La Germania tra sfide economiche, autocritica e ruolo europeo

Torna oggi utile un aneddoto interessante, riferito al XXII congresso nazionale della CDU, il partito tedesco di orientamento liberalconservatore, tenutosi a Stoccarda nei primi giorni del dicembre 2008 in piena crisi bancaria mondiale: l’allora presidente Angela Merkel, riconfermata in quell’occasione con il 94,83% dei voti, disse che per evitare la crisi finanziaria che attanagliava in quel momento mezzo globo terrestre, sarebbe stato sufficiente chiedere consiglio alla «casalinga sveva», la quale ci avrebbe ricordato che non si può vivere al di sopra delle proprie possibilità economiche e finanziarie.

Una vista notturna di Berlino

 

Nell’immaginario collettivo tedesco, la casalinga sveva, o in lingua tedesca «die schwäbische Hausfrau», è un’espressione idiomatica usata nel linguaggio giornalistico-politico per indicare stereotipicamente una tipica donna di casa, saggia, frugale e parsimoniosa, a tratti simile alla «casalinga di Voghera» della cultura italiana. L’immagine funziona a meraviglia negli anni successivi, durante i quali la Repubblica Federale di Germania vive uno lungo periodo di buone prestazioni economiche, con a capo la cancelliera Merkel, in particolare il decennio 2010-2019.

 

Leggi anche: Merkel’s problematic legacy for Germany

 

A un’economia fondata sul risparmio statale, ovvero su una spesa pubblica per investimenti ridotta al minimo essenziale per assicurare una ferrea solidità fiscale e finanziaria allo Stato tedesco, la Cancelleria di Angela Merkel, insieme all’industria tedesca, affianca altri tre pilastri capaci di fornire al modello di sviluppo efficacia e vigore, ovvero i) energia a basso costo tramite le importazioni di gas russo (il progetto del Nord Stream parte nel 1997 e il primo gasdotto viene aperto nel 2011) che hanno reso i prodotti tedeschi competitivi sui mercati internazionali sia per prestazioni sia per prezzo; ii) un sistema economico fondato sulla produzione di automobili di fascia medio-alta e, dunque, dell’intero indotto industriale comprensivo dell’industria siderurgica e metallurgica, dell’industria delle macchine utensili e della microelettronica esteso ai Paesi confinanti dell’Europa orientale con costi della manodopera pari a circa la metà del costo della manodopera interna; iii) sviluppo di relazioni commerciali con la Repubblica Popolare Cinese fortemente orientate alle esportazioni, inclusive di investimenti diretti all’estero come la costruzione di impianti per la fabbricazione di automobili.

Secondo la Banca Mondiale, tra la fine della crisi finanziaria innescata dai mutui subprime (2010) e la vigilia della pandemia (2019), il prodotto interno lordo tedesco espresso in dollari ai prezzi correnti cresce alla media annua dell’1,3%, con punte superiori al 10%, contro, per esempio, un PIL medio francese di -0,6% e un PIL medio italiano dello 0,3%.

Ancora più notevole nel confronto tra la Germania e la seconda e terza economia europea, rispettivamente Francia e Italia, è la componente del prodotto interno lordo rappresentata dalla bilancia commerciale: beneficiando dell’onda lunga della prima globalizzazione, per la Germania in ogni anno del decennio 2010-2019 si registra un surplus commerciale oscillante tra il 5,8 e l’8,3% pari a una somma cumulata di oltre 2.600 miliardi di dollari per esportazioni nette, contro un surplus di 295 miliardi italiani e un deficit francese di 929 miliardi di dollari. E, contrariamente a quanto si possa pensare, il principale destinatario dei beni tedeschi è la Francia (8,7%), seguita da Stati Uniti (8,3%), Regno Unito (6,5%), Repubblica Popolare Cinese (6,4%) e Paesi Bassi (6,2%).

