Fayez Al-Serraj e il generale Khalifa Haftar, i contendenti dei combattimenti in Libia (o, sarebbe meglio dire, delle molteplici Libie) erano presenti a Berlino. I due, però, non si sono mai seduti al tavolo delle trattative, non si sono mai incontrati, sono sempre rimasti in stanze separate e non hanno nemmeno firmato il documento conclusivo. Il fatto che la loro firma non sia stata considerata indispensabile per chiudere la conferenza dimostra, più di ogni altra cosa, come l’incontro berlinese avesse come scopo primario il contenimento delle tensioni libiche in merito al ruolo degli attori esterni. Il primo obbiettivo era quello di scongiurare un contagio del conflitto in in tutta la regione circostante.
La conferenza di Berlino sulla Libia è stata inseguita dal governo tedesco (e dall’ONU) per mesi. L’incontro è infine avvenuto domenica 19 gennaio, con un brevissimo preavviso che ha dimostrato la difficoltà nel portare tutti i player al tavolo delle trattative e la scelta tattica di non lasciare a nessuno troppo tempo per eventuali ripensamenti. Nella capitale tedesca si sono così confrontati i rappresentanti di Germania, Francia, Italia, Russia, Turchia, Regno Unito, Stati Uniti, Algeria, Cina, Egitto, Repubblica del Congo ed Emirati Arabi, oltre agli alti rappresentanti delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana, dell’Unione Europea e della Lega degli Stati arabi.
Dalla conferenza è emerso un documento di 55 pagine in 8 paragrafi fondamentali, indirizzato al consolidamento di una tregua in Libia e alla ricerca di una soluzione politica in opposizione all’escalation militare. Diversi punti cruciali, come si vedrà, sono però solo primi passi verso la pacificazione e potranno essere messi velocemente a rischio dalle evoluzioni sul campo.
Per le specificità dello scontro tra le fazioni di Tripolitania e Cirenaica, e delle altre (e per le sue sanguinose conseguenze), la conferenza berlinese rimanda a dei “follow-up”, nuovi incontri ancora da calendarizzare, e alla scommessa su un possibile dialogo intra-libico. Possibilità di dialogo che dalla conferenza escono in parte rafforzate grazie a un punto: la creazione di un comitato militare congiunto tra GNA di Al-Serraj e LNA di Haftar nel formato Joint 5+5 (cinque elementi scelti da Al-Serraj, cinque da Haftar), che dovrebbe fin da subito garantire il cessate il fuoco sul territorio.
Mentre i risultati concreti della conferenza di Berlino restano quindi da definirsi, nei maggiori media tedeschi ci si è ugualmente lasciati andare a un certo entusiasmo per la riuscita del meeting e per la capacità tedesca di profilarsi come nuova potenza diplomatica. Il ruolo della Germania è stato certamente cruciale e merita di essere analizzato: perché il governo tedesco ha fatto così tanto per organizzare in patria la conferenza sulla Libia? Alla domanda possono essere date almeno tre risposte, diverse tra loro ma profondamente intrecciate.
1 – Il credito della Germania come player neutrale
La conferenza di Berlino è anche leggibile come il tentativo dell’Unione Europea di impedire (comunque tardivamente) che il vuoto di decisioni internazionali multilaterali sulla Libia venga completamente riempito da un crescente gioco di tensioni per procura e successivi accordi tra Russia e Turchia.
Al momento, un intervento rapido dell’UE come entità compatta sarebbe stato però complicato, e anche troppo poco incisivo di fronte a player molto sensibili alla realpolitik come Mosca, Ankara, Il Cairo o Abu Dhabi. In questo caso, in questa situazione e con questa urgenza, l’UE poteva quindi solo intervenire tramite uno dei suoi pesi massimi. Visto il profondo coinvolgimento di Italia e Francia nello scontro libico, non restava di fatto che la Germania per portare avanti un’iniziativa dotata della neutralità necessaria a guadagnarsi un mandato informale dall’ONU.
