinese (perché estremista, dunque ideale), e allo stesso tempo promuovere apertamente, come soluzione alla questione dei “due popoli tra il fiume e il mare”, l’annessione delle terre e l’oblio dei palestinesi come soggetto politico. Orientamento confermato, in chiave simbolica e politica, dallo spostamento della capitale a Gerusalemme. D’altronde la Striscia di Gaza era stata già definita “inadatta alla vita” dall’ONU, nel 2020, a causa del blocco israeliano, ben prima che l’IDF la riducesse in polvere. E l’Iran era già stato identificato come nemico esistenziale dal governo Netanyahu, in consonanza con le scelte degli Stati Uniti dall’arrivo di Donald Trump alla presidenza: rottura degli accordi con Teheran siglati sotto Obama nel 2015 insieme all’Europa e alle Nazioni Unite, e ritorno delle sanzioni, oltre al riconoscimento di Gerusalemme capitale.

Trump annunciava già nel 2018 che avrebbe fatto cadere il regime iraniano, come ha ripetuto Netanyahu in questi ultimi giorni. Una posizione parzialmente moderata durante il mandato di Joe Biden, senza però esercitare un’efficace pressione su Israele né proporre una qualsivoglia soluzione diplomatica regionale. Già l’Unione Europea aveva inserito Hamas (2003, con una controversia legale chiusa nel 2017) e Hezbollah (2020) nella lista delle organizzazioni terroriste, negandone dunque il carattere di interlocutore politico. E infine, già molti Paesi arabi della regione stavano ratificando gli Accordi di Abramo con Israele, con l’obiettivo dichiarato di isolare l’Iran.

 

Dodici mesi di guerra aperta

Come spesso accade con gli attentati terroristici, l’attacco di Hamas, con le sue oltre mille persone uccise e gli oltre duecento ostaggi, ha accelerato proprio i processi che – almeno a parole – diceva di voler fermare. Israele doveva rimanerne schiacciato? No: i primi dodici mesi di guerra aperta si sono chiusi con Israele che ha potuto esibire davanti al mondo la sua schiacciante superiorità.

Intanto, una superiorità manifestata nell’apparato repressivo. La vendetta di Israele contro i palestinesi a Gaza è stata di una violenza cieca, irrefrenabile. I morti nella Striscia sono stati oltre quarantamila, stando alle cifre ufficiali che contano le persone uccise in modo “diretto”, ma varie stime assicurano decine di migliaia di vittime in più dovute alle conseguenze della guerra. Cioè alla carestia e alla mancanza di medicinali. Ospedali, luoghi di culto, scuole e università sono state prese di mira e ridotte in briciole, insieme alla maggior parte delle abitazioni. Una distruzione totale scientemente perseguita. Di certo tra quei morti ci sono molti miliziani, ma l’esercito israeliano ha modificato gli algoritmi che decidono gli obiettivi dei propri bombardamenti in modo da consentire centinaia di vittime civili per ogni “bersaglio” di cui si è pretesa l’individuazione. In Cisgiordania, dai raid e dalle demolizioni si sta passando ai bombardamenti, anche qui con un aumento drammatico delle vittime. Nessuno, nelle terre palestinesi, ha avuto alcuno strumento per opporsi a questa inaudita ondata di violenza.

Ciò che l’ha consentita è stata la superiorità mantenuta in campo diplomatico. Nonostante la strage nella Striscia che ha “fruttato” l’apertura di un procedimento per “genocidio” alla Corte Penale Internazionale e il mandato di cattura spiccato contro Netanyahu (e per i capi di Hamas), nonostante le tante, prolungate proteste dell’opinione pubblica in Europa, America e altrove, nessun alleato ha mollato Israele. Il sostegno dell’amministrazione democratica negli Stati Uniti non è mai vacillato: mai è stato davvero preso in considerazione l’idea di interrompere la stretta collaborazione militare, oltre che politica e finanziaria. Lo stesso si può dire per l’Unione Europea e per i suoi tre Stati principali, quelli del G7: Germania, Francia e Italia. E anche se all’ONU hanno votato le mozioni contro Israele, anche tutti i Paesi arabi che prima della guerra potevano essere considerati “amici” dello Stato ebraico – Arabia Saudita, Egitto, Emirati, Giordania – non hanno mosso un dito per fermare le offensive di Netanyahu, e anzi hanno perfino contribuito alla difesa aerea di Israele contro i missili iraniani, e ora si apprestano a firmare gli Accordi congelati.

