In parallelo con la sofferta rielezione di Emmanuel Macron alla presidenza francese – netta in termini di voti finali, ma comunque dimostrazione di un forte dissenso interno – il quadro europeo deve tener conto anche di quanto accade in Germania. Il governo di Olaf Scholz è in carica da neppure sei mesi e già la sua coalizione di Socialdemocratici, Verdi e Liberali manifesta segnali di difficoltà, soprattutto in politica estera.
Ciò non dovrebbe sorprendere, visto che quasi tutti i governi europei sono sotto pressione tra opinioni pubbliche giustamente preoccupate (quantomeno per ragioni economiche) e la ricerca di una linea comune nei confronti della Russia di Putin. Ma ci siamo abituati a coalizioni tedesche molto solide, in particolare nei lunghi anni (oltre 15) in cui alla guida del Paese è stata ininterrottamente Angela Merkel, e l’idea di una Germania con un instabile fronte interno appare un’anomalia. E’ chiaro inoltre che un mutamento della linea internazionale di Berlino tende a ripercuotersi sulla UE, e dunque c’è in gioco l’intero assetto continentale: i parziali aggiustamenti annunciati finora da Scholz dovranno ora reggere la prova del consenso interno.
Il problema, ben noto già prima del 24 febbraio 2022, è che una doppia scelta economico-industriale tedesca – gas naturale dalla Russia a discapito di qualsiasi altra fonte, e poi uscita dal nucleare – ha avuto effetti strategici a cascata. Come sempre in politica, è una questione di priorità: la Germania, per almeno l’ultimo ventennio, ha sistematicamente deciso di mantenere un basso profilo sul piano della difesa (sia nel consolidato ambito della NATO, sia in quello più embrionale della UE), e intanto approfondire l’interdipendenza economica con la Cina e quella energetica con la Russia. Una combinazione che a posteriori appare rischiosissima, e che è stata comunque condivisa da molti Paesi europei, a cominciare dall’Italia.
Nell’arco di poche settimane, è arrivato un vero shock. Berlino sembra aver cambiato rotta quasi repentinamente, quantomeno nel senso di riconoscere apertamente alcuni errori di valutazione e di avviare un programma di spese per la sicurezza che vedranno, si spera, anche un maggiore tasso di coordinamento con i partner europei.
Le ultime settimane ci ricordano allora, in modo lampante, che quando cambiano le circostanze cambiano spesso, pragmaticamente, anche gli interessi nazionali. L’interesse nazionale – soprattutto declinato al singolare – è quel concetto quasi magico che alcune teorie delle relazioni internazionali ritengono essere un pilastro solido e stabile.
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In effetti, gli interessi (che peraltro andrebbero qualificati come statuali piuttosto che “nazionali”) sono sempre plurali e fondati su trade-off dinamici; sono cioè l’interpretazione contingente delle opzioni realisticamente disponibili ad un Paese, nella percezione del suo governo in carica. Posta in questi termini meno dogmatici, la definizione pratica degli interessi si lega direttamente alle condizioni internazionali del momento, oltre che al quadro politico interno. Ed è qui che può tornare utile una definizione piuttosto astratta, frequentemente adottata dai politologi (e non solo): la distinzione concettuale e l’interazione costante tra “struttura e agente”.
Perfino gli storici, solitamente restii a usare ampie generalizzazioni, ricorrono talvolta a questo strumento interpretativo. Ad esempio, uno dei maggiori storici americani della Guerra Fredda, Melvyn Leffler, ha descritto il suo libro del 2007 (For the Soul of Mankind. The United States, the Soviet Union, and the Cold War, Hill and Wang, New York) come “about structure and agency” (p. 8). Secondo Leffler, comprendere le origini di quel lungo confronto tra due superpotenze, che diede il nome a un intero sistema globale, richiede l’analisi di idee, paure e speranze, percezioni, ideologia e memoria. E’ così per qualsiasi fenomeno politico, e in realtà lo stesso elenco appena fatto va ben oltre un assetto internazionale (struttura) e il libero arbitrio dei decisionmaker (agenti), per spingersi nel terreno scivoloso delle percezioni e delle idee, cioè delle visioni del mondo e della psicologia.
Visto che la politica è l’arte del possibile, a imporsi è spesso chi si adatta prima e meglio. E’ lecito aspettarsi un notevole pragmatismo da parte di chi ricopre ruoli di governo, a fronte di dati che cambiano e improvvise accelerazioni di trend fino a quel momento graduali. Un ragionamento che vale per qualsiasi situazione complessa, non soltanto in politica internazionale.
Eppure, colpisce comunque la rapidità con cui un Paese come la Germania sembra aver mutato rotta riguardo alle sue scelte energetiche a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina e delle successive sanzioni internazionali contro Mosca. Appena pochi mesi fa la priorità per il governo Scholz, pur tra alcune critiche, vari dubbi ed esitazioni, era rendere pienamente operativo il famigerato gasdotto Nord Stream 2, eredità dell’era Merkel – quasi che il fait accompli del flusso di gas potesse di per sé rendere secondarie le obiezioni di tipo strategico alla scelta di dipendere ancor più dalle forniture russe.
Oggi, la Germania e praticamente tutti i Paesi-membri della UE (con l’eccezione della sola Ungheria) stanno ridefinendo i propri impegni di sicurezza, e perfino la struttura dei propri scambi economici in settori strategici come quello energetico, in base a una diversa valutazione politica: si vede la Russia attuale come una vera minaccia diretta e non più un partner, magari problematico ma in fondo affidabile, tra vari altri. Così facendo, viene rilanciato il ruolo della NATO e si apre una discussione serrata, al momento dagli esiti assai incerti, sul ruolo di sicurezza della UE.
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Le incertezze e i punti interrogativi sono molti, come i timori che siano le categorie di cittadini meno abbienti a pagare i costi indiretti delle sanzioni contro la Russia. Intanto, però, vale la pena notare che le democrazie liberali di mercato stanno dimostrando una volta di più la capacità di adattarsi e di imparare dagli errori. E’ certo un processo costoso, tutt’altro che indolore; ma è necessario, e produrrà effetti positivi a medio termine. Il cambiamento comporta sempre dei rischi, eppure questo non è un buon motivo per evitarlo: si pensi a come la crisi ucraina ha reso evidente che l’intero impianto della transizione sostenibile mancava in effetti di alcune componenti (tecnologie ancora non mature, tempi sufficienti per la riconversione di intere filiere industriali, un mix energetico ben diversificato). E’ un effetto indiretto dell’aggressione russa, e certo un effetto indesiderato, ma comunque un dato da cui trarre insegnamenti per il prossimo futuro.
La Germania, la NATO, l’Unione Europea stanno faticosamente cercando nuove strade per affrontare problemi in parte nuovi. Lo fanno potendo contare su meccanismi decisionali e istituzioni che non sono certo perfetti ma che stimolano lo spirito critico, la sperimentazione continua e l’adattamento.
In termini più generali, si può certamente affermare che la struttura del sistema internazionale – la globalizzazione, le catene del valore, le grandi alleanze non solo europee – stiano cambiando. Ma è bene ricordare che tutto ha avuto inizio con la decisione di un uomo al comando, Vladimir Putin, un leader che sembra sempre più solo al comando del suo Paese, senza veri collaboratori in grado di esprimere un parere e perfino di dargli informazioni accurate. Forse è davvero così isolato perché ha perso il contatto con la realtà complessa che lo circonda. Probabilmente, lo stesso sistema politico che ha costruito negli anni passati non gli consente di capire fino in fondo il mondo di oggi.