Le ultime elezioni europee sono state vissute e raccontate in Germania come un momento cruciale per il destino dell’UE e dell’Europa. Una narrazione condivisa da quasi tutto lo spettro politico: dal centro-destra fino alla sinistra radicale. Non solo la politica, ma anche i media, diverse personalità e alcune grandi imprese hanno invitato pubblicamente i tedeschi a non perdere l’occasione di partecipare alle elezioni. Volkswagen ha esibito nei suoi stabilimenti di Wolfsburg un grande striscione con la bandiera europea e la scritta “Volkswagen vota Europa”, Lufthansa ha fatto volare uno dei suoi jet con la scritta “Say yes to Europe”, mentre la Fritz Kola (una bevanda molto diffusa nel paese) ha esposto ad Amburgo un grande banner con sopra scritto “Kreuz ohne Haken”, invitando quindi addirittura a mettere una croce elettorale contro il pericolo della croce uncinata. Se le varie aziende e personalità non si sono quindi direttamente espresse a favore di uno specifico partito, tutti hanno parlato del voto come elemento vitale per fermare il pericolo di nuovi nazionalismi capaci di portare alla rottura della pax europea. La risposta dell’affluenza è stata significativa: a votare è andato il 61,4% degli elettori, il dato più alto per le elezioni europee da quando la Germania è riunificata.
Ma se la politica e la società civile sono state quasi interamente d’accordo nella chiamata europeista alle urne, questo non significa che ciascun partito tedesco si sia fatto promotore dello stesso tipo di europeismo. Anzi. Gli europeismi tedeschi continuano a essere molto diversi fra loro e sono emblematici delle differenti modalità con cui Berlino potrà muoversi nel futuro incerto dell’Unione Europea.
Il momentum dell’europeismo verde
Anche se secondi nella conta dei voti, i veri vincitori delle elezioni europee in Germania sono sicuramente i Grünen. Con il 20,5% dei consensi, i Verdi sono cresciuti di 9,8 punti rispetto alle europee del 2014 e di 11,6 punti rispetto alle elezioni nazionali del 2017. I motivi del successo verde sono molteplici. I Grünen possono approfittare dello scarso appeal della Große Koalition di governo, intercettando così il consenso degli elettori più liberal della CDU e dei tanti delusi della SPD. Il 26 maggio i Verdi hanno infatti sottratto oltre 1 milione di voti europei a ciascuno dei partiti che fanno parte del Merkel IV.
Il successo verde, inoltre, è ovviamente anche legato all’attuale ed eccezionale centralità delle nuove campagne per la difesa del clima, di cui il movimento Fridays For Future è una delle espressioni più evidenti. L’ambiente è diventato in Germania un tema primario e si è rivelato decisivo in un dibattito politico che, in precedenza, era soprattutto condizionato dalle varie posizioni sull’immigrazione. I Verdi sono così riusciti a imporsi con una narrazione in cui l’europeismo e la società aperta vengono saldati alla rivendicazione di un destino comune e transnazionale di fronte all’emergenza climatica. Un messaggio politico che ha garantito ai Grünen un voto su tre tra gli under 30 tedeschi.
Ora per i Verdi comincia però la parte più difficile. Con 21 seggi, i Grünen tedeschi sono chiaramente la forza trainante del gruppo Verdi/ALE al Parlamento europeo, dove potranno contare anche sull’importante presenza francese di Europe Écologie – Les Verts (12 seggi) e di altri partiti minori, per un totale di 67 o più seggi su 751 (inclusi gli 11 provenienti dal Regno Unito). Come usarli nel gioco politico del nuovo parlamento europeo?. Da un lato i voti verdi saranno forse preziosi nella scelta del prossimo Presidente della Commissione UE e per orientare un Parlamento molto frastagliato. Dall’altro, i Grünen perderebbero credibilità e popolarità se perseguissero la propria agenda ambientalista con troppa leggerezza, tralasciando le misure sociali. La scintilla che ha fatto esplodere il fenomeno dei gilets jaunes francesi, infatti, ha già dimostrato quanto possa essere deleteria per la causa ambientalista l’impressione di andare in prima battuta a danneggiare il ceto medio e medio-basso d’Europa.
L’europeismo molto tedesco della CDU-CSU
Vincitrice ufficiale delle elezioni europee in Germania resta ancora la Union, con il 28,9% dei voti (che le permettono di essere il partito nazionale più forte nel Parlamento europeo, con 29 seggi, anche se a pari merito con il Brexit Party di Nigel Farage e con la Lega italiana). Per la prima volta, CDU e CSU bavarese si sono presentate con un programma unico, forti del loro sostegno comune a Manfred Weber, Spitzenkandidat alla Presidenza della Commissione europea per il Partito Popolare Europeo, europarlamentare cristiano sociale già da tre legislature.
