Il ruolo della finanza e dello strumento specifico dei green bond (obbligazioni verdi) è fondamentale nella sfida della transizione ecologica, una sfida che ha alcuni elementi in comune con quella della pandemia da Covid-19. Anche nel caso della transizione ecologica l’umanità è di fronte a un problema globale (un male pubblico globale potremmo definirlo tecnicamente in linguaggio economico). Come nel caso della pandemia, conosciamo la direzione di marcia ma non abbiamo ancora la soluzione finale in mano, il “vaccino” che potrà portarci a risolvere il problema del clima. Sappiamo infatti che la concentrazione di co2 nell’atmosfera sta continuando ad aumentare in modo preoccupante, generando l’effetto “parabrezza” che impedisce il rilascio del calore che arriva sulla terra oltre l’atmosfera e contribuisce al riscaldamento globale.
Per cercare d’invertire la tendenza ed evitare che l’aumento di temperatura media del pianeta superi limiti tali da scatenare processi catastrofici che rischiano di essere irreversibili, i maggiori paesi del mondo si sono dati l’obiettivo di arrivare a emissioni nette zero entro il 2050 (la Cina entro il 2060). Ciò significherebbe azzerare i quasi 54 miliardi di tonnellate di co2 equivalente che emettiamo attraverso industria, agricoltura, trasporti, produzione di energia e riscaldamento e raffreddamento degli edifici.
L’analogia con la sfida della pandemia prima che trovassimo i vaccini dipende dal fatto che la curva marginale di abbattimento della co2 ci dice che fino a metà dell’opera i costi di riconversione saranno tutto sommato contenuti mentre di lì in poi cominceranno a diventare proibitivi. La buona notizia assieme a questa cattiva notizia è che la curva si sposta ogni anno verso il basso grazie all’innovazione tecnologica.
Il ruolo della finanza arriva proprio qui.
LE CARATTERISTICHE DEI BOND VERDI. Abbiamo bisogno di risorse che aiutino a coprire i costi della transizione e finanzino allo stesso tempo progetti innovativi capaci di spostare in avanti la frontiera del progresso tecnologico. Non dobbiamo inoltre dimenticare che il problema della sostenibilità ambientale non si esaurisce in quello delle emissioni di anidride carbonica e del riscaldamento globale. Altre questioni urgenti e fondamentali sono la gestione efficiente dell’acqua, il problema dell’inquinamento dell’aria e delle polveri sottili, particolarmente grave nel nord d’Italia, e la questione della biodiversità.
Tutte le sopra citate dimensioni del problema sono legate, come spiega molto bene il rapporto Dasgupta per il governo britannico, dalla questione della tutela del capitale naturale e dell’ecosistema. La storia della rivoluzione industriale è una storia di grande successo che ha portato l’umanità a una crescita impressionante di popolazione e aspettativa di vita (quantificabile in un aumento esponenziale di anni di vita, in buona salute, della popolazione attualmente vivente rispetto a quella vivente in epoca preindustriale). Oggi rischiamo però di essere travolti da questo successo che ci ha portato vicino ai limiti naturali del pianeta. Abbiamo costruito il paradigma economico per vincere la prima sfida, puntando alla massimizzazione della produzione di beni materiali.
Oggi dobbiamo ridefinire tutto per tenere assieme creazione di valore economico e sostenibilità ambientale puntando sulla logica dell’economia circolare. Ovvero: dobbiamo aumentare la quota di materia seconda (riuso/riciclo) come input di produzione in alternativa alla materia prima, allungare la durata dei prodotti e il loro tasso di utilizzo e aumentare la riciclabilità degli scarti di consumo e di produzione diminuendo la produzione di rifiuti indifferenziati. La creazione di valore nel futuro deve pertanto sempre più dematerializzarsi, fondandosi in proporzione sempre minore sull’aumento di produzione di beni materiali non riciclabili e sempre più sull’accesso a beni e servizi immateriali.
Per sostenere quest’enorme trasformazione, la finanza “di scopo” è enormemente cresciuta in questi ultimi anni. Gli ultimi dati mondiali disponibili a marzo 2021, forniti dalla Climate Bond Initiative, indicano che il volume aggregato delle emissioni di obbligazioni verdi da imprese private, Stati ed enti sovranazionali ha raggiunto i 257,7 miliardi di dollari nel 2019, con una crescita del 51% rispetto all’anno precedente.
Lo Stato italiano è entrato proprio quest’anno nella partita con l’emissione dei primi btp verdi, a scadenza 2045 con un’offerta di 8,5 miliardi a fronte di una domanda quasi 10 volte superiore di investitori istituzionali. Il percorso che porta all’emissione di obbligazioni verdi è molto interessante e aiuta e stimola gli emittenti a fare progressi in materia di transizione ecologica. Per potere essere credibili sui mercati finanziari è necessario lavorare con parti terze (organismi di valutazione indipendenti) alla definizione delle caratteristiche di un prospetto per gli investitori e avere da esse un rating preventivo sulla qualità di tale prospetto. Il prospetto, come accade per tutti i paesi emittenti, deve rendere esplicite le caratteristiche degli investimenti che si intendono finanziare con le risorse raccolte sui mercati finanziari.
