Così Stendhal: “Je dois dire comme Français, que ce n’est pas un petit nombre de fortunes colossales qui fait la richesse d’un pays, mais la multiplicité des fortunes médiocres”. Henri Beyle sapeva d’altronde come Napoleone fosse riuscito nel 1812 ad insediarsi al Cremlino, addirittura negli alloggi dello Zar, per poi affacciarsi su Mosca e constatare una severa verità: aver perso la guerra.
Per carità, nessun paragone con la situazione odierna! Ma Stendhal ci invita prudentemente a distinguere tra la grandezza effettiva di un paese e la sua grandezza psicologica. A nostra volta noi dovremmo diffidare, a qualsiasi latitudine, di categorie vanesie e immateriali come grandezza, vittoria, gloria. La Francia è infatti una civilizzazione secolare di straordinarie riuscite (autoctone e meticce) alla quale, non diversamente da altre civilizzazioni, tocca avere un governo. Ora ci troviamo nell’era della Quinta Repubblica, iniziata nel 1958 col ritorno di Charles De Gaulle al potere.
Emmanuel Macron ha cercato di prendere alla lettera un motto del XVII secolo “Il vaut mieux reverdir que d’être toujours vert” (Mme de Sévigné) avendo ereditato il Paese dal pallido quinquennio di François Hollande, dove l’unico brivido fu un pied-à-terre furtivo, peraltro questione di vita privata, e quindi pace.
Il primissimo Macron (2017) era un europeista senza Europa, e un atlantista senza NATO. Festeggiò quindi appena eletto presidente sulle note di Beethoven con l’Inno alla Gioia invece che sulle note di Fauré. Scelta tattica per superare definitivamente la linea Maginot e mettere a braccetto, come si diceva una volta, la locomotiva d’Europa con la sua Grande Dame.
Sulla NATO fu celebre la stigmatizzazione del 2019: “è in stato di morte cerebrale”. Tre anni dopo, la crisi Ucraina sembra aver cementato l’Organizzazione, sembra; ma siccome due cose possono essere vere allo stesso tempo la NATO è oggi certamente più coesa così come la Russia sembra vicina al suo obiettivo strategico di medio termine, e cioè rendere Kiev un fattore geopolitico inerte.
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Due Macron sembrano convivere: quello che vorrebbe boots on the ground e la tregua olimpica allo stesso tempo. Contraddizione? No, è la complessa gestione di un’eredità di famiglia, cioè la Francia repubblicana più i territori d’oltre mare. Possedimenti marginali, anticaglie coloniali? Per nulla.
Fosforescente è l’attuale crisi in Nuova Caledonia. Per la stampa francese l’arcipelago del Pacifico ha meritato e merita le prime pagine dei principali quotidiani. Come in un racconto di Hugo Pratt, emerge dietro le quinte il ruolo, nientemeno, dell’Azerbaijan nella parte dell’agente perturbatore. E forse vendicatore, se l’origine del sostegno di Baku agli indipendentisti canachi è una risposta al sostegno di Parigi all’Armenia nel conflitto del Nagorno-Karabahk.
L’algoritmo si tiene, tra allusioni e dinieghi delle due cancellerie, ma soprattutto ci riguarda perché, seppur regione ultraperiferica (RUP), la Nuova Caledonia è a pieno titolo Unione Europea.
Parigi vista da Parigi (e non è poco) mette insomma sullo stesso piano i dossier europei con quelli della lontana Oceania, perché l’idea che la Francia ha di sé resta assai compiaciuta e giustamente globale. D’altronde parliamo dell’unica potenza nucleare europea.
Alto e basso, sembrano coesistere. Come vecchio e nuovo: il Paese di Voltaire e di Madame de Staël ha visto pochi anni fa (2018) al principio dunque del mandato di Macron all’Eliseo, esplodere un movimento di protesta come i gilets jaunes, scaturito dall’aumento del prezzo della benzina. Di cosa si è trattato? Una triste mésalliance, una caduta di stile dal salotto nobile delle idee illuminate alle torve rivendicazioni di tasca? O forse la conferma delle parole di Stendhal sulla consistenza (piccolo borghese) delle fortune mediocri che la Francia profonda ben conosce e non vuol vedere erose?
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Siamo in terreno di doppie verità: la doxa, cioè l’insieme di quelle credenze del popolo non sempre sorvegliate, un po’ semplificatorie, ma in fondo di ragionevolissimo senso comune, sembrano far presa su una presidenza in costante ricerca di visibilità e minacciata da storici populismi del quadro interno (come il lepenismo ereditario). Ecco forse spiegate le foto pugilistiche di Macron, che avrebbero ispirato pagine e pagine di semiotica a Roland Barthes. Oggi ispirano tutt’al più meme, ma d’altronde è il livello dei tempi.
Tempi termidoriani, anche, se è vero che Marcon da centrista d’esordio, è apparso o ha voluto apparire via via l’uomo forte del Vecchio Continente. Di certo è il più consapevole di una fragilità europea, a prezzo di un lieve, e forse inevitabile, décalage conservatore.
Tutto plausibile sino ai recentissimi sviluppi elettorali e la chiamata per un Blocco Repubblicano contro le destre incombenti, in altre parole l’appello alla sinistra per fermare Marine Le Pen al secondo turno. La mossa introduce un nuovo scenario, tutto sommato inedito per la psicologia di Macron, quello cioè del compromesso. Se l’operazione dovesse risultare vincente, cioè riuscendo a relegare nuovamente il Rassemblement National all’opposizione evitando così una assai scomoda cohabitation, il macronismo subirà una svolta identitaria.
Egli ha candidato, nell’Europa del dopo Angela Merkel, la Francia alla leadership continentale: lo ha fatto sia attraverso dichiarazioni a mezzo stampa assai audaci, sia in severi summit bilaterali col partner tedesco. Due registri dunque: la doxa e un Termidoro moderato (con ossimorica ma ormai obbligata sponda a sinistra). L’intento è forse corretto, la messa in atto un po’ abborracciata ma soprattutto l’esito è tutto da verificare.