Né tantomeno lo hanno fatto la Russia e la Cina, che pure con l’Iran hanno diversi legami, a parte usare la guerra per sottolineare una volta di più il doppio standard occidentale: un “costo” politico collaterale che appunto si accolla l’Occidente, non Israele. A proposito di Mosca, è da sottolineare qui il solidissimo legame tra Putin e Netanyahu, con il secondo che si è rifiutato di adottare le sanzioni contro il primo dopo l’invasione dell’Ucraina – senza però attirarsi nessun rimprovero dalla NATO. In Europa va registrata la presa di posizione di Spagna, Belgio e Irlanda, che in aprile hanno riconosciuto lo Stato palestinese; il socialista spagnolo Josep Borrell, come capo della diplomazia UE, ha espresso critiche decise in varie occasioni. Ma ora non è più in carica. E la fornitura internazionale di armi a Israele, offerta soprattutto dagli Stati Uniti e in parte minore da Germania e Italia, non si è certo arrestata. Anzi, se in Occidente c’è stata una stretta, in vari Paesi, è stata contro le manifestazioni e le prese di posizione in favore dei palestinesi, anche queste comunque radicalizzate a loro volta.

Dopo uno dei primi attacchi israeliani sulla Striscia, a Khan Younis, nell’ottobre 2023

 

La svolta di Netanyahu

Effettivamente, in estate, la posizione di Israele sembrava ormai davvero insostenibile. Persino dentro il Paese in molti erano tornati a manifestare contro Netanyahu, riflettendo la possibilità di una nuova maggioranza, tanto da spingere l’ex ministro della Difesa Benny Ganz ad abbandonare il gabinetto di guerra. Ma il governo israeliano, grazie a una manovra militare, politica e mediatica, è incredibilmente riuscito a ribaltare la situazione, cambiando al tempo stesso il quadro politico interno e quello regionale.

Nessuno, anche in questo caso, ha potuto rispondere ai bombardamenti su Beirut e su Damasco; nessuno ha potuto impedire a Israele di colpire persino a Teheran, dov’è stato fatto esplodere l’appartamento in cui era ospitato un alto dirigente di Hamas come Ismail Haniyeh. La “mitica” Hezbollah, da cui tanti si aspettavano l’apertura del famoso “fronte Nord”, è restata quasi ferma, per farsi decapitare quando è convenuto. Persino gli Houthi hanno fatto più danni di lei. E il fronte Nord l’ha aperto Netanyahu. Capitali di Stati sovrani sono state colpite senza alcuna reazione, evidenziando la superiorità militare assoluta di Israele, almeno in campo convenzionale. Lo Stato ebraico ha mostrato di essere circondato da entità inconsistenti – come Libano e Siria – o da territori usati quasi come “riserve” – Gaza e West Bank – dove in pratica fa ciò che vuole. Dove il Mossad decide le vite e le morti. Dove il diritto internazionale non esiste e nessuno può mettere bocca, nemmeno da Washington.

 

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Così Netanyahu è riuscito a portare il focus del conflitto lontano dalla sua sanguinosa e fallimentare vendetta su Gaza (Hamas è ancora lì e gli ostaggi non sono tornati): ora, dice, parliamo della lotta tra il bene e il male. Il bene lo rappresenta Israele, il male l’Iran: “stiamo lavorando per voi”. Una svolta, esplicitata nel discorso alle Nazioni Unite il 27 settembre, con tanto di mappe a supporto, a cui è seguita pochi minuti dopo la stupefacente eliminazione del capo di Hezbollah – con un bombardamento, tra l’altro, che ha fatto altre centinaia di vittime. Poco dopo, l’ayatollah Khamenei a Teheran veniva portato in luogo sicuro per evitare di essere colpito a sua volta. Sono seguite le uccisioni di una ventina di successori di Nasrallah e capi politici o militari in pectore.

Molti tra i media e i governi occidentali sono stati ben lieti di abbracciare questa operazione, piuttosto sollevati di potersi districare dall’imbarazzante accusa di essere complici della strage di Gaza, passata immediatamente in secondo piano. E i fallimenti di Netanyahu, quello nella Striscia e quello del 7 Ottobre, in terzo piano. Anche perché, batti e ribatti, alla fine da Teheran si sono fatti stanare e hanno deciso di rispondere, con il lancio di 180 missili su Israele, e la reciproca promessa di ritorsioni sempre più dure. In poco tempo i palestinesi, che forse tra tutti gli obiettivi di Hamas potevano almeno constatare il successo di uno, cioè essere di nuovo al centro dell’attenzione, sono invece tornati sulla strada dell’oblio. Sostituiti, in un sistema mediatico delirante che centrifuga contenuti in maniera vorticosa e travolgente, dallo scenario di guerra Israele-Iran.

