Le questioni energetiche che si intrecciano nel Mar Baltico si sono rivelate nel 2020 crocevia di molteplici interessi, che non coinvolgono affatto solo i nove Stati rivieraschi: Danimarca, Svezia, Finlandia, Russia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Germania.
In chiave geopolitica sono due le tensioni contrapposte che animano questo quadrante. La più manifesta è il tentativo degli ex appartenenti al blocco sovietico, cioè Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania, di diminuire fino a potenzialmente annullare la propria dipendenza energetica dalla Russia. Un’iniziativa simbolo dell’esigenza di sottrarsi all’abbraccio del Cremlino è il progetto Trimarium, il piano con cui i dodici Stati UE compresi tra Mar Baltico, Mar Nero e Mar Adriatico tentano di incrementare il proprio livello di cooperazione inter-governativa. Sebbene tra gli Stati aderenti figurino anche paesi moderatamente russofili (Slovacchia, Bulgaria e Ungheria), l’ampliamento dello spettro delle fonti di approvvigionamento energetico gioverebbe a tutti gli attori coinvolti, aumentandone il capitale negoziale.
La seconda tensione, meno esplicita, è l’aspirazione della Germania a coltivare la propria liason speciale con la Russia, allo scopo di ritagliarsi vantaggi sia economici che geopolitici. L’emblema di questo secondo processo è il controverso gasdotto Nord Stream II, in fase di completamento nonostante un’ampia schiera di oppositori. Questa infrastruttura, costruita dal colosso energetico russo Gazprom e funzionale all’ambiziosa transizione energetica tedesca (Energiewende), è infatti vista come fumo negli occhi dagli Stati Uniti e dalla maggioranza dei partner europei della Germania – Francia in primis; la stessa presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, non ha mai nascosto le sue perplessità, esposte in maniera più evidente dopo l’avvelenamento dell’oppositore russo Alexej Navalny.
La Casa Bianca sostiene che il Nord Stream II non solo aumenterà la vulnerabilità degli Stati dell’Europa occidentale verso la Russia, ma, diminuendo la quantità di gas russo che transiterebbe sul territorio dell’Ucraina, andrà a ridurre anche le entrate di questo partner considerato strategico per l’Occidente dagli Stati Uniti ancor prima che dall’Unione Europea. Gli accordi che permettono il passaggio del gas russo sul territorio ucraino, rinnovati a fine 2019, garantiscono a Kiev un gettito di circa 3 miliardi di dollari l’anno.
Sulla carta, cercare di armonizzare queste due spinte opposte spetterebbe appunto alla Commissione europea. Uno dei cavalli di battaglia dell’esecutivo von der Leyen, il rivoluzionario Green deal, impone priorità e obiettivi specifici che puntano a uniformare le politiche energetiche degli Stati membri, instradandole verso un modello più sostenibile e dunque, tra l’altro, verso la massima diversificazione delle fonti.
Proprio la Polonia, che al momento ottiene dal carbone circa l’80% del proprio fabbisogno energetico, si è dimostrata uno degli Stati più scettici verso le iniziative green propugnate da Bruxelles. Il paese più popoloso tra gli Stati della porzione orientale dell’UE lamenta l’impossibilità di sobbarcarsi i costi necessari – tra i 700 e i 900 miliardi di euro, secondo stime governative – a una riforma così radicale del proprio paniere energetico, necessaria per l’obiettivo di neutralità climatica richiesto dalla Commissione per il 2050 e riduzione dei gas serra del 55% entro il 2030.
Varsavia sembra prediligere altre opzioni, sia pure all’interno dei progetti di cooperazione europea, che non implichino la ristrutturazione del proprio sistema di produzione, ma consentano l’approvvigionamento da altre fonti. A inizio mese la compagnia italiana Saipem si è aggiudicata la commessa (280 milioni di euro) per la costruzione di un gasdotto tra Faxe (Danimarca) e Niechorze (Polonia) lungo circa 275 km. Questa infrastruttura, dal costo stimato di 1.6 miliardi di euro (215 pagati dall’UE), è uno dei cinque tratti che andranno a comporre il Baltic pipeline project (BPP), un gasdotto che connetterà Polonia e Norvegia via Danimarca. Grazie al BPP i polacchi puntano ad arrivare all’autunno del 2022 in condizione di potersi permettere di non rinnovare l’accordo con Gazprom sui rifornimenti di gas.
E non solo: in ottica polacca il contesto è favorevole anche per incrementare la propria influenza nell’Europa post-comunista. Poiché la capacità del BPP a pieno regime – circa 10 miliardi di metri cubi all’anno – sarà ben superiore al fabbisogno nazionale, pare evidente come la Polonia miri a trasformarsi in un hub energetico regionale. Dal gasdotto baltico attingeranno infatti anche altri partner dell’Europa centrale e orientale, tra cui l’Ucraina. Aiutare questi paesi a smarcarsi dall’abbraccio dell’ex dominatore russo è un tassello centrale della strategia polacca, come emerso chiaramente negli ultimi anni.
Polonia e Lituania si sono attivate fin dal 2015 per importare gas naturale liquefatto (gnl), soprattutto dagli USA, allestendo siti di stoccaggio in patria, sebbene al momento l’apporto garantito da questo combustibile sia ancora troppo basso per poter realisticamente minare la primazia di Mosca. Nello stesso spirito, tre anni più tardi Vilnius, Riga, Tallinn e Varsavia hanno aderito a una roadmap delineata da Bruxelles per sincronizzare i tre Stati baltici alla rete energetica UE tramite l’aggancio a quella polacca. Le tre repubbliche post-sovietiche anelano infatti a divincolarsi dalla Brell, l’unione energetica con Bielorussia e Russia in cui erano entrate obtorto collo durante l’epoca comunista, tuttora operativa.
