La fase due della linea Trump sull’immigrazione

Negare il permesso di ingresso agli immigrati che economicamente non possono sostenere le proprie spese mediche. Questa è la nuova svolta nella politica dell’immigrazione di Donald Trump. A 12 mesi dalle presidenziali del 2020, il 3 novembre è scattata la “presidential proclamation” (una sorta di decreto esecutivo) emessa dal Presidente con la collaborazione del falco Stephen Miller, consulente per la Casa Bianca, per contrastare l’ingresso e il ricongiungimento di coniugi e genitori di immigrati già presenti sul territorio americano.

Trump sceglie ancora una volta una giustificazione economica per presentare il suo intervento agli elettori: i cittadini americani non devono pagare di tasca propria per gli immigrati che non hanno un’assicurazione sanitaria o che non riescano a dimostrare di farsene carico. La prova della capacità economica, inoltre, dovrà essere fornita entro trenta giorni dall’arrivo nel paese. La Casa Bianca è persino arrivata, si legge nel documento con cui ha spiegato le ragioni del provvedimento, a quantificare in 35 miliardi di dollari l’ammontare delle spese sanitarie non coperte dai migranti negli ultimi dieci anni, che sarebbero finite a carico delle strutture ospedaliere americane e quindi, secondo Trump, ridistribuite sui contribuenti americani.

Nuovi cittadini americani recitano il “Giuramento di Lealtà” alla cerimonia di per il conferimento della cittadinanza

 

È una piccola svolta nel mare delle promesse fatte in campagna elettorale da Trump. Se il muro ancora non c’è – così come immaginato dal Presidente -, manca l’annullamento del DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals) richiesto da Trump alla Corte Suprema e che protegge dalla deportazione molti minori (pur senza offrire loro un percorso di cittadinanza), ed è molto difficile procedere con un viatico bipartisan sul Dream Act, che invece ne prevede l’iter ed è stato approvato soltanto alla Camera a guida democratica (con qualche voto repubblicano), il Presidente può almeno procedere con la riduzione dei flussi ingresso. Il nuovo provvedimento potrebbe infatti  limitare il percorso verso la cittadinanza dei migranti poveri, quella che viene chiamata “chain migration”, ovvero l’immigrazione basata sul ricongiungimento familiare. Il disegno sembra chiaro: costruire una politica migratoria che favorisca i migranti che hanno competenze specifiche, escludendo in questo modo coloro che muovono verso gli Stati Uniti dall’America centrale e dal Messico, da dove provengono migranti sia economici sia in fuga da violenze e soprusi. Questa decisione peraltro fa il paio con l’implementazione del decreto presidenziale del 15 ottobre, che mira a negare la green card alla categoria degli immigrati a basso reddito ma considerati capaci di inserirsi professionalmente, consentendo alla burocrazia maggiori possibilità di respingere coloro che sarebbero considerati “un peso per il bilancio pubblico”.

Tuttavia, anche questa iniziativa si inserisce nella stessa cornice normativa con cui Trump ha decretato il Muslim Ban, finito sotto la scure della giustizia americana. Rischia, pertanto, di essere messa in discussione dai tribunali federali.

Il Presidente ha deciso di sostenere il nuovo provvedimento sull’Immigration and Nationality Act – lo stesso su cui ha costruito il famigerato Muslim ban con i due Ordini Esecutivi del 2017 (ufficialmente contro inflitrazioni terroristiche): secondo la norma, ciò che va a detrimento degli interessi nazionali può essere considerato motivo di esclusione all’ingresso negli Stati Uniti.

 

La continuità nella svolta e l’abuso del ricorso alla Corte Suprema

Se da una parte la pratica delle separazione delle famiglie di migranti sembra aver perso slancio, dall’altra questa svolta si inserisce nella “zero tolerance” impressa da Trump anche a suon di arresti: dissuadere alcune categorie di immigrati dall’idea del ricongiungimento familiare negli Stati Uniti, e selezionare solo coloro che hanno competenze specifiche e che mirano ad un’esperienza professionale di alto livello sul suolo americano.

Tre cose, però, sono fondamentali per capire quanto sta accadendo: in primo luogo la nuova restrizione all’ingresso per la chain-migration non dovrebbe applicarsi a rifugiati e minori ma – in secondo luogo – ai minori tuttavia potrebbe continuare ad applicarsi la separazione delle famiglie. Nel settembre scorso, infine, c’è stata una pronuncia della Corte Suprema, ormai a trazione repubblicana grazie alla nomina del giudice Brett Kavanaugh, e alla quale Trump ricorre spesso non aspettando il fisiologico processo nei tribunali locali.

La sede della Corte Suprema USA

 

Ebbene, la Corte ha riconosciuto come legittimo il provvedimento del Presidente di bloccare molti migranti al confine con il Messico, che sono in attesa di un permesso di asilo; un blocco frutto di un nuovo ordine esecutivo. Trump infatti, il 15 luglio, ha annunciato una modifica importante nelle regole per la richiesta di asilo: a chi proviene dall’America Centrale, e ha già attraversato altri paesi prima di giungere al confine con gli Stati Uniti, non sarà più concesso l’asilo. Per la Casa Bianca, la richiesta è quindi ammissibile solo se fatta prima di giungere alla frontiera americana: un modo per impedire ai più l’ingresso negli Stati Uniti e per respingere molti di coloro che hanno fatto parte della carovana dei 7mila migranti dello scorso anno. Il Dipartimento di Giustizia stima infatti che ci siano circa 460mila richieste pendenti, tra cui permessi di asilo, e probabilmente questa decisione può aiutare a ridurle.