E’ significativo qui constatare come il presidente israeliano Isaac Herzog, per l’anniversario del 7 Ottobre, si sia fatto intervistare dall’emittente dello Stato saudita Al-Arabiya: ovviamente in opposizione a quella qatariota Al-Jazeera, schierata contro gli Accordi di Abramo, e impegnata in questi mesi a diffondere senza remore notizie e immagini da Gaza. Il Qatar, terzo fornitore di gas naturale liquefatto all’Europa, protagonista del più grave scandalo di corruzione degli ultimi anni a Bruxelles, finanziatore di Hamas con 30 milioni di dollari al mese per un decennio (col consenso di Israele), è contrario all’isolamento dell’Iran. La linea politica della sua emittente, al netto della preziosa informazione offerta spesso in solitaria e al rischio della vita dei giornalisti da Gaza, era perciò quello di spingere le opinioni pubbliche dei Paesi arabi a impedire le intese dei loro governi con Israele in chiave anti-Teheran. Obiettivo fallito.

Israele ha dunque sfruttato l’occasione offerta dal 7 Ottobre per regolare vari conti aperti nella regione, grazie alla recuperata superiorità schiacciante che Hamas, per un certo periodo, aveva messo in dubbio. Nel frattempo, in casa, il governo Netanyahu può continuare la strategia che ha sempre perseguito nei confronti dei palestinesi, oggi amplificata, e che è la base del suo potere: provocarne l’emigrazione con tutti i mezzi incluso il terrore, e annetterne i territori. La prova del successo del primo ministro israeliano è l’aumento della sua popolarità, e la scomparsa di una vera alternativa politica: la permanenza al governo dell’attuale coalizione passa attraverso guerra e ancora guerra.

 

Il miraggio di Israele

Il privilegio di cui gode Israele al momento, ossia quello di stabilire una lista di “nemici” da colpire a piacimento, però, non può razionalmente costituire una solida base politica, diplomatica o esistenziale. Dopo l’11 Settembre 2001, gli Stati Uniti di George W. Bush decisero che era il momento di regolare i propri conti aperti. Ci fu l’invasione dell’Afghanistan, per rovesciare quel “regime del male” che difendeva i terroristi. Una narrativa tristemente simile a quella usata oggi per l’Iran. Vent’anni dopo, a Kabul comandano i Talebani e gli americani sono dovuti scappare, in una caotica fuga: eppure dopo un anno di guerra il trionfo sembrava certo. Invadiamo anche l’Iraq, si disse: Afghanistan e Iraq, un Paese a Est e uno a Ovest dell’Iran – vera e propria ossessione del Dipartimento di Stato USA. Senza ovviamente rimpiangere il sanguinario despota Saddam Hussein, da quell’invasione (era un trionfo, dopo un anno di guerra) scaturirono l’ISIS e una serie di macchie indelebili per gli Stati Uniti, da Guantanamo ad Abu Ghraib. Chi c’è oggi al potere a Baghdad? Un governo teoricamente federale che è una specie di dependance dell’Iran: di certo le centomila vittime civili di quella guerra non aiutarono la popolarità dell’”asse del bene”.

La lente deformata della convenienza immediata e del nazionalismo religioso impedisce adesso di vedere lo sviluppo evidente di dinamiche simili. Un’ultima forma di supremazia sta accecando Israele, quella dell’irresponsabilità delle sue azioni. L’esibito e tracotante disprezzo per le organizzazioni internazionali – nel suo ultimo discorso Netanyahu ha chiamato l’ONU “palude antisemita”, eppure lo Stato ebraico è nato proprio grazie alla garanzia delle Nazioni Unite. Quello per i Paesi vicini, di cui si bombardano le capitali, e si invadono i territori, e si uccidono i capi e i generali con il telecomando, e si programma il rovesciamento dei governi. Quello per i palestinesi – sui quali tutto è permesso, spesso nel nome della Bibbia. Una politica del genere provoca quantità enormi di risentimento e odio, è quasi banale ricordarlo. E non di certo solo fuori da Israele: sappiamo bene come le velenose e maligne conseguenze delle guerre non risparmino affatto i “vincitori”.

 

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Un odio che si crede di tenere a bada (“mi piace vedere le fiamme, ma solo fino alla cintola, dove posso controllarle”, ama ripetere Netanyahu) – come si credeva di tenere a bada Hamas prima del 7 Ottobre? Centinaia di migliaia di lutti possono essere nascosti dietro un muro? Per dimenticarli, basta oscurare Al-Jazeera, come è stato fatto in Israele? Oppure anche i cittadini israeliani, come quelli dei Paesi vicini, sono considerati “spendibili”, nel cinico e spietato calcolo che mantiene un gruppo dirigente al potere?

 

 

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