Ma le cose non sono andate come previsto. Se la CSU è riuscita a conquistare un punto in più rispetto al 2014, la CDU ne ha persi ben 7,4. Rispetto alle elezioni nazionali del 2017, la Union ha inoltre perso 4 punti percentuali, cadendo così sotto la soglia psicologica del 30%. Decisivi per la tenuta della CDU-CSU sono stati solo i voti degli over 60, mentre la prestazione tra i più giovani è stata molto negativa.
Il sistema dello Spitzenkandidat è quello che aveva permesso la nomina di Jean-Claude Juncker, capolista del gruppo PPE nel 2014. Ma anche a causa del deludente voto in Germania, non sarà facile a Weber succedergli automaticamente. All’interno delle dinamiche decisive del Consiglio Europeo, giocheranno le loro carte player fondamentali come il presidente francese Emmanuel Macron, che vuole trovare un altro candidato, mentre il Cancelliere austriaco Sebastian Kurz, uno degli sponsor più convinti di Weber, è stato invece appena sfiduciato dal suo Parlamento. Inoltre, si ipotizza già da tempo che la Kanzlerin Angela Merkel possa sacrificare la candidatura di Weber in favore di quella di un altro tedesco, Jens Weidmann, alla ben più strategica guida della BCE.
Manfred Weber, del resto, potrebbe rivelarsi addirittura geopoliticamente problematico per il suo paese, a causa del suo scetticismo sulla costruzione del North Stream 2. Un posizionamento, quello sul raddoppio del gasdotto nel Mar Baltico che Berlino costruisce in collaborazione con Mosca, con cui il politico bavarese ha chiaramente cercato di darsi un profilo più imparziale, europeista e meno tedesco in politica estera.
L’europeismo della CDU-CSU, intanto, continua a essere come sempre molto esibito e, allo stesso tempo, molto cauto. La Union appoggia una maggiore integrazione europea nel campo della sicurezza e dell’immigrazione (con la creazione di una “FBI” europea e il rafforzamento della missione di Frontex). Ma allo stesso tempo i cristiano-democratici confermano la loro ostilità a forme di bilancio comune dell’eurozona o a un Ministro delle Finanze europeo. All’interno dello stesso PPE o tra i suoi futuri alleati, ciò potrà favorire divisioni e disomogeneità che rafforzerebbero un trend complessivo di nazionalizzazione del Parlamento UE, con la creazione di intese temporanee trans-politiche e trans-ideologiche, definite soprattutto dai rispettivi interessi nazionali e dall’accento su specifiche strategie geopolitiche.
In Germania, nel frattempo, la performance deludente della CDU pesa ora tutta sulle spalle di Annegret Kramp-Karrenbauer. a capo del partito da circa sei mesi Certo, l’aiuto che AKK ha ricevuto per le Europee da parte della sua madrina Angela Merkel è stato davvero limitato. Il risultato è comunque che l’attuale debolezza di Kramp-Karrenbauer sembra mettere in discussione la sua corsa verso la successione-sostituzione della stessa Merkel al Cancellierato.
L’europeismo démodé della SPD
Nel nuovo Parlamento di Bruxelles-Strasburgo, il gruppo dei Socialisti&Democratici (S&D) perde 42 seggi, ma resta ancora il secondo per grandezza. Un risultato frutto di sostanziali riprese, come nel caso del PSOE spagnolo, ma anche di profondi ridimensionamenti, come nel caso del PS francese e della SPD tedesca. Con un magrissimo 15,8% a queste elezioni europee, la SPD è infatti crollata di 11,4 punti percentuali rispetto al 2014 e di quasi 5 punti rispetto alle elezioni nazionali del 2017. Un nuovo record negativo, che peggiora lo psicodramma dei socialdemocratici e che pone in bilico tanto la leadership di Andrea Nahles quanto la durata della stessa GroKo di governo.
Durante la campagna elettorale, la SPD ha ricevuto il sostegno dello Spitzenkandidat socialista, l’olandese Frans Timmermans, che si è presentato diverse volte agli elettori tedeschi, grazie alla sua più che fluente padronanza della lingua. Ma nemmeno gli sforzi di Timmermans, che hanno invece rilanciato i laburisti nei Paesi Bassi, hanno potuto vivacizzare una campagna della SPD basata su parole d’ordine classicamente europeiste ma senza alcun nuovo mordente, vale a dire incapaci di trasmettere una visione europea in qualche modo appassionante o innovativa. Nonostante una proposta abbastanza chiara sull’istituzione di un salario minimo in tutta Europa, i socialdemocratici non sono riusciti a convincere gran parte di quello che un tempo era il loro elettorato di riferimento.
La SPD ha pagato poi anche l’evidente parallelo tra la GroKo di Berlino e quella che è stata egemone negli ultimi anni nell’Unione Europea.
Proprio per sfuggire all’abbraccio soffocante delle vecchie grandi coalizioni con i popolari, la SPD e i S&D potrebbero ora cercare nuove alleanze in Europa. Nuovi referenti con cui, ad esempio, spingere con più forza progetti come le forme di bilancio comune nell’eurozona e l’istituzione di un Ministro delle finanze europeo. Una cosa è certa: i prossimi anni saranno decisivi per i socialisti europei e, ancora di più, per i socialdemocratici tedeschi, che dovranno trovare il modo di uscire da una stasi quasi paradossale, perché causata dall’essere al tempo stesso troppo deboli e troppo forti per potersi davvero rinnovare.