Malgrado la presenza in Libia della consociata tedesca di petrolio e gas Wintershall, anche sul piano delle risorse energetiche Berlino è certamente meno coinvolta di quanto lo sia Roma con l’Eni o la Francia con Total. Le frizioni tra l’Italia, sostenitrice formale di Al-Sarraj, e la Francia, che da tempo favorisce Haftar (seppur mantenendosi nell’area della plausible deniability), sono state del resto proprio alla base della recente incapacità dell’UE di sviluppare una politica comune sulla Libia. La neutralità della Germania sul campo è oggi anche determinata dall’assenza di una sua forte storia coloniale nell’area e, last but not least, dal dettaglio per cui proprio i tedeschi furono nel 2011 il solo paese occidentale ad astenersi sulla risoluzione 1973 al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – risoluzione da cui partì l’azione di abbattimento del regime di Gheddafi.
Grazie a forza contrattuale e neutralità, la Germania è riuscita a tessere la complessa rete diplomatica che ha portato all’incontro di Berlino. Nel processo, ha pesato anche tutto il credito accumulato negli anni dai governi Merkel, che hanno sempre mantenuto rapporti e canali di confronto (nonostante asprezze e difficoltà politiche) con paesi oggi decisivi sul dossier in questione, a partire ovviamente proprio dalla Russia di Putin e dalla Turchia di Erdogan.
2 – Immigrazione ed equilibri intereuropei
Neutralità tedesca, ovviamente, non significa che Berlino non abbia comunque degli interessi politici diretti nella risoluzione della questione libica e che la sua iniziativa sia unicamente frutto della constatazione di una leadership mancante altrove nell’UE.
Oltre ad avere un interesse comprensibile a non vedere scoppiare un ulteriore conflitto alle porte dell’Europa, una primaria urgenza per Berlino in merito alla Libia resta la questione migratoria. Da tempo Angela Merkel è intenzionata a intervenire maggiormente in Africa per un approccio ai flussi migratori che coinvolga i paesi d’origine o di transito dei migranti. La Kanzlerin ha visto come la questione migratoria abbia potuto far traballare il suo consenso in patria e in Europa: l’approccio del suo governo (e degli altri governi europei) alle politiche d’immigrazione è condizionato da questa consapevolezza.
La violenza del conflitto in Libia sta già costringendo alla fuga sempre più persone, così come sta peggiorando le condizioni di chi dalla Libia vorrebbe attraversare il Mediterraneo. Il documento finale dell’accordo di Berlino fa un chiaro ed esplicito riferimento ai civili libici che stanno soffrendo le conseguenze della guerra civile e ai migranti rimasti intrappolati o imprigionati nel paese.
Un nuovo flusso di persone in fuga dal Nord Africa interesserebbe per prima cosa l’Italia, ma una rinnovata e drammatica crisi dell’immigrazione diventerebbe comunque un problema europeo e intra-europeo, con le relative ripercussioni sulla coesione e sulla politica interna dell’Unione.
La questione immigrazione è elemento decisivo anche per la preoccupazione tedesca di un attivismo troppo esteso della Russia o della Turchia sulle coste nordafricane. Berlino ha già esperienza più che diretta delle tattiche di pressione e ricatto del presidente turco Erdogan tramite i flussi migratori che attraversano la Turchia. Che se ne parli o meno, l’idea che lo stesso Erdogan o magari Vladimir Putin possano strumentalmente influenzare anche i flussi provenienti dalla Libia è fonte di inquietudine per Berlino, per Bruxelles e per altre capitali europee.
Altro elemento chiave dell’interesse diretto della Germania sono i già citati attriti tra Italia e Francia. Un certo gioco di sponda reciproco fatto di scaramucce tra i tre paesi chiave dell’UE è tradizione consolidata, ma il governo tedesco non vuole assolutamente che il rapporto tra Roma e Parigi – già piuttosto freddo – diventi un altro fattore di eccessiva destabilizzazione nell’Unione Europea. Sul dossier libico Merkel ha dovuto (e dovrà) quindi saper gestire sia i rapporti con il premier Conte che con il presidente Macron. Il governo italiano e quello francese sono considerati da Berlino amici, e vitali per la tenuta dell’UE post-Brexit: nei corridoi dei ministeri tedeschi, nessuno vorrebbe vederli sostituiti da esecutivi ben più anti-europei e anti-tedeschi.
3 – Potenza del multilateralismo?
