Se per svariate tornate le elezioni parlamentari francesi erano finite ben al di sotto dei radar dell’interesse non solo europeo, ma anche nazionale, lo si doveva ai loro risultati – fortemente influenzati/condizionati dal sistema elettorale. Unificato il calendario elettorale legislativo con quello presidenziale, il voto per l’Assemblea Nazionale in Francia si era ridotto a una semplice ratifica di quello per il Capo dello Stato, previsto di regola qualche settimana prima. Nel 2017 alla vittoria di Emmanuel Macron era seguita quella schiacciante della sua “maggioranza presidenziale”, che col 49% dei voti si assicurava 350 seggi su 577. Comodi margini per controllare il parlamento li avevano avuti anche Jacques Chirac e Nicolas Sarkozy nel 2002 e nel 2007, mentre a François Hollande – che le presidenziali le aveva vinte di un soffio nel 2012 – bastava una facile alleanza col gruppo dei Verdi.
Limitandosi a un’osservazione superficiale, anche la riconferma presidenziale di Macron questa primavera (58,5% contro Marine Le Pen al ballottaggio del 24 aprile) avrebbe dunque dovuto fare da preludio a una nuova larga maggioranza di obbedienza macroniana in parlamento. Così appunto pensava l’entourage del rieletto. E invece, le elezioni del 12-19 giugno hanno restituito il quadro sorprendente di una Francia politicamente multicolore e pluralista: un quadro che il sistema di voto presidenziale, con la sua iper-semplificazione uno-contro-uno, ha finito per nascondere se non cancellare in questi ultimi anni. Eppure, come si vede oggi, gli orientamenti della società francese sono tutt’altro che binari.
Prima sorpresa del voto: le candidature macroniane raggruppate sotto l’etichetta Ensemble!, guidate dal presidente uscente dell’Assemblea Richard Ferrand, hanno ottenuto 246 seggi: 43 in meno della soglia di maggioranza, 289. I loro 8 milioni di voti sono stati il 38% dei suffragi espressi, cioè l’11% in meno rispetto a cinque anni fa. I seggi persi, oltre cento. E tra questi, anche quelli pesanti di Ferrand, che si presentava nel Finisterre bretone, e del capogruppo Christophe Castaner, nelle Alpi provenzali: due colonne della “macronìa” parlamentare, sconfitti in collegi considerati blindati.
Seconda sorpresa: benché da almeno un decennio si dia per morta e sepolta la sinistra francese, il secondo gruppo parlamentare per grandezza, con 142 seggi, sarà la Nupes (Nuova Unione Popolare Ecologica e Sociale), il contenitore guidato dal leader de La France Insoumise (LFI) Jean-Luc Mélenchon. Già alle presidenziali, il candidato della sinistra radicale era arrivato a un soffio dal ballottaggio, fermandosi però al 22% contro il 23,2% di Marine Le Pen al primo turno: un capitale politico importante, ma fino ad oggi inutilizzabile. In più, i voti della sinistra si erano dispersi anche su altri candidati che avevano rifiutato di sostenere una candidatura unitaria: l’ecologista Yadot, la socialista Hidalgo, e vari nomi della galassia comunista. Le loro preferenze, sommate, avrebbero permesso a Mélenchon di andare al ballottaggio.
Almeno stavolta però, ed è la terza sorpresa, la sinistra francese non ha ripetuto il suo ormai classico errore, che le è costato in passato sconfitte epocali: nella Nupes sono confluiti insieme a LFI il partito socialista, quello comunista e quello verde: quattro componenti che praticamente mai si erano presentate unite. Ed è proprio per questo che, una buona volta, l’orientamento di sinistra presente in una parte della società è riuscito a tradursi in successo elettorale tangibile. Già al primo turno del 12 giugno, i voti della Nupes superavano di un soffio quelli dei candidati macroniani (26,1% contro 25,8); ed è stato proprio contro due candidati Nupes che Ferrand e Castaner hanno perso.