Europeismo post-comunista ed europeismo liberal-liberista
Anche l’altra sinistra tedesca, la Linke, ha poco da festeggiare. Con il 5,5% dei voti, la sinistra radicale ha perso quasi 2 punti rispetto al 2014 e 3,7 rispetto alle elezioni nazionali del 2017. Un punteggio scarso, soprattutto considerando il recente impegno della Linke nel rinnovarsi come partito europeista determinato nel fermare l’avanzata dei nazionalismi. Dopo anni di ambiguità sul progetto europeo, infatti, la sinistra post-comunista tedesca ha sottolineato l’importanza dell’Unione come argine ai sovranismi, pur confermando di voler cambiare profondamente la struttura sociale e l’indirizzo strategico dell’UE. Lanciando la sua campagna europea a febbraio, inoltre, la dirigenza della Linke ha anche tatticamente marginalizzato alcune correnti interne al partito più scettiche sull’immigrazione e ispirate al social-patriottismo.
La svolta non ha pagato, ma Linke porterà comunque 6 eurodeputati al gruppo EUL/NGL, dove, insieme alle sinistre radicali di Grecia, Spagna, Francia e altre, potrà anche muoversi verso alleanze temporanee con il PSE e i Verdi. Bisogna tuttavia notare come, da un punto di vista internazionale, la Linke tedesca prediliga ancora un’impostazione filo-russa, che su certi temi la allinea con partiti come la Lega e il Rassemblement National (RN) di Marine Le Pen piuttosto che, ad esempio, con il gruppo Verdi/ALE.
Sul fronte opposto alla Linke, almeno in termini di politiche economiche, hanno raccolto il 5,4% i liberali di FDP. Un risultato poco soddisfacente: +2,1 punti percentuali rispetto al 2014, ma 5,3 in meno rispetto al 2017. I liberali si sono presentati con un programma che ha cercato di differenziarsi sia dalla SPD che dalla CDU, con un europeismo inteso come irrinunciabile per mantenere competitiva la performance economica europea nel mercato globale. Al tempo stesso, la FDP si è sostanzialmente fatta sponsor di un’evoluzione accelerata verso un’Europa a più velocità, dove l’Unione non venga eccessivamente rallentata dalle economie più in difficoltà. I 5 seggi conquistati della FDP andranno adesso in dote al dove spicca La République en Marche! di Macron. Un’alleanza che, data la particolare esperienza dell’ALDE nelle istituzioni UE, sarà sicuramente cruciale negli equilibri a venire. Un’alleanza che, anche in questo caso, non sarà però priva di contraddizioni e, anzi, potrà talvolta essere un’altra prova della non diretta sovrapponibilità tra i posizionamenti ideologici transnazionali e le strategie portate avanti dai vari governi nazionali. Se e quando il Presidente Macron dovesse ad esempio chiedere più flessibilità per i bilanci pubblici degli stati membri, c’è la possibilità che trovi più sostegno presso il sovranismo italiano che presso i liberali tedeschi.
Anti-europeismo e identitarismo euro-orientale
Membri del nuovo gruppo sovranista guidato dalla Lega e dal RN francese saranno gli 11 neo-eletti eurodeputati tedeschi di Alternative für Deutschland. La destra identitaria ha avuto una battuta d’arresto su scala nazionale (11% dei voti a queste europee, +3,9 punti rispetto al 2014, ma meno dell’exploit nazionale del 2017). In una Germania in cui la questione europeista e quella climatica sono state sentite con tale intensità, AfD non ha raccolto molto consenso con la sua ipotesi di una “Dexit” e con discorsi poco convincenti sulla natura non umana dei cambiamenti climatici. Ciononostante, in queste elezioni europee il partito è riuscito comunque a rafforzarsi e radicarsi ancora di più nelle regioni della ex DDR, diventando prima forza in Brandeburgo e Sassonia e seconda in Turingia, Sassonia Anhalt e Meclemburgo-Pomerania Anteriore. Contando che in autunno si voterà proprio nei primi tre di questi cinque Länder, è difficile sostenere che per AfD sia iniziato un declino politico.
La destra identitaria sembra piuttosto avviata ad affermarsi come forza regionalista della Germania orientale, con tutto quello che ne consegue in quanto alle sponde geopolitiche che potrà trovare nei paesi del gruppo Visegrád. Resta al contempo da vedere se AfD vorrà adeguarsi nel Parlamento europeo alla linea di un gruppo sovranista a dominanza italo-francese, ad esempio sui temi economico-finanziari. Così come resta da capire come i populisti tedeschi si muoveranno in merito a un altro aspetto molto divisivo all’interno dell’ipotetico blocco sovranista: i rapporti con Mosca.