La sortita solitaria di Emmanuel Macron, il 26 febbraio, sulla possibilità di “boots on the ground” di Paesi NATO in Ucraina ha portato acqua al mulino della propaganda putiniana secondo la quale l’invasione russa è stata una mossa preventiva di un Paese circondato e in procinto di essere attaccato dall’Occidente: in sostanza una guerra difensiva. Una versione attenuata, che alcuni da noi prendono per buona, è che l’Occidente abbia colto l’occasione offerta dal conflitto in Ucraina per boicottare economicamente e logorare militarmente la Russia, così da marginalizzarla.
Una tesi, in entrambe le versioni, pretestuosa. Anche se è innegabile che Vladimir Putin abbia reagito al progetto euro-americano di sganciare l’Ucraina, così come la Georgia e la Moldova, dall’orbita russa e attirarla in quella della NATO e dell’UE. Un’operazione geopolitica iniziata con l’appoggio dato nel 2004 agli oppositori del presidente ucraino Yanukovich, e continuata con l’accordo di associazione UE-Ucraina del 2013 e il sostegno all’insurrezione di Piazza (“Maidan”) Indipendenza dell’inizio del 2014; e infine con l’assistenza militare (addestramento e armi) fornita negli anni successivi al colpo di mano in Crimea e alla secessione del Donbass. Ma tutto ciò non giustifica l’invasione.
L’Occidente non ha voluto questa guerra, e anzi l’ha ritenuta (ad eccezione degli americani) improbabile fino alla vigilia. Può al massimo essere incolpato, nell’ottica del Cremlino, di aver fatto fallire – con l’assistenza militare fornita dal 2014 – la programmata guerra lampo, e di avere in seguito gradualmente aumentato il flusso di forniture militari al paese aggredito, costringendo così Mosca ad una lunga guerra di attrito.
Si tratta dunque di un coinvolgimento con effetti determinanti, ma non – come alcuni sostengono – di una partecipazione al conflitto armato, che peraltro sarebbe stata conforme allo statuto delle Nazioni Unite. Un coinvolgimento caratterizzato da un costante scrupolo di dosare le forniture per non irritare ulteriormente Putin ed evitare una escalation. La stessa preoccupazione che ha spinto il Cancelliere Olaf Scholz a negare a Kiev i missili cruise Taurus malgrado il contrario parere dei partner di coalizione e di molti nel suo stesso partito.
Proprio questa prudenza ha prolungato la guerra e aumentato il numero dei caduti: ha infatti dato ai russi il tempo di fortificare le loro linee e di conseguenza fatto fallire la controffensiva ucraina; e, aprendo al Cremlino la prospettiva di ulteriori acquisizioni territoriali, ha disincentivato la ricerca di un compromesso negoziale. Ricordiamo come Washington ha a lungo esitato prima di decidersi a fornire i missili Himars; lo stesso è in seguito avvenuto per i carri armati (Abrams americani e Leopard tedeschi) e poi per gli aerei. E comunque sempre in numero limitato. E mentre Mosca non ha difficoltà ad obbligare le proprie industrie a lavorare a pieno regime per le forze armate, in Occidente si è perso molto tempo. In questo momento l’esercito ucraino ha un disperato bisogno di munizioni; le industrie belliche occidentali non sono in grado di far fronte a questa domanda, tanto è vero che si parla di comprarne in Giappone e Corea del Sud.
Mosca reagisce dicendosi vittima della aggressività occidentale e brandendo in modo irresponsabile la minaccia nucleare; non senza successo presso una parte dei nostri opinion-maker. Ai quali andrebbe spiegato che l’obbiettivo non è – né realisticamente potrebbe essere – quello di logorare la macchina bellica russa e umiliare il Cremlino; bensì di evidenziare l’inutilità dei tentativi di sfondare il fronte e conquistare la fascia costiera da Kherson a Odessa.
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Che questa sia l’ambizione di Putin – ora o in una futura ripresa delle ostilità – è dimostrato non solo dalle recenti dichiarazioni del solito Medvedev, ma anche dalle minacce di Sergei Lavrov alla Moldova (“farà la fine dell’Ucraina”): la Transnistria (regione secessionista della Moldova che recentemente ha chiesto di essere annessa dalla Russia) può infatti essere raggiunta dalle forze russe solo una volta conquistata Odessa.
Si può discutere se sia plausibile l’affermazione che gli ucraini stanno combattendo anche per difendere noi. Va considerato che nel corso di una guerra gli obiettivi possono evolversi, se non altro perché i tanti caduti non devono aver perduto la vita invano. E perché il momento favorevole – Europa debole e disunita, America condizionata dall’isolazionismo della Destra, Cina amica – va sfruttato, dalla prospettiva di Mosca.
Se in passato i più erano convinti che il revisionismo territoriale di Putin non andasse oltre il ristabilimento di un legame di vassallaggio con l’Ucraina come con la Bielorussia, oggi sono molti gli esperti che ne considerano probabile l’estensione ai paesi già appartenuti all’Impero zarista: in particolare Moldova, Baltici, Finlandia, a cominciare da quelli che ospitano consistenti minoranze russofone (Moldova, Estonia e Lettonia).
La protezione di queste minoranze, e nel caso della Lituania la “disenclavizzazione” di Kaliningrad, può offrire comodi pretesti per interventi militari. O anche solo per limitate incursioni punitive, atte a testare la volontà dei Paesi NATO di rischiare una guerra europea in omaggio all’impegno di mutua assistenza dell’articolo 5.
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Se i Paesi dell’Europa Occidentale si stanno convertendo, con molte esitazioni, ad una politica di riarmo non è perché si sentano direttamente minacciati di invasione, ma per non essere costretti all’appeasement nell’evenienza ora accennata e non mettere a repentaglio la credibilità dell’alleanza. Sin d’ora sono destinatari di una guerra ibrida, fatta di disinformazione, spionaggio, appoggio alle forze politiche anti-UE, attacchi cibernetici ecc., alla quale sono visibilmente poco preparati. Lo si è visto in Germania con l’imbarazzante episodio della discussione sui missili Taurus carpita e pubblicizzata dai russi.
L’illusione che la Russia, una volta consolidato il possesso del Donbass e ottenuto il riconoscimento della sua sovranità sulla Crimea, sia disposta a garantire lo status quo e tornare a una politica di collaborazione in Europa non regge di fronte alla ripetuta minaccia di ricorrere all’arma nucleare. Non perché sia credibile, ma perché infrange un tabù. Riflette una mutazione nei rapporti internazionali di Mosca analoga a quella nel reprimere il dissenso interno. Una “Zeitenwende”, come lo ha definito il governo tedesco: un vero punto di svolta.