Circa undicimila dei 25mila ponti ferroviari della Germania hanno più di cento anni, e circa il 4% di essi è in condizioni insoddisfacenti, per la cui ristrutturazione sono stimati circa a 7,3 miliardi di euro, secondo quanto indicato in un recente rapporto di Behörden Spiegel, una rivista mensile per i servizi pubblici in Germania, che cita dati del governo federale. Le vie d’acqua tedesche seguono un corso simile, molti ponti, chiuse e dighe sono vecchi e necessitano di riparazioni, per le quali l’Associazione federale della navigazione interna (Bundesverband der Deutschen Binnenschifffahrt, BDB) si lamentata che il suo bilancio annuale è inferiore diverse centinaia di milioni di euro rispetto a quanto necessario per la manutenzione dei fiumi e dei canali utilizzati per i trasporti, secondo alcuni rapporti della Norddeutsche Rundfunk (NDR), l’emittente radiotelevisiva pubblica locale delle regioni settentrionali. E così si potrebbe continuare per strade, autostrade e ferrovie incluse le omologhe digitali.

Con una politica di bilancio orientata alla parsimonia fino al punto da indebolire le infrastrutture statali, il debito pubblico diminuisce con un tasso medio annuo del 3,2%, passando, in rapporto dal prodotto interno lordo, dall’81% del 2010 al 58,7% del 2019, quando alla fine del medesimo periodo la Francia registra un rapporto debito/PIL del 98,1% e l’Italia del 133,8%, secondo i dati forniti dall’Ufficio statistico dell’Unione Europea.

Angela Merkel diviene nel frattempo una delle donne più potenti del mondo, almeno a detta delle copertine di blasonate riviste statunitensi. La Cancelliera acquisisce durante i sedici anni ininterrotti del suo mandato (seppure sostenuta da coalizioni differenti) un’influenza sostanziosa sulla società tedesca, assicurando stabilità politica al Paese, nonostante le coalizioni di governo siano composte di figure politicamente spesso contrapposte, ma comunque unite da una collaborazione sistemica.

Un modello di sviluppo lodevole e ammirevole. Ma, come qualche economista osserva, avere una casalinga, o un casalingo, come figura di riferimento per la gestione di uno Stato, e cioè un orientamento al risparmio puramente per fini prudenziali, è puro analfabetismo economico e finanziario, poiché una casalinga invecchia e deve risparmiare per la sua vecchiaia, dunque non spende per ristrutturare o ampliare la sua casa né spende per acquistare una nuova automobile meno inquinante; uno Stato è invece organizzato e strutturato per vivere per sempre, un bilancio statale non è un bilancio privato, e uno Stato per prosperare deve spendere, cioè investire, per migliorare il benessere complessivo della popolazione, per esempio in infrastrutture come la ferrovia ad alta velocità oppure nella digitalizzazione della pubblica amministrazione. E se uno Stato risparmia senza investire, il rischio è di arrivare a un collasso socioeconomico, dunque un modello non vincente in eterno, soprattutto in tempi di vacche magre, come i tempi attuali.

Nell’arco di due-tre anni il contesto internazionale cambia improvvisamente. Scoppia la pandemia da coronavirus e rallenta l’economia cinese anche per effetto delle politiche «zero-covid» volute dal presidente Xi Jinping. La Russia di Vladimir Putin invade brutalmente l’Ucraina con successiva impennata dei prezzi del gas russo fino a dodici volte i prezzi prima dell’invasione, con la conseguente perdita di competitività di prezzo dei manufatti tedeschi, a cui si associa anche la forse prematura e affrettata decisione di abbandonare l’energia nucleare. Si accelera poi la scalata nelle catene globali del valore delle aziende cinesi, che diventano aziende concorrenti, in particolare nella fabbricazione di auto elettriche, il che riduce ulteriormente le esportazioni tedesche. E infine la vetustà delle infrastrutture statali tedesche abbassa la produttività complessiva del Paese.

