Nel frastuono della guerra, lo scioglimento definitivo dell’associazione Memorial (Мемориал) il 28 febbraio 2022 – dopo il rigetto del suo ricorso alla Corte suprema della Federazione Russa – è passato del tutto inosservato. Siamo lontani dalla mobilitazione dei media occidentali di due mesi prima, quando la Corte suprema si era pronunciata per la soppressione della storica associazione per la difesa dei diritti umani. Il motivo è inequivocabilmente chiaro: la guerra scatenata il 24 febbraio 2022 dalla Russia contro l’Ucraina ha fatto entrare l’Europa in una nuova era, con nuove priorità e nuove emergenze.
La Russia, paese aggressore, è stata messa giustamente al bando dalle nazioni. Ma non dobbiamo dimenticare che in questo paese un pugno di cittadini coraggiosi continua la resistenza contro il regime di Vladimir Putin e contro la guerra.
Riuniti davanti alla Corte suprema, il 28 febbraio, attivisti e simpatizzanti dell’associazione Memorial (fondata a Mosca nel 1989 con la leadership di Andrey Sacharov) hanno indossato tutti una maschera nera sulla quale il segno identificativo della ong, my (Noi) era stato sostituito da mir (pace). Oggi, la lotta prioritaria di tutti i Memorialtsy e dei loro simpatizzanti è quella per l’immediata cessazione dell’aggressione russa contro l’Ucraina. Un’aggressione “teorizzata” e “giustificata” da Vladimir Putin con il pretesto che l’Ucraina “fascista” sarebbe stata sul punto di perpetrare un presunto “genocidio” dei russi nel Donbass e che fosse giunto il momento di “denazificare” questo paese.
È una mostruosa falsificazione della storia, che conferisce, a posteriori, pieno senso alla lotta condotta, per più di trent’anni, da Memorial.
LA STORIA È NEMICA DEL REGIME. L’uso politico della storia non ha mai raggiunto, in Russia, un livello così oltraggioso come quello di oggi. L’obiettivo è costruire una narrativa nazionale che non ammette contestazioni e servire gli interessi geopolitici di un regime dittatoriale, fino a giustificare l’impensabile: l’aggressione dell’Ucraina.
Memorial è stata sciolta proprio perché ha sempre operato per promuovere un approccio scientifico alla storia, a sostegno di una ricerca sul passato che permetta di affrontare le pagine più oscure della storia nazionale, e perché si è opposta fermamente, dal 2014, all’aperta annessione della Crimea e a quella, più camuffata, di una parte del Donbass.
Una delle caratteristiche più significative dell’azione di Memorial è stata quella di combinare lo studio del passato sovietico, nel suo aspetto traumatico di un “passato che non passa”, con la salvaguardia della memoria delle repressioni di massa e la difesa dei diritti umani nel tempo presente.
Non si può costruire una società democratica basata sul rispetto dei diritti umani senza conoscere, comprendere e ricordare il passato. Un passato che non può limitarsi all’esaltazione patriottica di alcuni “episodi gloriosi” della storia sovietica, al primo posto dei quali c’è la “Grande guerra patriottica del 1941-1945” ampiamente “rivista e corretta”.
Questo è stato il credo dei Memorialtsy, uomini e donne d’ogni età e provenienza che, da San Pietroburgo a Vladivostok, si sono impegnati in questa lotta per la storia e contro l’oblio, oltre che per una Russia democratica.
Qui non esamineremo l’intensa attività svolta dal comitato per i diritti umani di Memorial, ma ci concentreremo su quella di Memorial–International, incentrata sulla storia e sulla memoria.
Da trent’anni Memorial-International e le sue sessanta sezioni regionali si sono affermate come il principale centro di studio, ricerca e documentazione sulla storia e la memoria delle repressioni di massa (principalmente – ma non esclusivamente – di epoca staliniana).