Emerge quindi lo scenario di una Germania che si posiziona come mediatore tattico e pacificatore consapevole. Questo vale anche per i rapporti con Russia e Turchia. Nonostante le appena citate preoccupazioni, Merkel ha fatto di tutto per valorizzare le leadership di Mosca e Ankara in preparazione della conferenza di Berlino. La Kanzlerin è volata fino in Russia prima di annunciare la stessa conferenza, omaggiando di fatto Vladimir Putin a pochi giorni dalla svolta politica interna che ne solidificherà ancora di più il potere in patria. Trattamento di riguardo è stato riservato anche al frenemy Erdogan: il mancato coinvolgimento della Grecia nelle trattative sulla Libia è un dettaglio emblematico di questa impostazione.
Se al punto 1 si è visto come la Germania sia giunta a essere credibile potenza neutrale, va anche osservato come il governo tedesco e gli strateghi della sua politica estera abbiano massicciamente puntato sulla conferenza di Berlino per dare forma finalmente concreta e riconoscibile a questo status. Non è un caso che, pochi giorni prima dell’incontro sulla Libia, Merkel abbia rilasciato al Financial Times una lunga intervista, in cui ha ripetuto le parole d’ordine che vuole sempre più trasformare nella propria eredità politica. Un’eredità fatta di difesa del multilateralismo, constatazione tattica del bisogno che la Germania ha dell’UE, necessità per i tedeschi di impegnarsi sempre più diplomaticamente e, in prospettiva, anche di assumersi responsabilità militari oggi inedite.
Sei anni fa, alla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza del 2014, l’allora Presidente della Repubblica Federale Joachim Gauck, l’allora ministra della Difesa Ursula von der Leyen e l’allora ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier si espressero quasi all’unisono in favore di una nuova era di “maggiore responsabilità” tedesca negli scenari internazionali. Dopo tentativi tedeschi non troppo espliciti in questa direzione (si veda l’Ucraina e il dossier Afghanistan) è infine la conferenza di Berlino a essere la svolta ampiamente riconoscibile verso questo nuovo ruolo.
Per anni solo beneficiaria del classico ordine liberale, oggi la Germania cerca di candidarsi a custode della metamorfosi che questo stesso ordine attraversa. Ovviamente l’evoluzione del ruolo tedesco nel mondo è destinata ad avere diverse intensità e gradualità. L’approccio primario di Berlino alla conferenza sulla Libia dimostra come i tedeschi cerchino per ora di evitare qualsiasi grammatica della deterrenza militare e vogliano invece valorizzare un particolare momentum da potenza del multilateralismo capace di farsi portatrice di soft power diplomatico tramite il solo hard power economico e un contingente capitale reputazionale.
Proprio il futuro prossimo del conflitto libico, però, potrà costringere Berlino ad accelerare la propria trasformazione. Come detto, l’accordo raggiunto domenica 19 gennaio nella capitale tedesca resta aperto su molti punti: l’effettiva durata della tregua, un sistema di embargo delle armi che però non prevede sanzioni a chi non lo rispetti, il difficile contrasto delle numerose milizie armate che restano facilmente manovrabili dall’esterno, il destino concreto di organi libici come la National Oil Corporation (NOC) e le sue relazioni con i compratori e i gestori delle sue risorse.
Punti decisivi, che potrebbero essere risolti passo dopo passo con la gestione disciplinata e volenterosa del processo di Berlino, ma da cui potrebbe invece anche scaturire la necessità di intervenire in Libia con una forza di interposizione. L’opzione è stata sostenuta proprio alla conferenza berlinese dall’Italia e dal Regno Unito, ma al momento non piace agli stessi tedeschi, ai francesi e ad altri. Il ruolo dell’Unione Europea in una simile forza di interposizione potrebbe infatti rivelarsi importante e, quindi, la Germania dovrebbe domandarsi se e come mandare in Libia la propria Bundeswehr.
In questo caso, Berlino si troverebbe a partecipare a una missione non più come partner di minoranza (cosa che è sempre avvenuta in passato), ma dovendo dare un contributo proporzionale all’impegno inseguito e mostrato in questi mesi di autopromozione come nuova potenza del multilateralismo.