La Georgia alla ricerca di un’identità contesa

Nell’ultimo giorno del suo mandato, il 29 dicembre, l’ex presidente georgiana Salomé Zourabichvili ha tenuto l’intero Paese con il fiato sospeso. «Vedrete, non se ne andrà» diceva qualche manifestante fuori da Palazzo Orbeliani, la residenza al centro di Tbilisi che Zourabichvili ha scelto al posto dell’imponente Palazzo delle Cerimonie, casa dei suoi quattro predecessori dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica in poi. «Deve andarsene, altrimenti l’arresteranno, o magari la faranno sparire dalla scena politica, senza di lei l’opposizione sarebbe molto più debole» spiegava qualcun altro. A poche centinaia di metri, nel palazzo del Parlamento, giurava il nuovo presidente della Repubblica, l’ex calciatore Mikheil Kavelashvili.

Fuori da entrambi gli edifici migliaia di persone con le bandiere dell’Unione Europea e della Georgia sulle spalle, fischietti, palloncini e striscioni in quello che è stato il 32° giorno di proteste ininterrotte nel Paese caucasico. Oltre un mese di mobilitazioni iniziate il 28 novembre, quando il primo ministro Irakli Kobakhidze ha dichiarato di voler “sospendere il processo di adesione all’UE fino alla fine del 2028” – influenzando così direttamente il percorso di candidatura ufficiale.

Manifestanti davanti al Parlamento della Georgia con bandiere nazionali, della UE e dell’Ucraina

 

Un Paese diviso e il peso di Mosca

Poco dopo l’annuncio pubblico di Kobakhidze una folla indignata si è riversata su Viale Rustaveli, la grande arteria centrale di Tbilisi sulla quale si trovano i grandi hotel, l’opera e il parlamento. L’accusa per il partito di governo, Sogno georgiano, era di «tradimento della costituzione», la quale indica chiaramente come priorità della politica estera di Tbilisi l’ingresso nell’UE. «Vogliono allontanarci dall’Occidente per riportarci sotto l’influenza russa!» gracchiavano i megafoni nelle strade. Contemporaneamente accadeva la stessa cosa anche a Kutaisi, a Batumi e nelle altre cittadine di uno stato che conta meno di 4 milioni di abitanti. Da quella prima sera, che secondo alcuni dati non confermabili ha fatto registrare oltre 100mila partecipanti alle proteste, la vita in Georgia non è stata più la stessa.

Per migliaia di persone è iniziata una febbrile mobilitazione politica. Di giorno a lavoro o all’università, di notte davanti al parlamento. Ogni notte, spesso fino all’alba del giorno dopo. Studenti di ogni classe, dalle medie in poi, professionisti, medici, giornalisti, dipendenti pubblici, operai e tantissimi pensionati. Tutti uniti dallo spauracchio della dominazione sovietica, della guerra con la Russia del 2008 e dalla critica al partito Sogno Georgiano e al suo fondatore Bidzina Ivanishvili.

 

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Molto più dell’attuale premier o del neo-eletto presidente, il bersaglio delle critiche dei manifestanti e dell’opposizione parlamentare (uniti nella lotta ma non accomunabili, come approfondiremo più avanti) è lui. Con un patrimonio stimato intorno ai 7 miliardi e mezzo di dollari, pari a un quarto dell’intero PIL nazionale, è l’uomo più ricco della Georgia. Si dice sia un amico personale di Vladimir Putin e in ogni caso ha dei legami fortissimi con il mondo russo, all’interno del quale ha costruito la sua fortuna miliardaria. Apprezza talmente tanto quel sistema, dicono i suoi detrattori, da voler instaurare in Georgia un sistema politico simile a quello del Cremlino. Nell’aprile del 2012 ha fondato Sogno Georgiano e si è candidato alle elezioni parlamentari, riuscendo a diventare premier sei mesi dopo. Terminata l’esperienza di governo ha dichiarato di volersi ritirare dalla politica, anche se i georgiani lo vedono come il vero deus ex machina della destra conservatrice.

Se l’opposizione accusa Sogno georgiano di essere filo-russo è anche perché tra le ultime leggi approvate dall’esecutivo, due ricalcano quasi specularmente quelle introdotte da Putin negli scorsi anni in Russia. La prima, la cosiddetta «legge sugli agenti stranieri», che dall’opposizione hanno ribattezzato «legge russa», impedisce alle organizzazioni che ottengono fondi dall’estero di operare nel Paese; l’altra, è la legge contro «la propaganda Lgbtq+», che vieta i matrimoni tra persone dello stesso sesso, il trattamento ormonale di affermazione del genere e l’esposizione in pubblico (in particolare nelle scuole e sui media) di comportamenti e idee assimilabili a quella che il governo definisce «ideologia Lgbtq+». Nei mesi scorsi queste due leggi erano già state motivo di mobilitazione per la società civile georgiana e a metà aprile si erano tenute manifestazioni per diversi giorni.