Questa attività ha assunto diverse forme: pubblicazione di lavori di ricerca e raccolte di documenti; organizzazione di convegni e conferenze; creazione di banche dati sui milioni di vittime delle repressioni; raccolta di testimonianze di sopravvissuti ai campi di lavoro forzato dei gulag; erezione di centinaia di monumenti e apposizione di targhe commemorative nei luoghi delle esecuzioni (fosse comuni del Grande Terrore del 1937-1938, la maggior parte scoperte da attivisti di Memorial) o di internamento (campi e carceri); conservazione e musealizzazione di oggetti della vita quotidiana nei gulag; organizzazione di iniziative cittadine (“Il ritorno dei nomi”, per ricordare le vittime delle repressioni politiche, “Topografia del terrore”, “Ultimo indirizzo conosciuto”) e concorsi per studenti delle scuole superiori su questioni relative alla storia delle repressioni di massa.
UN RUOLO CHIAVE NELLA SOCIETÀ CIVILE RUSSA. Dall’inizio degli anni Novanta, gli storici di Memorial hanno svolto un ruolo chiave nella promulgazione delle leggi fondamentali che hanno permesso di approfondire, in modo decisivo, la nostra conoscenza del volto nascosto della storia sovietica: è il caso della legge del 18 ottobre 1991 sulla “riabilitazione delle vittime della repressione politica”, o di quella del 23 giugno 1992 sulla “declassificazione degli atti ufficiali all’origine delle repressioni di massa”.
Così facendo, hanno rivoluzionato la nostra conoscenza del Grande Terrore del 1937-1938, un episodio parossistico della violenza dello stalinismo, a lungo presentato (anche in Occidente) come una serie di “purghe politiche”, più violente delle precedenti, che avrebbero colpito principalmente le élite comuniste.
Portando alla luce gli ormai famosi “ordini operativi segreti dell’NKVD” all’origine delle “operazioni repressive di massa” del 1937-1938, hanno dimostrato che il Grande Terrore era stato, soprattutto, un’operazione su vasta scala di “purificazione sociale” per eliminare fisicamente dalla società “socialista” sovietica in costruzione tutti gli “elementi socialmente dannosi” (secondo la terminologia prevalente). In breve, si è trattato della più grande strage di Stato perpetrata in Europa in tempo di pace, con 800.000 fucilati e 1.500.000 condanne ai lavori forzati nei gulag.
Gli storici di Memorial sono stati inoltre dei pionieri nel campo della ricerca, fino ad allora inesplorata dalla storiografia ufficiale, sui campi di lavoro forzato nell’Unione Sovietica. Mi limiterò qui a citare un’unica opera capitale, a cura di Arsenii Roginskii e Nikita Okhotin, The directory of forced labour camps in the USSR, 1923-1960, pubblicata nel 1998, in cui per la prima volta venivano catalogati più di 600 campi di concentramento del sistema dei gulag. Ogni scheda informativa, conteneva dati precisi sul nome e la struttura di ciascun campo, con i suoi innumerevoli allegati, le date in cui era entrato in funzione, la sua posizione geografica, le sue attività economiche, l’evoluzione del numero dei suoi detenuti, le note biografiche dei capi del campo e l’ubicazione dei suoi archivi.
Nel periodo 2000-2010 sono seguite opere fondamentali, in particolare raccolte di documenti sulla storia dei gulag e sulle deportazioni di massa: da quelle iniziali dei kulaki (i contadini benestanti proprietari di terre) nei primi anni Trenta, a quelle successive di civili polacchi e dei paesi baltici fra il 1939-1941, fino alle deportazioni dei “popoli puniti” negli anni Quaranta. Senza trascurare, tuttavia, altri argomenti tabù della storiografia sovietica come il destino dei prigionieri di guerra sovietici e dei civili deportati in Germania durante la seconda guerra mondiale, i soprusi delle forze di occupazione sovietiche in Germania alla fine della guerra o la questione della dissidenza negli anni 1960-1980.
