La fine del Nagorno-Karabach armeno

*da Goris, confine armeno/azero – 1 ottobre 2023

Il Nagorno-Karabakh armeno non esiste più. È bastata una sola settimana per porre fine a trent’anni di indipendenza di fatto dell’enclave separatista denominata Repubblica dell’Artsakh tra le montagne dell’Azerbaigian sud-occidentale. Oltre 100mila sfollati hanno oltrepassato la frontiera armena a Kornidzor, un villaggio trasformato in centro d’identificazione e prima accoglienza, e ormai non resta che una piccola parte dei 120mila residenti armeni che abitavano la Repubblica dell’Artsakh prima dell’operazione fulminea di Baku di mercoledì 20 settembre.

I confini delle regioni contese nel Caucaso

 

Poche ore di avanzata in forze hanno convinto le autorità filo-armene che resistere militarmente era impossibile e che l’unica via era accettare le condizioni di Baku. I successivi trattati di Yevlakh, in territorio azero, sono stati una formalità. Il presidente azero Ilham Aliyev e il suo entourage erano determinati a portare a termine l’opera di riconquista iniziata già nel 2020 e ad eliminare la presenza armena dal Nagorno-Karabakh. Infatti, da quando l’Armenia aveva sconfitto l’esercito azero nella guerra del 1991-1993, nella regione si era installato un governo autonomo filo-armeno che da allora aveva agito come Stato indipendente, seppure all’ombra di Erevan.

Ma il riconoscimento internazionale non è mai arrivato, neppure da parte della madre-patria Armenia: la Repubblica dell’Artsakh è sempre stata considerata un’enclave separatista azera, nonostante la relativa calma nella regione (al netto di qualche schermaglia occasionale) avesse fatto propendere per un mantenimento dello status quo. Decisione che è costata cara agli armeni dell’Artsakh. «Rifiutare di risolvere la questione negli anni ’90, dopo la nostra vittoria, quando si poteva tentare di trovare una forma di indipendenza per l’Artsakh è stato un errore» mi racconta Yulia, professoressa russo-armena, da anni residente a Erevan. «Contavamo soltanto sulla protezione della Russia. Finché c’era Kocharian (presidente armeno per due mandati, ndr), che era amico di Putin, ci sentivamo con le spalle coperte». Ma nel frattempo l’Azerbaigian si è riorganizzato militarmente, ha iniziato ad acquistare armi tecnologicamente avanzate da Turchia e Israele, abbandonando progressivamente i sistemi d’arma sovietici, ha organizzato manovre militari con Ankara per addestrare i propri uomini e ha investito miliardi di dollari (provenienti dalla vendita di idrocarburi, di cui il Paese è ricco) nella difesa.

Inoltre, nel 2018 l’Armenia ha scelto di cambiare orientamento e di allontanarsi dalla vecchia alleata. La cosiddetta «Rivoluzione di velluto» che ha imposto al governo di Erevan le dimissioni senza sparare un colpo e ha portato l’attuale premier, Nikol Pashinyan, al potere in nome della lotta alla corruzione, ha modificato gli equilibri geopolitici della regione. Pashinyan ha iniziato a guardare a occidente, in particolare all’Europa, facendo spesso appello alle comuni radici cristiane e alla volontà del suo Paese di abbandonare il modello post-sovietico. Democrazia, trasparenza, libero mercato, riforme sociali. Un programma ambizioso che ha portato gli armeni a «vivere i migliori due anni della nostra storia», come ho sentito da molti giovani durante le ultime settimane. Molti emigrati sono rientrati nel piccolo Stato caucasico. I cosiddetti «figli della diaspora», iniziata durante il genocidio perpetrato dagli ottomani nel 1915-19, hanno portato capitali e voglia di fare.

Ma il bel sogno è durato poco. Il 27 settembre 2020 l’Azerbaigian ha messo in atto un’offensiva poderosa, sostenuta strategicamente e militarmente dalla Turchia, e in soli 44 giorni è riuscita a riconquistare due terzi del territorio del Nagorno-Karabakh controllato dagli armeni. Unione Europea, Stati Uniti e istituzioni internazionali, che per anni avevano blandito il nuovo corso di Erevan, si sono voltate dall’altra parte mentre il governo armeno implorava aiuto. Mosca ha deciso di attuare la propria vendetta intervenendo solo alla fine e solo in via diplomatica, inviando poi duemila soldati come contingente di pace per garantire la tregua nella regione. Per il Paese è iniziata una nuova crisi, profonda e nera come il lutto delle oltre 7mila famiglie che da due anni piangono nuovi morti. Tra chi chiedeva le dimissioni di Pashinyan e chi invocava la ripresa delle ostilità, agli armeni è stato subito chiaro che ormai era solo una questione di tempo prima che l’Azerbaigian tentasse di completare la riconquista dei territori che la tregua del 10 novembre 2020 lasciava sotto il loro controllo.