Risultato davvero scioccante, per la maggioranza presidenziale: tanto più che Macron, come per ridurre a zero l’importanza del consenso parlamentare, come per dire che l’alleanza della sinistra che puntava espressamente alla maggioranza non gli dava il minimo pensiero, aveva già nominato nelle scorse settimane un nuovo governo, presieduto dalla fedelissima Elisabeth Borne. La ex ministra dei Trasporti, poi dell’Ecologia, poi anche del Lavoro negli ultimi governi dovrà invece sudarsi il consenso di un’Assemblea che potrebbe scegliere proprio lei per dare il suo primo segnale di vita indipendente. Persi i luogotenenti Ferrand e Castaner, Macron rischia per di più di cadere nelle insidie disseminate dagli alleati interni, certo interessati a coltivare la propria particolare influenza sull’azione parlamentare, come Edouard Philippe e François Bayrou.
Sarà difficile che la Nupes tenda una mano o anche solo un dito. Ma in aiuto di Macron e della sua piccola maggioranza relativa, la più piccola dai tempi di Charles de Gaulle, potrebbero essere chiamati i 63 deputati eletti sotto le bandiere dei Repubblicani, la formazione di destra erede dell’UMP di Chirac e Sarkozy, oggi guidata dal “reggente” Christian Jacob dopo lo schianto (4,3%) di Valérie Pécresse alle presidenziali. I Repubblicani hanno resistito come hanno potuto, come partito indipendente, ai tempi d’oro in cui la “macronìa” prosciugava le altre formazioni, attirandone quadri e dirigenti.
Tuttavia i Repubblicani sono stati un punto di riferimento fondamentale per Macron durante gli ultimi due anni di governo, quelli guidati da Jean Castex (che sotto Sarkozy ricoprì la carica di Segretario generale della Repubblica), in cui vari uomini politici cresciuti sotto le bandiere dell’UMP hanno guidato le scelte della politica francese, come il ministro dell’Economia Bruno Le Maire, già importante nei governi di François Fillon, e il ministro dell’Interno Gérald Darmanin, che di Sarkozy fu persino direttore di campagna elettorale. Jacob ha sì escluso ogni intesa, ma degli accordi potrebbero sempre trovarsi caso per caso, o a livello individuale. Ricordiamo che secondo la Costituzione francese del 1958 il governo nominato dal Presidente non ha bisogno della fiducia dell’Assemblea – anche se questa può presentare una mozione di sfiducia – dunque può cominciare la sua attività anche senza maggioranza.
Ma le grandi novità all’Assemblea Nazionale non finiscono qui. Quarta sorpresa: per la prima volta anche il Rassemblement National – il partito di Marine Le Pen – avrà una nutrita rappresentanza: 89 deputati. Benché il partito della Le Pen fosse spesso il più votato in varie tornate elettorali, le alleanze trasversali che gli altri partiti componevano contro i suoi candidati (chiamate “fronte repubblicano”) avevano impedito a quello che era il Front National di avere una pur minima presenza in parlamento: gli otto seggi della scorsa legislatura erano stati un record. Almeno da quando, nel 1986, François Mitterrand non aveva fatto eleggere i deputati dell’Assemblea Nazionale con il sistema proporzionale. Risultato: 32 seggi per il Front. Esperimento mai più ripetuto: il maggioritario a doppio turno offriva garanzie molto maggiori per le forze egemoni di allora, la destra gaullista e la sinistra socialista.
Gli 89 voti nella legislatura frammentata che parte nel 2022 sono preziosi: un asso nella manica che l’estrema destra francese non aveva mai avuto, e che testimonia ulteriormente del suo radicamento ormai completo in molte regioni del Paese dove, fuori dalle grandi città, s’impone regolarmente sulla sinistra nel duello per il voto popolare. Non è un caso che Marine Le Pen abbia ritrovato vitalità, dopo il secondo ballottaggio consecutivo perso contro Macron (2017 e 2022) – “perde sempre”, aveva sintetizzato perfidamente il suo alleato-rivale Eric Zemmour – e abbia annunciato che lascerà la guida del partito per la presidenza del gruppo parlamentare. Una tribuna dal valore insostituibile. Per la cronaca Zemmour nemmeno siederà nel nuovo parlamento francese, rimasto fuori dal ballottaggio nel collegio della zona di Saint-Tropez dove si era presentato.
La Francia dunque non è più l’eccezione tra i grandi Paesi del continente, in cui si registra da tempo una rinnovata importanza della centralità degli accordi parlamentari nella definizione delle scelte di governo, anche come conseguenza del cambiamento e della frammentazione dei sistemi politici. Il fenomeno è ben visibile in Spagna con la coalizione dei partiti di sinistra e autonomisti, in Italia nelle varie articolazioni dell’ultima legislatura, nelle già abituate Germania e Olanda, e persino in Regno Unito dove i grandi partiti hanno dovuto dialogare con formazioni più piccole per gestire i delicati snodi della situazione britannica.