GLI OBIETTIVI DI MEMORIAL. Nel corso degli anni e dei numerosi convegni internazionali organizzati nel periodo 2000-2010, Memorial è diventata un luogo ideale di scambio, dibattito e informazione per tutti gli studiosi di storia sovietica. La sua sede a Mosca (di cui nessuno sa, a tutt’oggi, cosa ne sarà, ora che l’associazione è stata sciolta) ospita la più grande biblioteca della Russia sulle repressioni di massa (oltre 40.000 volumi e 500 periodici in varie lingue) nonché una collezione, unica al mondo, di archivi privati (più di 60.000 fascicoli) lasciati in eredità all’associazione dai familiari delle vittime.
Un altro grande obiettivo di Memorial è stato quello di creare un vasto database sulle vittime di repressioni politiche che comprende 3,5 milioni di persone. I suoi attivisti hanno così risposto al famoso appello della grande poetessa russa Anna Akhmatova: “Avrei voluto chiamare tutte per nome, ma hanno portato via l’elenco e non so come fare”. Grazie a questo database, centinaia di migliaia di discendenti delle vittime hanno potuto finalmente conoscere il destino dei loro parenti scomparsi.
Questa banca dati6 è integrata da una raccolta di archivi sonori composta da migliaia di testimonianze degli ultimi sopravvissuti ai campi dei gulag e dei deportati, raccolte dalla fine degli anni Ottanta in poi. Oltre che da collezioni di oggetti, abiti, disegni e dipinti realizzati da detenuti appena liberati dai campi di internamento o dall’esilio, raccolte nel museo del gulag allestito nei locali dell’associazione a Mosca. Più di trenta mostre sono state organizzate da Memorial sulla base di queste collezioni uniche.
Per avere un’idea dell’ampiezza del lavoro di ricerca e documentazione svolto da trent’anni da Memorial bisogna tener presente che ogni sede regionale dell’associazione ha il proprio database sulle vittime della repressione, le proprie pubblicazioni, il proprio archivio lasciato in eredità dai parenti delle vittime, le proprie registrazioni sonore delle testimonianze dei sopravvissuti, il proprio sito web.
Va ricordato, inoltre, che i materiali pubblicati e gli archivi sia del Moscow Memorial Center che delle sue filiali regionali sono stati in gran parte digitalizzati e dovrebbero poter essere salvaguardati a distanza.
Il terzo obiettivo principale dell’attività dell’associazione, dagli anni Novanta, è stato la “memorializzazione” delle repressioni di massa. Centinaia di monumenti, per lo più modesti, sono stati eretti dai suoi attivisti nei luoghi di detenzione e dei massacri e nei cimiteri di carcerati ed esiliati. Migliaia di targhette commemorative sono state applicate in prossimità degli “ultimi indirizzi conosciuti” degli scomparsi. Ogni anno, il 29 ottobre, vigilia della Giornata nazionale delle vittime delle repressioni politiche, i loro nomi vengono letti da chiunque lo desideri in un luogo simbolico (a Mosca, ad esempio, davanti alla Pietra Soloveckij, un monumento eretto nel 1990 nei pressi della Lubyanka, la storica sede del kgb).
Tali iniziative contrastavano profondamente con la volontà del regime di riscrivere la storia, manifestata dall’inizio degli anni Dieci del nuovo secolo, al fine di imporre una narrazione ufficiale riconciliativa: questa è stata basata su una visione glorificante della storia nazionale, il cui episodio più fulgido è la vittoria del popolo sovietico nella “Grande guerra patriottica” contro l’invasione tedesca.
GLI ATTIVISTI, COME “AGENTI STRANIERI”. Dal 2020, questo mito è entrato a far parte della nuova Costituzione russa, che recita: “La Federazione Russa, Stato successore dell’Unione Sovietica, onora la memoria dei difensori della patria, protegge la verità storica […] non consente di minimizzare l’eroismo popolare nella difesa della patria ed esalta il carattere sacro della vittoria dell’URSS nella Grande Guerra Patriottica”.