Questi tre elementi contribuiscono dunque a una sorta di corto circuito, grazie al quale l’amministrazione può portare avanti i suoi propositi per questo suo ultimo anno, in attesa che la matassa giuridica si dipani ad opera dei tribunali.

La pratica delle separazione delle famiglie intanto prosegue, sebbene lo stesso Trump abbia formalmente imposto uno stop nel giugno del 2018: i dati delle corti federali a cui stanno ricorrendo diversi migranti al fine di potersi ricongiungere con i propri figli mostrano che ci sono ancora 1.556 minori sottratti a parenti o genitori e un altro migliaio separato dalle proprie famiglie anche dopo la sospensione della pratica decisa con un ordine esecutivo del Presidente. Secondo la American Civil Liberties Union Foundation, la Casa Bianca ha proseguito nella pratica ormai illegale della separazione delle famiglie, portando a circa 5.500 i bambini sottratti ai genitori o ai parenti (fino a metà 2019 si è creduto fossero 2.800), e la loro ricongiunzione sta diventando materia sempre più complessa per avvocati e giudici: la possibilità che i minori rivedano i genitori dipenderà infatti dal momento in cui ne sono stati separati, dal luogo in cui questo è avvenuto e, ovviamente, da dove si trovano ora i genitori; sono così tante le persone in questa condizione che si sta considerando l’idea di una class action contro l’amministrazione (peraltro una è stata già avviata per i bambini separati durante il 2018), in particolare contro l’ICE, United States Immigration and Customs Enforcement.

 

La politica senza legge: il muro nonostante tutto

Spesso si è detto della prevedibilità delle decisioni di Trump: in realtà, il suo martellare comunicativo su alcune promesse apparentemente impossibili da realizzare ha dissimulato una strategia imprevedibile.

Il Presidente è riuscito, nel bel mezzo di una procedura di impeachment e benché i Democratici abbiano la maggioranza alla Camera, a generare un groviglio giuridico ricorrendo spesso alla Suprema Corte, bypassando il normale iter presso i tribunali federali e, non da meno, influendo sul dibattito e sul percorso legislativo di leggi – come quella sull’asilo – modificate de facto con ordini esecutivi presidenziali.

Meno di un anno fa Trump aveva forzato la mano al Congresso sul muro al confine con il Messico, minacciando lo “shutdown” del governo federale: o il muro o la morte dell’amministrazione finanziaria dello Stato. In gennaio la Casa Bianca aveva reiterato la richiesta: 5,7 miliardi di dollari per costruire la barriera d’acciaio per il confine sud, il muro. Il Congresso aveva accordato 1 miliardo e 375 milioni. In febbraio, Trump era tornato alla carica, dichiarando lo stato di emergenza e decretando l’uso delle risorse dei militari per la costruzione della barriera. A distanza di alcuni mesi la questione dello stato di emergenza nazionale ha tenuto banco e la scorsa estate, con una votazione alla Corte Suprema finita 5 a 4, l’amministrazione ha ottenuto il via libera all’uso dei fondi del Pentagono per costruire parte del muro. Due milioni e mezzo di dollari che la Casa Bianca ha tentato di usare, senza però riuscirci grazie a un giudice del Texas che ha ritenuto che la dichiarazione di emergenza nazionale fosse una violazione della legge federale, dati i suoi fini strumentali. In sostanza l’accesso ai fondi militari per costruire il muro sarebbe stato illegale, perché il Congresso ne aveva approvato un utilizzo diverso proprio alla fine del processo di “shutdown” (terminato a fine gennaio 2019 dopo circa un mese), con quella che può definirsi la legge finanziaria dello Stato.

Se la Casa Bianca farà appello (come sembra certo) contro la decisione della corte texana, il ricorso finirà nelle mani della Corte Suprema a maggioranza repubblicana. L’alta corte, in primavera, dovrà pronunciarsi anche sul DACA.

Ciò che sembra emergere dalla ricostruzione di questi ultimi mesi, è la volontà da parte del Presidente di costruire una politica dell’immigrazione giocata fuori dal suo campo d’azione e parzialmente legata al ruolo delle agenzie e delle autorità competenti. ICE, Homeland SecurityBorder Patrol e gli uffici dell’US Citinzenship and Immigration Services, sono anche sotto istruzione da parte del consulente Stephen Miller perché rendano più severe le interviste dei funzionari ai richiedenti asilo e rispetto ai USCIS, il capo dell’ufficio richieste di asilo è stato rimosso per far posto a funzionari più adatti alla fase due della politica dell’immigrazione di Trump.

La strategia del Presidente spariglia le carte, ma mina anche l’equilibrio dei contrappesi democratici attraverso il continuo coinvolgimento della Corte Suprema, per difendere gli ordini esecutivi emessi ma bocciati dalle sentenze dei tribunali locali. Parafrasando una delle dichiarazioni della giudice della Corte Sonia Sotomayor, “storicamente l’amministrazione è ricorsa alla Corte per questo ordine di decisioni politiche con cautela; ora lo fa in modo automatico, senza pensarci”.

 

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