I paletti imposti dalle parti terze per avere un buon rating ex ante sono piuttosto rigorosi. I fondi raccolti vanno investiti in progetti per la produzione di energia con limiti severi in termini di emissioni di co2 per kilowatt, compatibili solo con le fonti rinnovabili; in materia di trasporti sono finanziabili progetti che riducono le emissioni e che rendono più verdi i trasporti pesanti (marittimi, ferroviari, autotrasporto). Il finanziamento per l’innovazione in materia di efficientamento energetico è considerato ammissibile e molto importante. Assieme a questi capitoli troviamo quelli dell’economia circolare, dell’efficientamento energetico degli edifici e dell’uso efficiente delle risorse idriche. La qualità di un’obbligazione verde dipende anche dalla qualità del processo fatto di report annuali sull’utilizzo dei fondi e sugli impatti degli investimenti in termini di indicatori di sostenibilità ambientale. Nei primi anni della nascita del mercato delle obbligazioni verdi le stesse realizzavano un premio rispetto alle obbligazioni “non verdi” con caratteristiche equivalenti, ovvero consentivano agli emittenti di finanziarsi a tassi più bassi vista l’enorme sproporzione tra domanda e offerta.
Oggi, con la progressiva forte crescita dell’offerta, il green premium si è fortemente assottigliato ed è quasi scomparso, segnale che il mercato delle obbligazioni verdi sta ormai diventando un mercato maturo. Se il vantaggio di un costo del debito verde minore per gli emittenti rispetto al debito tradizionale tende a scomparire, non è lo stesso per la liquidità. Visto il forte interesse degli investitori anche sul mercato secondario, la liquidità delle obbligazioni verdi è in molti casi persino migliore di quella dei titoli tradizionali.
DA BLACKROCK ALLE DIRETTIVE EUROPEE. Quali sono i fattori che spiegano e guidano la crescita della finanza verde? È evidente che il problema della transizione ecologica è di urgenza assoluta ma questo non implica assolutamente una marcia risoluta e decisa verso la sua soluzione. I fattori che spiegano il cambiamento sono essenzialmente due. Il primo in ordine di tempo è la mobilitazione di una parte della finanza privata, la finanza etica o responsabile, alla quale si accompagna oggi una spinta istituzionale e regolatoria che moltiplica l’effetto.
Già una ventina di anni fa i fondi d’investimento “etici” iniziarono a votare col portafoglio scegliendo azioni di aziende al di sopra di determinati standard sociali e ambientali e obbligazioni con le stesse caratteristiche. L’idea nasce dalla consapevolezza che nel sistema economico globale è il mercato a dominare. Il mercato è fatto di domanda e offerta e pertanto il lato della domanda può utilizzare le scelte di consumo e di risparmio come voto per premiare le aziende più capaci di “internalizzare le esternalità”, ovvero di coniugare la creazione di valore economico con la sostenibilità ambientale e sociale. All’inizio si misero in moto pochi pionieri (due di questi sono il fondo degli statali californiani Callpers e in Italia Etica sgr). I pionieri hanno dimostrato, con una storia di rendimenti corretti per il rischio del tutto paragonabile a quella dei fondi tradizionali, che la via era percorribile.
La situazione, d’altra parte, cambia radicalmente negli ultimi anni. La svolta arriva quando i fondi si rendono conto che ormai l’esposizione al rischio ambientale e sociale è un handicap per azioni e obbligazioni: cominciano quindi a misurare l’esposizione al rischio ESG (environmental, social, governance) dei loro portafogli con l’obiettivo di ridurla. Il voto col portafoglio diventa la strategia ottimale per ottenere il massimo rendimento corretto per il rischio (incluso il rischio ESG). È così che in una recente indagine di PriceWaterhouse Cooper il 77% dei gestori di fondi d’investimento del mondo dichiara che nei prossimi due anni utilizzerà i criteri ESG per selezionare azioni e obbligazioni da inserire nel proprio portafoglio. La “benedizione” per la nuova strategia arriva dal ceo e fondatore del primo fondo d’investimento del mondo, Larry Fink, che afferma che Blackrock (più di 6.000 miliardi di masse gestite) voterà col portafoglio per ridurre il rischio d’investimento concludendo che aziende senza “purpose” perderanno la licenza a operare da parte degli stakeholder e dunque saranno più rischiose.