Il racconto ufficiale, a onor del vero, non cancella del tutto le pagine oscure del passato sovietico, come dimostrano l’apertura a Mosca, nel 2015, di un Museo del Gulag e l’erezione, nel 2017, del Muro del Dolore, in memoria delle vittime delle repressioni.
Ma in questo modo, lo Stato cerca soprattutto di inquadrare e controllare ogni discorso, ogni iniziativa che scaturisca da Memorial e dalla società civile su questi temi. I crimini del passato sono spersonalizzati, non vengono comunicate informazioni sull’identità dei responsabili (i termini di prescrizione degli atti riguardanti gli agenti della Sicurezza dello Stato sono stati recentemente prorogati per altri trent’anni) e nessuna indagine giudiziaria viene aperta nei confronti di questi funzionari. Anche le vittime sono spersonalizzate: nulla viene fatto per identificarle, per aiutare le famiglie a ritrovare i resti dei loro cari o per concedere riparazioni, simboliche o materiali, ai sopravvissuti.
I crimini di massa del regime sovietico appaiono improvvisamente come una sorta di “disastro naturale” di cui nessuno – e soprattutto non lo Stato – è responsabile. Il motivo è che siccome che questi crimini sono stati commessi o approvati dai massimi dirigenti del paese, riconoscere e nominare i colpevoli equivarrebbe a condannare il regime sovietico nel suo insieme e a scuotere le basi stesse dell’attuale regime che si presenta come il “successore dell’Unione Sovietica” e il cui presidente è un ex ufficiale del KGB.
Non a caso, gli attacchi contro Memorial hanno superato una nuova soglia quando l’associazione ha iniziato a pubblicare non solo gli elenchi delle vittime delle repressioni su larga scala, ma anche dei funzionari dell’NKVD coinvolti negli arresti, nelle torture e nelle esecuzioni di massa. Sicuramente, dopo la promulgazione della legge del 2012 sugli “agenti stranieri” (che obbliga le ong russe che ricevono finanziamenti esteri a registrarsi come “organizzazioni che svolgono la funzione di un agente straniero” e ad apporre questa dicitura, dalle connotazioni infami in Russia, su tutte le loro pubblicazioni, i loro discorsi e le loro manifestazioni, compresa la loro corrispondenza) Memorial è stata oggetto di crescenti pressioni da parte delle autorità: perquisizioni, ripetute verifiche fiscali, campagne diffamatorie sui media, multe astronomiche per “mancato rispetto dell’affissione della dicitura di agente straniero”, minacce contro i suoi membri. Ma un ulteriore passo è stato chiaramente compiuto dal 2016, quando diversi Memorialtsy, che sono anche storici professionisti, sono stati arrestati per aver pubblicato elenchi di agenti dell’NKVD. Il caso più emblematico è quello dello storico Yuri Dmitriev, capo della sezione careliana dell’associazione, che scoprì, nel 1997, la fossa comune di Sandormokh, in Carelia, dove furono giustiziati, nella massima segretezza, più di 9.000 condannati durante il Grande Terrore del 1937-1938.
Dmitriev pubblicò una decina di libri commemorativi dedicati alle vittime delle repressioni in Carelia e numerosi articoli che rivelavano l’identità dei responsabili e degli agenti di queste repressioni di massa. Arrestato nel 2016, dopo essere stato assolto nel 2018 – evento eccezionale negli annali della giustizia russa – dalle fantasiose e famigerate accuse di “pedofilia” formulate contro di lui dalla Procura della Repubblica, è stato condannato in appello a quindici anni in una colonia penale a regime severo, il 27 dicembre, dopo cinque anni di detenzione preventiva.