Ma se nella capitale e nelle città più grandi la spinta verso l’UE si può considerare trasversale – la maggior parte dei sondaggi concorda sul fatto che oltre i 2/3 dei georgiani dei tre principali centri urbani sono per un percorso che guardi a Occidente – nelle campagne la situazione è diversa. La Georgia è un Paese essenzialmente rurale, fatto di villaggi sperduti sulle montagne e piccoli centri sul Mar Nero, i collegamenti sono difficili a causa dei monti che dominano il territorio caucasico. Nelle zone di campagna la svolta di Sogno Georgiano verso posizioni via via più conservatrici non è stata giudicata così negativamente come nelle città. Del resto i dirigenti del partito hanno saputo blandire adeguatamente la base votante con provvedimenti ad hoc che hanno introdotto sgravi e aumenti per pensionati e dipendenti pubblici. La compagine di Ivanishvili ha anche promesso la normalizzazione dei rapporti con le due repubbliche separatiste dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud, attualmente controllate dalle truppe russe.

Alla campagna elettorale che ha portato al voto del 26 ottobre si sono presentati non solo due schieramenti, ma due visioni del futuro della Georgia. Da un lato Sogno Georgiano ha tappezzato le strade del Paese con manifesti raffiguranti i palazzi distrutti in Ucraina e la scritta «volete che succeda anche qui?». Dall’altro l’ex-presidente Zourabichvili, diventata per mancanza di figure alla sua altezza la pasionaria del movimento filo-europeista, ha riunito i quattro principali gruppi d’opposizione nell’alleanza della «Carta per la Georgia». Ogni membro della coalizione si è impegnato a non allearsi in nessun caso con il partito di Ivanishvili e, in caso di maggioranze insicure, a formare un governo tecnico, per porre uno «sbarramento alla deriva filo-russa». Tuttavia, all’interno della CpG figuravano anime molto diverse: il Movimento nazionale unito dell’ex presidente Mikheil Saakashivili (in carcere dal 2021), la Coalizione per il Cambiamento – composta da fuorusciti del Mnu, i liberal-democratici di “Georgia forte” e il partito centrista “Per la Georgia”.

 

La nuova maggioranza filo-russa e le proteste

Nonostante i sondaggi, dalle urne è uscita una maggioranza schiacciante per Sogno Georgiano che ha ottenuto 89 seggi su 150 grazie al 53,9% delle preferenze. Ivanishvili stesso è tornato in parlamento come deputato. I partiti di opposizione hanno accusato il governo di frodi durante le operazioni di voto e di aver falsificato i risultati dello spoglio. Gli osservatori internazionali dell’OSCE, inviati nel Paese per supervisionare le elezioni, hanno lasciato intendere che molto probabilmente qualche irregolarità c’è stata, ma che tuttavia non si tratterebbe di una forbice sufficiente a invalidare l’intero processo elettorale. Ciononostante, sia Zurabishvili sia gli altri leader dell’opposizione hanno dichiarato illegittimo il risultato delle elezioni e l’ex presidente si è spinta fino a dichiarare che non avrebbe lasciato il suo incarico.

Per circa un mese in Georgia si è parlato di frodi e di «elezioni rubate», ma oltre ai dibattiti sui social network e tra conoscenti la situazione è rimasta calma. Ma è bastata la conferenza stampa di Kobakhidze sul rinvio delle riforme necessarie a entrare nell’UE per far esplodere la protesta. I leader dell’opposizione hanno provato a cavalcare l’ondata di indignazione popolare, ma con scarsi risultati. La maggior parte delle voci che abbiamo raccolto nelle strade dichiarava di non sentirti rappresentata da quei politici che ricalcavano il sistema oligarchico e che, in fondo, oltre a essere filo-UE non avevano molti altri meriti.