Infatti, approfittando dell’impegno della Russia in Ucraina e dei dissapori crescenti tra Erevan e Mosca, l’Azerbaigian ha imposto, seppure in via non ufficiale, un embargo ai territori rimasti sotto il controllo armeno. Mesi di blocco che hanno interrotto ogni collegamento tra l’Artsakh e l’Armenia mediante la chiusura del «corridoio di Lachin», l’unica via rimasta agli armeni tra il territorio sovrano di Erevan e la capitale separatista Stepanakert. Una situazione talmente dura da spingere l’ex procuratore capo della Corte Penale Internazionale, Luis Moreno Ocampo, a parlare di «rischio di genocidio». In un rapporto di 28 pagine presentato all’ONU il 7 agosto scorso, Ocampo ha accusato chiaramente il governo dell’Azerbaigian di aver messo a rischio 120mila persone di etnia armena nel territorio separatista del Nagorno-Karabakh a causa della chiusura del «corridoio di Lachin», sostenendo che «la fame è l’arma invisibile del genocidio. Senza un immediato cambiamento drastico, questo gruppo di armeni sarà distrutto in poche settimane».

 

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Poco più di un mese dopo l’allarme lanciato da Ocampo, l’Azerbaigian ha dato il via a una «operazione anti-terrorismo» nell’area di Stepanakert, e nei centri limitrofi. Per i giornalisti non c’è stato neanche il tempo di atterrare nel Caucaso meridionale che le ostilità si erano già concluse. Le truppe azere sono entrate nei villaggi e nelle cittadine e hanno di fatto cinto d’assedio Stepanakert. Meno di 24 ore dopo Samvel Shahramanyan, il presidente della Repubblica dell’Artsakh ha dichiarato la resa. Due le condizioni imposte da Baku per il cessate il fuoco: deporre le armi e smantellare ogni apparato amministrativo. Sembrava impossibile, ma l’amministrazione ha accettato, ponendo così fine a 30 anni di irredentismo armeno nella regione.

Con il decreto del 28 settembre, frutto dei colloqui post-bellici di Yevlakh tra le autorità armene sconfitte e il governo azero, il presidente Shahramanyan ha eliminato ogni dubbio. Nonostante il desiderio che nelle trattative in corso si trovasse una formula che almeno lasciasse aperto uno spiraglio alla più irrazionale speranza, il testo del decreto, al contrario, appare definitivo: «1) Sciogliere tutte le istituzioni e le organizzazioni statali sotto la loro subordinazione dipartimentale entro il 1° gennaio 2024 e la Repubblica del Nagorno-Karabakh (Artsakh) cessa di esistere; 2) La popolazione del Nagorno-Karabakh, compresa quella che si trova al di fuori della Repubblica, dopo l’entrata in vigore del presente Decreto, si familiarizza con le condizioni di reintegrazione presentate dalla Repubblica dell’Azerbaigian, al fine di prendere una decisione indipendente e individuale in futuro sulla possibilità di rimanere (tornare) in Nagorno-Karabakh». Il comunicato termina con una frase che sembra voler dire, «non vi state sbagliando, è finita: il presente decreto entra in vigore immediatamente dopo la pubblicazione».

Intanto in Armenia continuavano ad arrivare sfollati dal Nagorno-Karabakh. Alcuni con le auto stipate di ogni tipo di oggetto, altri in ciabatte e avvolti da una coperta, evidentemente scappati in fretta nel cuore della notte. I tendoni della Croce Rossa a Kornidzor ora sono quasi deserti, il flusso costante che per una settimana ha occupato ogni centimetro di strada tra Stepanakert e la frontiera si è quasi interrotto. Nelle ultime ore solo qualche mezzo isolato è passato arrancando sulla ripida salita che dagli edifici della dogana porta in paese.

Persone in fuga dal Nagorno Karabach all’Armenia

 

Si ritiene che gli armeni rimasti in Nagorno-Karabakh siano ancora lì semplicemente perché non hanno avuto la possibilità di fuggire. Forse non avevano un’automobile o non sono riusciti a trovare carburante. Come se non bastasse, infatti, la settimana scorsa a Stepanakert è esploso un deposito di benzina mentre i residenti erano in fila per riempire i serbatoi per la fuga. Si contano oltre 100 morti e 300 feriti, ma i numeri sono incerti e, tranne la Croce Rossa, nessuno è potuto intervenire sul luogo per verificare esattamente l’entità della strage. Tra gli sfollati arrivati alla frontiera sono in molti a raccontare di abusi da parte delle forze azere. Zara Amatuni, la portavoce della Croce Rossa armena, ci spiega che «abbiamo ricevuto molte segnalazioni in tal senso, ma ciò che possiamo fare è passare le informazioni alle autorità legali competenti e continuare a monitorare il più da vicino possibile». Anche Artur Hovhannisyan, rappresentante del fu ministero degli Esteri dell’Artsakh, spiega che «stiamo lavorando 24 ore su 24 per garantire la salvaguardia dei civili». «Si stanno diffondendo voci di torture da parte delle forze azere, state raccogliendo testimonianze, avete già delle prove?» insistiamo. «Siamo a conoscenza di queste denunce, il Difensore civico dell’Artsakh presso l’ONU se ne sta occupando».