E’ uno scenario non previsto da Macron e i suoi, abituati a contrapporre alle evidenze di una Francia complessa e multiforme il peso numerico delle proprie vittorie elettorali, e abituati a governare potendosi permettere di ignorare tutto il resto delle forze politiche: avere un parlamento senza la maggioranza assoluta di un solo partito “è violento, è dantesco, è rischioso per la democrazia”, hanno commentato vari esponenti del gruppo del presidente – paradossalmente chiamato Insieme! – pur descrivendo la realtà quotidiana di fior di democrazie. Forse sconcertati anche perché il risultato delle presidenziali di aprile, con la sinistra divisa, il tracollo dei socialisti e dei repubblicani, e l’ennesima vittoria su Marine Le Pen, li aveva illusi di godere di un consenso diffuso. Così non è stato; per inciso, alle legislative ha votato solo il 47% dei francesi, e sono stati eletti anche 13 deputati indipendenti di sinistra, 9 di destra e una mezza dozzina di regionalisti, di cui tre nei quattro collegi della Corsica.
C’è tempo però per una quinta sorpresa: Emmanuel Macron ha rinnegato l’idea del “fronte repubblicano”, suo punto di riferimento esibito senza risparmio fino al recentissimo passato, diciamo fino alle elezioni presidenziali in cui doveva battere Marine Le Pen. Stavolta, il Presidente che dichiarò “la mia stessa ragion d’essere è fermare l’estrema destra”, ha detto che in caso di ballottaggio tra un candidato lepenista del Rassemblement National e un socialista, verde o comunista della Nupes – ballottaggio previsto in una sessantina di collegi – era meglio l’astensione. “Nessuno dei due schieramenti è degno di far parte della Repubblica”: non sono che estremisti, ha fatto sapere il Presidente, seguito fedelmente dai suoi: l’effetto è stato quello di contribuire al risultato storico dell’estrema destra. Macron vuole conservare per sé e nessun altro la bandiera della legittimità politica.
Un problema di prospettive politiche si apre anche ai gruppi di opposizione. L’alleanza di sinistra, se può essere soddisfatta del suo risultato, deve fare i conti con l’incompatibilità totale con gli altri gruppi presenti in parlamento: quello fedele a Macron, quello dei Repubblicani, quello di Marine Le Pen. I suoi 142 seggi non bastano di certo a proporsi come alternativa di governo – com’era stato ventilato prima del voto – e rischiano di ritrovarsi isolati nell’Assemblea; per di più, Mélenchon avrà un bel daffare già solo per impedire che il suo gruppo si scinda in Assemblea nelle sue quattro componenti. Per quanto si possa sorvegliarne il contenitore, il fenomeno dell’unità della sinistra francese si riproduce solo in circostanze miracolose. Dei 142 eletti, solo circa la metà appartengono a La France Insoumise: se si separassero, sarebbe il Rassemblement National a diventare il gruppo di opposizione più consistente, e la legge gli garantirebbe numerosi benefici, come la presidenza delle Commissioni più importanti e la capacità di influenzare il calendario dei lavori.
Gli 89 deputati dell’estrema destra hanno lo stesso problema dei colleghi di sinistra: tanti, ma oltre che come tribuna dei leader, utili a cosa? Il partito del Presidente insomma ha perso, ma le sue opposizioni non possono allearsi fra loro: i loro programmi sono lontani anni luce, i loro militanti si sono formati in contestazione gli uni degli altri, i rispettivi leader hanno sempre escluso anche il pur minimo sostegno reciproco.
Allo stesso tempo, l’impossibilità di dialogo tra le opposizioni non è per forza un vantaggio per il partito che, dal centro, controlla il governo – e non solo perché la Repubblica di Weimar aveva un quadro politico molto simile: gli elettori francesi continuano a esprimere una chiara volontà di rinnovamento, a cui si dovrà offrire una risposta. Il Presidente ha la facoltà costituzionale di sciogliere il parlamento e indire nuove elezioni. Ma le vincerebbe?
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