Nel momento in cui la forza della spinta del settore privato della finanza responsabile cresce, entra in gioco anche il secondo fattore. Le istituzioni scendono in campo per evitare che dietro una moda sempre più dominante si nascondano comportamenti opportunistici di green e social washing e dunque per garantire agli investitori condizioni di trasparenza informativa. L’UE vara il percorso della tassonomia che definisce cosa è un investimento green lavorando su sei domini ambientali (mitigazione climatica, adattamento climatico, uso dell’acqua, economia circolare, inquinamento dell’aria, biodiversità). Arriva poco dopo la direttiva sulla regolamentazione della disclosure legata alla sostenibilità, nella quale le società di gestione che definiscono come verdi i propri portafogli devono dimostrarlo misurando, indicatori alla mano, il progresso di sostenibilità nel corso degli anni. Per intenderci: se nella famosa intervista MiFid – che è necessario fare al cittadino quando decide di fare un investimento finanziario – quest’ultimo dichiara che, a parità di rendimento, preferisce strumenti finanziari in grado di realizzare un impatto positivo sulla transizione ecologica, il consulente finanziario può proporgli solo fondi che abbiano le caratteristiche richieste dalla direttiva UE sulla disclosure, ovvero prodotti finanziari che misurano il progresso nella sostenibilità con appositi indicatori.
Non è difficile immaginare che questa direttiva stia producendo un cambiamento profondo. L’informazione dettagliata su indicatori ambientali legati alla transizione ecologica (carbon footprint, water footprint, grado di circolarità dei prodotti, emissioni inquinanti) non è ancora pubblicamente disponibile a livello di singole imprese. La grande sfida dei prossimi anni è quella della definizione di standard sugli indicatori che presto arricchiranno la rendicontazione non finanziaria e saranno resi disponibili dalle aziende quotate sulle piattaforme globali (Reuters, Bloomberg, e così via) della finanza, condizione sine qua non affinché i fondi d’investimento possano comunicare l’informazione agli investitori e la direttiva sulla trasparenza possa essere attuata.
VERSO IL GREEN QUANTITATIVE EASING. Queste trasformazioni avranno un impatto anche sul mercato del lavoro e delle relative professioni. Il lavoro di contabilità non sarà più limitato ai tradizionali indicatori finanziari di bilancio ma dovrà includere le misure di “materialità” ambientale e richiederà dunque un mix di competenze economico-finanziarie tradizionali integrato con quelle sulle scienze naturali necessarie per calcolare e comprendere gli indicatori ambientali.
Un’altra novità importante che s’intravede all’orizzonte riguarda il ruolo delle banche centrali e il dibattito sul green quantitative easing. Nel corso degli ultimi tempi la consapevolezza che queste istituzioni abbiano un potere enorme sull’economia è cresciuta e con essa il loro interventismo. Le banche centrali oggi, pur mantenendo il loro obiettivo originario di controllo della reputazione e della fiducia nella moneta evitando spirali inflazionistiche o svalutazioni del cambio, si sono sempre più spinte a utilizzare politiche che mirassero a stabilizzare i mercati finanziari e favorire la ripresa dell’economia. E questo riguarda non solo la Federal Reserve che ha nel suo statuto il doppio obiettivo di controllo dell’inflazione e sostegno all’attività economica ma anche tutte le altre, Banca centrale europea inclusa.
Nel dibattito sul green quantitative easing si afferma che le banche centrali possono ampliare la sfera dei loro obiettivi dando un contributo significativo a realizzare la transizione ecologica attraverso diverse leve. Una prima potrebbe essere quella della politica dei tassi di rifinanziamento alle banche di credito che depositano presso di loro le riserve. Le banche centrali potrebbero praticare tassi più favorevoli sui fondi che le banche di credito si impegnano a utilizzare per finanziare investimenti orientati alla transizione ecologica.
Un’altra via è quella della definizione di un target di obbligazioni green da acquistare da parte delle banche centrali e detenere in attivo nell’ambito delle politiche di quantitative easing in corso. In entrambi i casi partirebbe dalle banche centrali un ulteriore stimolo alla destinazione di risorse finanziarie verso l’obiettivo della transizione ecologica
In pochissimi anni abbiamo assistito in rapida successione alla forte crescita delle emissioni di obbligazioni verdi da emittenti privati, pubblici e sovranazionali, alla crescita dei fondi della finanza responsabile, alla regolamentazione sulla tassonomia e trasparenza relativamente alla definizione “verde” degli strumenti finanziari e discutiamo oggi ipotesi sull’ulteriore coinvolgimento diretto delle banche centrali. È questa la fotografia a oggi di uno scenario in continuo movimento. Le sfide del prossimo futuro si giocano attorno alla standardizzazione e definizione di benchmark sulle misure di sostenibilità e sulle ulteriori misure, di regolamentazione o messe in campo volontariamente dagli attori privati, per ridurre le asimmetrie informative e garantire trasparenza sui mercati. Il ruolo della finanza è da sempre quello di far incontrare chi ha idee ma non soldi con chi ha soldi ma non idee, rendendo possibile il progresso economico e civile attraverso investimenti e innovazione. Per questo anche oggi la finanza gioca e giocherà un ruolo decisivo nella transizione ecologica.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 93 di Aspenia