Oltre all’accoglienza dei profughi le preoccupazioni interne all’Armenia restano due: le sorti del governo e la paura per una nuova azione militare dell’Azerbaigian. Nel primo caso, la manifestazione di sabato 30 settembre a Erevan sembra aver stroncato definitivamente le aspirazioni dell’opposizione a rovesciare il governo di Pashinyan. A conclusione della manifestazione nella grande Piazza della Repubblica, il politico Vazgen Manukyan ammette: «il ‘Comitato nazionale’ si è assunto la responsabilità di rimuovere Nikol Pashinyan. Abbiamo stabilito una tabella di marcia chiara per farlo. Non ha funzionato, abbiamo commesso un errore perché abbiamo sopravvalutato la nostra forza umana e organizzativa». Ciò non vuol dire che la leadership del premier in carica sia salda. Nel Paese il risentimento nei suoi confronti è grande. C’è chi lo accusa di non aver lottato a sufficienza contro Baku, chi di aver sbagliato totalmente strategia diplomatica, chi addirittura evoca teorie complottiste sul perché l’Armenia si sia arresa. Fatto sta che al momento non è ancora emersa una figura capace di inficiare seriamente il potere di Pashinyan.

Tuttavia, il risentimento contro Mosca è ancora maggiore di quello verso il Primo ministro e molti dei politici che si sono fatti portavoce delle proteste negli ultimi tempi sono considerati dalla popolazione come troppo vicini alla Russia. E, nonostante, i tentativi della propaganda russa di imputare la disfatta alla politica «vassalla della Nato» di Erevan, la stragrande maggioranza degli armeni accusa il Cremlino di tradimento. Il mancato intervento del contingente di pace durante i mesi di embargo imposto dalle truppe azere e il disinteresse durante l’operazione militare della settimana scorsa (malgrado l’alto ufficiale russo ucciso dai soldati di Baku) hanno aperto una spaccatura che sta progressivamente erodendo il consenso di cui Mosca godeva. Per l’armeno medio, Pashinyan è colpevole di non aver saputo proteggere il proprio Paese e di scelte errate in politica estera, ciò è indubbio; ma la Russia è colpevole di abbandono nel momento del bisogno. Persino molti degli anziani abitanti del Nagorno-Karabakh, i più strenui sostenitori della tradizionale vicinanza Erevan-Mosca, non difendono più il Cremlino (come pure avevano fatto dopo la sconfitta nella guerra del 2020, in cui la Russia ugualmente non era intervenuta). La tesi che si sente ripetere più spesso è che per punire la svolta filo-occidentale del governo di Pashinyan, il Cremlino abbia deciso di lasciare l’Azerbaigian libero di agire, d’accordo con la Turchia. È solo una teoria, ma potrebbe non essere troppo lontana dalla realtà. E, in ogni caso, la perdita di un «vassallo» nel Caucaso meridionale per Mosca è un danno enorme. Soprattutto se si considera il rafforzamento del panturchismo di Erdogan, assurto a deus ex machina degli equilibri regionali.

Da queste considerazioni nasce il timore per una ripresa delle ostilità, stavolta all’interno del territorio armeno, nella regione meridionale di Syunik. Osservando una carta geografica si può notare come la regione di Syunik in questo momento si trovi nella più scomoda delle posizioni dal punto di vista tattico. A ovest confina con l’exclave azere del Nachchivan, che poco più a occidente incontra la frontiera turca. A est con l’Azerbaigian e i territori appena riconquistati del Nagorno-Karabakh. Sia il presidente turco Erdogan, sia il suo omologo azero hanno dichiarato più volte che l’apertura di un passaggio in questo punto, che i due leader chiamano «corridoio di Zangezur», è fondamentale.

Schema del Corridoio di Zangzeur

 

Se ciò accadesse, il sogno del panturchismo di Erdogan potrebbe in parte realizzarsi grazie alla continuità territoriale tra le coste del Mar Mediterraneo e il Mar Caspio. Il presidente turco ha anche intimato all’Armenia di aprire il transito ai mezzi azeri, mentre l’alleato di ferro Aliyev ha dichiarato che «è solo questione di tempo». Il capo di Stato azero ha anche ribattezzato la regione «Zangezur occidentale», come a sottolineare che di fatto già si pensa ad una sua integrazione nel territorio dell’Azerbaigian. La tesi a supporto dell’azione diretta su questa striscia di terra l’ha spiegata durante una conferenza in Turchia la settimana scorsa: «dare la regione di Syunik all’Armenia fu un errore di Stalin, una decisione priva di logica, storicamente questa appartiene senza dubbio all’Azerbaigian». Non è la prima volta che ascoltiamo una dichiarazione del genere da parte azera, ma dati i recenti sviluppi nella regione, stavolta la paura degli armeni è assolutamente giustificata.

Intanto è in atto l’ennesima crisi umanitaria del nostro tempo e oltre 100mila persone si trovano a dover ricominciare tutto da zero: senza casa, senza lavoro, in una terra che sentono culturalmente vicina ma che pure non è casa loro.

 

 

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