 

Leggi anche: La Germania in mutazione politica

 

La stampa internazionale coglie l’occasione per inveire, finalmente, contro il modello di sviluppo tedesco, tanto velleitariamente imitato e, forse, tanto inutilmente invidiato. Persino i media nazionali, o almeno una gran parte di essi, inizia una sorta di abiura e di ritrattazione della gestione dello Stato secondo le linee dettate dalla tanto applaudita ex cancelliera Merkel.

Michael Hüther, direttore dell’Istituto di economia tedesca di Colonia – noto anche come IW, Institut der deutschen Wirtschaft – fondato nel 1951 sotto gli auspici della Confederazione delle associazioni imprenditoriali tedesche (Bundesvereinigung der Deutschen Arbeitgeberverbände, BDA) e della Federazione dell’industria tedesca (Bundesverband der Deutschen Industrie, BDI), in una recente intervista afferma che per oltre sedici anni i tedeschi sono stati cullati in un falso senso di sicurezza, creato proprio dallo stile di leadership adottato da Merkel, che ha cercato di tranquillizzarli promettendo che avrebbe risolto tutto, riducendoli a persone soddisfatte di se stesse e senza più alcuna ambizione.

Con un apparente compiacimento di una parte della stampa europea, a tratti avventista, l’ago del barometro delle previsioni è fisso sulla bassa pressione. Eppure, dal dopo-pandemia da coronavirus, l’economia della Germania è sì “stagnante”, ma solo se è paragonata a se stessa, cioè se è confrontata con i tassi di crescita registrati nei decenni precedenti.

 

Se invece i tassi di crescita tedeschi si confrontano con i tassi medi dei Paesi dell’Unione Europea, allora si scopre che la Germania va come vanno gli altri: per esempio, se alla fine del terzo trimestre del 2024 il prodotto interno lordo tedesco cresce di appena lo 0,1%, il tasso medio dell’insieme dei 27 Paesi UE è di appena lo 0,3%. E a ogni trimestre precedente i risultati sono altalenanti, una volta a favore della Germania e una volta a favore della media UE, e il medesimo rapporto si evince anche dal confronto con le altre due grandi economie europee di Francia e Italia, per esempio, prendendo a riferimento ancora il terzo trimestre del 2024, la Francia registra un aumento del PIL dello 0,4% e l’Italia dello 0,0%, rimanendo ancora nell’ordine dello zero-virgola.

Se dal gennaio 2020 alla fine del 2024 la produzione industriale cala in Germania di circa il 12%, al punto da spingere alcuni commentatori a lanciare l’allarme della deindustrializzazione, dall’altro canto, il valore aggiunto lordo cresce nello stesso periodo di quasi il 24%, un segnale importante che indica che le aziende tedesche iniziano già a rispondere ai cambiamenti in corso passando dalla produzione di prodotti a margini relativamente bassi, tipici delle attività economiche della produzione di prodotti chimici, alla produzione di prodotti a valore aggiunto più elevato, forse uno dei pochi modi per continuare a prosperare in un mondo che si appiattisce.

Se l’industria tedesca si riconverte e si rifocalizza, lo scoglio rimane la spesa pubblica per investimenti fissi regolata anche da principi costituzionali, che per sane ragioni di solidità delle finanze pubbliche limitano il disavanzo federale strutturale allo 0,35% del prodotto interno lordo. A questo né il prossimo cancelliere Friedrich Merz, né la prossima coalizione di governo, nella forma di una rinnovata alleanza tra cristiano-democratici e socialisti, per principio o per opportunità è formalmente disposto a rinunciare: la questione dovrà allora spostarsi su una gestione di sviluppo orientata al partneriato pubblico-privato, per esempio nell’ammodernamento della linea ferroviaria nazionale e transnazionale verso le altre capitali europee come pure delle forze armate in un relazione di equilibrio con gli altri partner del Patto Atlantico, e ancora nella digitalizzazione della pubblica amministrazione il cui livello tecnologico odierno è sotto la già bassa media europea.

Che nessuno sottovaluti la capacità di ripresa della Germania.

 

 

politicsEuropeeconomyGermanyEUindustry