Si potrebbe citare anche il caso dello storico Serguei Koltyrine, direttore del museo di Medvejegorsk, anch’egli membro di Memorial, condannato nel 2018 a nove anni di carcere per le stesse accuse di “pedofilia” dopo aver dichiarato “assurda” l’ipotesi, avanzata da due storici della Società russa di Storia militare, secondo la quale i corpi trovati nelle fosse comuni di Sandormokh fossero i resti di prigionieri di guerra sovietici giustiziati nel 1941 dai finlandesi!
LE LEGGI SULLA MEMORIA. Insieme alla Commissione per la Storia, direttamente collegata al presidente Putin e incaricata, per statuto, di “contrastare i tentativi di falsificazione della storia che ledono gli interessi della Russia”, la Società russa di Storia militare, presieduta da Vladimir Medinski, ministro della Cultura dal 2010 al 2020, è stata la punta di diamante contro tutte le deviazioni dalla narrazione storica ufficiale. Di recente ha incoraggiato le autorità della città di Tver a rimuovere le targhe commemorative delle vittime delle repressioni staliniste apposte da Memorial sulle mura del carcere della città dove numerose persone erano state torturate e giustiziate fra il 1937 e il 1941.
Alcuni mesi fa, la Società russa di Storia militare fece scalpore negando ogni responsabilità dell’urss nel massacro dell’élite polacca a Katyn nell’aprile del 1940, che il presidente russo Boris Eltsin aveva tuttavia riconosciuto ufficialmente all’inizio degli anni Novanta. “Il presunto consenso storico attorno a Katyn fa parte di una più generale campagna di propaganda volta a incolpare l’URSS per lo scoppio della seconda guerra mondiale”, aveva dichiarato uno dei suoi rappresentanti. Da qualche tempo, la questione delle repressioni di massa dell’era staliniana è gradualmente passata in secondo piano nella vasta impresa di riscrivere la storia e creare una nuova narrazione nazionale. La “Grande Guerra Patriottica” è oggi più che mai il tema storico più delicato.
Per “legittimare” la nuova narrazione nazionale, il regime ha inserito i suoi elementi principali nella Costituzione. E al tempo stesso, ha promulgato tutta una serie di “leggi sulla memoria”. La più nota è l’articolo 354.1 del codice penale della Federazione Russa, che criminalizza la “negazione o riabilitazione del nazismo”. In apparenza, le sue clausole somigliano a leggi commemorative adottate in altri paesi democratici, ma in realtà la sua portata è molto più ampia poiché criminalizza anche la “diffusione di informazioni false sulle attività dell’Unione Sovietica durante la seconda guerra mondiale”, la “diffusione di informazioni irrispettose sugli episodi di gloria militare della Russia” e “la denigrazione dei veterani della Grande Guerra Patriottica”.
L’ultima “legge sulla memoria”, promulgata recentemente dalla Duma, vieta anche “ogni tentativo di mettere, sullo stesso piano, nello spazio pubblico, le finalità e le azioni dell’Unione Sovietica e della Germania nazista nella seconda guerra mondiale”. Due giorni prima dell’invasione dell’Ucraina, la Duma ha aumentato (fino a un anno di reclusione) le pene inflitte sino ad allora ai trasgressori.
Dopo la promulgazione di queste “leggi sulla memoria”, centinaia di persone sono state perseguite e condannate, per aver scritto ad esempio (di solito sui loro blog) che “i leader comunisti sovietici hanno collaborato attivamente con la Germania nazista per dividere l’Europa in conformità con il protocollo segreto del Patto Molotov-Ribbentrop”, o che “la seconda guerra mondiale iniziò nel settembre 1939, dopo l’attacco congiunto dell’Unione Sovietica e della Germania contro la Polonia, e non nel giugno 1941”, o ancora, per aver menzionato i “crimini commessi dall’Armata Rossa contro la popolazione civile tedesca nel 1945” o semplicemente per aver ricordato che il generale Roudenko, procuratore generale sovietico al processo di Norimberga, sedeva anche nei tribunali speciali durante il Grande Terrore del 1937-1938 e come tale poteva essere descritto come il “boia” di migliaia di vittime innocenti.