Davanti a queste manovre il Cremlino non è restato passivo. Pochi giorni dopo la concessione dell’appalto a Saipem il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha confermato che il Nord Stream II si farà. Già a gennaio Angela Merkel e Vladimir Putin avevano rilasciato una dichiarazione congiunta per reiterare l’intenzione di procedere con la costruzione del tanto contestato gasdotto, prevedendone l’inaugurazione per inizio 2021. Ad oggi per il completamento manca soltanto un tratto di 160 km, poco più di un decimo della lunghezza complessiva.
Tuttavia, a fine 2019 gli Stati Uniti hanno approvato delle sanzioni per punire chiunque aiuti russi e tedeschi a terminare l’opera, spingendo l’azienda costruttrice – la svizzera Aliseas – a interrompere subito le operazioni. L’inaugurazione avverrà in ritardo sulla data prevista, ma Angela Merkel nonostante le crescenti pressioni contrarie ha confermato l’impegno tedesco nella realizzazione dell’opera. D’altronde, una mozione parlamentare dei Verdi in favore del blocco dell’opera è rimasta senza alcun appoggio al Bundestag in settembre.
Ad esempio, a maggio era arrivata una sentenza dell’Autorità per l’energia tedesca, che ha negato ai gestori del Nord Stream II l’esenzione dalle direttive UE. Le norme comunitarie impediscono agli operatori di gestire allo stesso tempo produzione, trasporto e distribuzione dell’energia. Il consorzio che sta finanziando il gasdotto russo-tedesco, cui partecipano anche soggetti europei come Uniper, Wintershall-Dea, Royal Dutch Shell, Omv ed Engie, sarà quindi costretto ad attivarsi per coinvolgere altri attori per non infrangere le normative comunitarie. Pochi giorni dopo una sentenza del Tribunale dell’Unione europea ha sostanzialmente convalidato la decisione della corte tedesca, ribadendo come l’applicazione delle norme UE in materia di energia sia in capo agli Stati membri.
Comunque, sempre a maggio aveva attraccato al porto di Kaliningrad, l’exclave russa affacciata sul Baltico, una nave russa dotata delle strumentazioni tecniche per completare il gasdotto. Una mossa azzardata, che potrebbe significare la disponibilità di Mosca a forzare la mano sopperendo in proprio al ritiro di Aliseas dovuto alle sanzioni americane.
Se fino a qualche anno fa la dipendenza dall’energia russa era un problema che tormentava quasi esclusivamente gli ex membri del Patto di Varsavia, dopo l’annessione della Crimea e l’intervento in Donbass da parte della Russia (2014), diversificare le proprie fonti di approvvigionamento energetico è diventato un imperativo sempre più cruciale per l’intera UE. Con un tempismo probabilmente non casuale, meno di due mesi dopo l’intervento di Mosca nella penisola ucraina, la Commissione europea pubblicava la European Energy Security Strategy, il documento quadro per lo sviluppo delle politiche energetiche comunitarie.
Sei anni più tardi, l’UE si ritrova comunque ancora vincolata al volubile partner orientale. I dati della Commissione europea restituiscono un quadro impietoso: nel 2018 il blocco comunitario ha importato dalla Russia il 29,8% del proprio greggio, il 42,3% dei propri combustibili solidi (principalmente carbone) e il 40,1% del proprio gas naturale. In tale contesto , nel 2019 quattro Stati membri (Estonia, Lituania, Slovacchia e Finlandia) hanno importato più del 75% del loro petrolio e dieci (Bulgaria, Cechia, Estonia, Lettonia, Ungheria, Austria, Romania, Slovenia, Slovacchia e Finlandia) più del 75% del loro gas naturale dalla Russia. In termini più generali, la media del tasso di dipendenza energetica – la quota di energia che un dato paese è obbligato globalmente a importare dall’estero – dei paesi Ue non solo è ancora molto alta (58%), ma è anche in crescita rispetto al 2000 (56%), nonostante gli sforzi compiuti in questo periodo.
Le mosse identificate per diminuire la centralità delle forniture russe sono state dettate dalla geografia: Bruxelles si è rivolta al Mediterraneo. Ad oggi ci sono quattro gasdotti nel Mediterraneo meridionale, due (il Green Stream e il Trans-Med) che raggiungono l’Italia e due (il Medgaz e il gasdotto Maghreb-Europe) che raggiungono la Spagna. Altri quattro sono in costruzione, di cui due coinvolgeranno anche il quadrante baltico: l’NSI West Gas (Europa occidentale), l’NSI East Gas (tra Mar Baltico, Adriatico, Egeo, Mediterraneo orientale e Mar Nero), il Southern Gas Corridor (finalizzato a connettere Mar Caspio, Asia centrale, Medio oriente e Mediterraneo orientale all’UE) e il BEMIP Gas (per connettere i tre Stati baltici e la Finlandia con la rete gas dell’UE).
Queste iniziative vanno nella giusta direzione, ma a breve e medio termine la dipendenza dalla Russia, e il ruolo-chiave del Baltico, restano un problema spinoso.