Per Zourabichvili è diverso: la presidente è da sempre vista come una figura autorevole e rispettabile e in molti si sono appellati a lei per tentare di porre un argine istituzionale a un parlamento conservatore e isolazionista. In ogni caso nelle piazze non c’erano leader riconoscibili, nessuna figura che emergesse chiaramente dalla folla, nessuna struttura organizzativa in grado di indirizzare le proteste. Decine di migliaia di persone con bandierine e cartelli che, dopo la prima sera, hanno iniziato a portare maschere antigas (o dei succedanei che andavano fino alla semplice mascherina medica) e occhiali protettivi (spesso da nuoto) per far fronte all’uso massiccio di lacrimogeni da parte della polizia. E tanti fuochi d’artificio, che sono diventati il simbolo delle prime nottate di proteste. Sparati contro il parlamento chiuso e blindato da lastre di ferro saldate tra loro oppure contro le file dei reparti antisommossa. A ogni esplosione colorata la folla gridava «Sa-kar-tve-lo» (Georgia nella lingua locale) o rumoreggiava forte. I sit-in di fronte al parlamento o gli scontri con la polizia duravano fino all’alba, quando i mezzi corazzati irrompevano nelle piazze e spazzavano via i manifestanti con gli idranti. La situazione si è fatta talmente tesa da allarmare il partito di governo sul rischio di una «nuova Maidan».

Poi sono iniziati gli arresti e le violenze contro i manifestanti. Decine di persone sono state prese nelle proprie case il giorno dopo le manifestazioni, alcuni sono stati trascinati via letteralmente di peso, come i leader dell’opposizione. Altri, la maggior parte, sono stati arrestati durante le proteste. Tra i manifestanti si è diffusa la paura dei picchiatori filo-governativi vestiti di nero: i titushki. La parola è un’antonomasia che deriva dal lottatore ucraino Vadym Titushko, il quale nel 2013 fu arrestato per aver picchiato insieme ad altri due uomini dei giornalisti di Channel 5 durante le proteste di Piazza Maidan, a Kiev. Anche se Tituskho in seguito si è schierato dal lato dei manifestanti, fino ad arruolarsi volontario nel 2023, nel mondo ex-sovietico il termine è rimasto a indicare un picchiatore filo-governativo. Durante la manifestazione del 7 dicembre i tituskhi hanno aggredito violentemente una giornalista della Tv georgiana Pirveli, Maka Chikhladze, e il suo cameraman, Giorgi Shetsiruli. Entrambi sono stati ricoverati in ospedale con lesioni importanti. Per fortuna esiste un video del pestaggio, che ha destato grande clamore in Georgia e all’estero. Le opposizioni hanno accusato il governo di metodi squadristi, l’esecutivo ha dato la colpa a «pochi facinorosi». I pestaggi e le retate si sono moltiplicati, tanto da spingere alcuni gruppi di manifestanti ad auto-organizzare dei gruppi di difesa (mancando un’organizzazione non c’è mai stato un servizio d’ordine). Anche i rappresentanti dell’UE hanno protestato vivacemente, minacciando di stralciare gli accordi con Tbilisi e di ritirare lo status di candidato. A quel punto il governo ha scelto una tattica che poi si è rivelata vincente, almeno nella pratica. Via i reparti anti-sommossa dal parlamento e nuove leggi sulla sicurezza. Vietato l’uso dei fuochi d’artificio durante le manifestazioni, vietato coprire il volto con maschere anti-gas o passamontagna, vietato persino l’uso dei laser, che i manifestanti puntavano per tutta la notte sugli occhi degli agenti schierati ai lati del parlamento.

 

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Non è servito: le proteste sono continuate, con alcuni momenti di stanchezza e numeri minori, per poi aumentare di nuovo. Ma la data fondamentale, per tutti, era il 29 dicembre. La presidente avrebbe acceso definitivamente la possibilità di una guerra civile o, stavolta davvero, di una Maidan georgiana? Non è stato così e, si noti bene, tra le riforme che il governo di destra ha approvato in tutta fretta ce n’è anche una che rimuove la protezione giuridica per gli ex-presidenti. Dunque ora Zourabichvili potrebbe anche essere processata, ma bisogna capire quanto il governo avrà interesse a farne una martire politica.

La fine dell’anno e l’avvicinarsi del Natale ortodosso (7 gennaio) non hanno fermato le proteste e i manifestanti assicurano che continueranno a scendere in piazza finché il governo non si dimetterà e non si terranno nuove elezioni. Dal canto suo Sogno Georgiano assomiglia al parlamento: barricato dietro la polizia e chiuso nel silenzio dei palazzi blindati. Kobakhidze e il neo-eletto presidente Kavelashvili assicurano che non faranno alcun passo indietro.

La situazione, dunque, potrebbe esplodere da un momento all’altro o mantenersi allo stato attuale fino a normalizzarsi per l’esaurimento delle forze di una delle due parti (più probabilmente dei manifestanti). Ma restano varie incognite: cosa farà il governo rispetto al percorso di adesione all’UE, come si comporterà rispetto alla Russia e, soprattutto, quanto riuscirà a tenere il consenso in un Paese sempre più diviso.

 

 

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