Tutta una serie di altri provvedimenti – rifiuto di declassificare archivi “sensibili”, di ammettere a difesa o di convalidare tesi “diffamatorie dell’onore del popolo russo” – escludono dal campo di ricerca molti temi tabù come la collaborazione dei sovietici con gli occupanti nazisti, la questione del personale e delle strutture degli organi di repressione, o l’azione esterna dei servizi segreti come aspetto essenziale della diplomazia sovietica, e via dicendo.
LO SPAURACCHIO DEL NAZISMO UCRAINO. Sul tema centrale della Grande Guerra Patriottica – “fulcro storico del regime di Putin” secondo la giusta definizione di Alexandre Gourianov, capo del Memorial Human Rights Committee – c’è una questione che, da diversi anni, mobilita le energie della Società russa di Storia militare e dei media russi: il movimento “neonazista” ucraino.
Mentre il riconoscimento di qualsiasi forma non solo di collaborazione, ma anche di accomodamento con l’occupante nazista durante la Grande Guerra Patriottica è ostinatamente negato – e perseguito penalmente – quando si parla di spazio russo (o bielorusso), la propaganda prende di mira pesantemente i movimenti nazionalisti (OUN e UPA) dell’Ucraina occidentale che, nel caos della guerra e della doppia occupazione sovietica (settembre 1939-giugno 1941), e poi tedesca (giugno 1941-estate 1944), avevano tentato, senza successo, di creare un’entità statale ucraina autonoma, prima di opporre una feroce resistenza alla risovietizzazione dell’Ucraina occidentale negli anni del dopoguerra, sino alla fine degli anni 1940. Secondo fonti della Sicurezza di Stato sovietica, fino a mezzo milione di ucraini furono uccisi in combattimenti di guerriglia guidati da sostenitori dell’UPA o deportati nei gulag fra il 1944 e 1948.
È precisamente questo movimento nazionalista dell’Ucraina occidentale, attivo negli anni Trenta e Quaranta, che è oggi lo spauracchio agitato dalla propaganda russa. Eppure la partecipazione attiva di questi estremisti nazionalisti ucraini al genocidio degli ebrei dell’Ucraina come sostituti dell’occupante nazista e ai massacri di massa contro i civili polacchi, in particolare in Galizia, non qualifica, l’OUN (Organizzazione dei Nazionalisti ucraini) e l’UPA (l’Esercito insurrezionale ucraino) come movimenti nazisti o neonazisti. In effetti, questi movimenti per la “liberazione dell’Ucraina” avevano soprattutto un programma volto al riconoscimento dell’identità ucraina e un orientamento al tempo stesso antistalinista, antirusso, antipolacco e antitedesco. Le forze di occupazione naziste non hanno mai accettato di dare alcuna legittimità ai movimenti nazionalisti ucraini, strumentalizzati esclusivamente al servizio degli interessi del Terzo Reich come fonte di forze militari e paramilitari ausiliarie.
Inoltre, l’influenza di questa presunta corrente nazionalista “fascista” o “neonazista” è, come sappiamo, minima nella vita politica e nella società ucraina. Il suo peso, stimato fra il 5% e il 6% è infinitamente inferiore a quello dell’estrema destra tedesca, olandese, fiamminga, italiana o francese. Ma per i media russi tutti gli abitanti di lingua ucraina in questo paese meritano di essere bollati da anni come ukr-fascisty (“fascisti ucraini”), perché contagiati dal cosiddetto “virus neonazista” e pronti a compiere un “genocidio” della “minoranza russa”.
Tale straordinaria falsificazione della storia che l’opinione pubblica mondiale scopre con stupore da pochi giorni, in realtà è stata preparata, passo dopo passo, per anni. Memorial ne è stata la prima vittima. Oggi è l’intero popolo ucraino a pagare con il sangue questa grossolana falsificazione che funge da pretesto per l’aggressione criminale del regime di Vladimir Putin.