In occasione della tappa giapponese della visita presidenziale, il 23 maggio, Biden ha annunciato l’Indo-Pacific Economic Framework (IPEF), un accordo-quadro fra 13 Paesi[1] che comprende in effetti un “pilastro” commerciale ma anche uno sulle “supply chain resilienti” e altre aree di cooperazione come l’energia pulita e la lotta alla corruzione. In sostanza, gli sforzi compiuti fin dall’insediamento dell’attuale amministrazione sul piano della difesa in chiave anti-cinese, di natura bilaterale o altamente informale (come nel caso della “Quad”, o Quadrilateral Initiative), sono ora accompagnati da un meccanismo di collaborazione multilaterale più ampio.
Si trattava di un punto di debolezza che l’amministrazione Biden ha ereditato dalla precedente amministrazione, soprattutto per la decisione presa da Donald Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo multilaterale di libero commercio negoziato da Barack Obama e siglato nel 2018 da 11 Paesi: era il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), la cui leadership fu di fatto lasciata al Giappone. Con la successiva complicazione della richiesta di adesione da parte di Pechino – soprattutto come azione di disturbo – arrivata nel settembre 2021, non certo a caso in coincidenza con il lancio del famigerato AUKUS (l’accordo tra USA, Gran Bretagna e Australia per la fornitura a quest’ultima di tecnologie per sottomarini atomici). La Cina è rimasta fino ad oggi fuori dalla CPTPP, ma come si vede gli allineamenti commerciali sono piuttosto intricati. E la decisione americana di ripartire con una nuova iniziativa, invece di riprendere magari quella già impostata negli anni di Obama, è un tentativo di alzare ulteriormente la posta e il livello dell’impegno.
Dunque, il quadro economico è in continuo movimento, ha chiaramente implicazioni strategiche, ma non collima del tutto con la rete informale di alleanze che Biden stava già coltivando e rilanciando sul piano della sicurezza. In particolare, non può certo sfuggire il fatto che i maggiori Paesi della regione, perfino mentre perseguono rapporti sempre più stretti con Washington e con crescenti preoccupazioni per le mire regionali di Pechino, non rinunciano a mantenere legami di forte interdipendenza con la grande economia cinese.
La Cina, infatti, è riuscita a sua volta a lanciare nel novembre 2020 una sorta di accordo-rivale (allora il più grande accordo commerciale al mondo) – la Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) – con ben 15 membri, inclusi alcuni alleati-chiave di Washington come il Giappone e l’Australia – e, appunto, senza gli USA.
In tale contesto si può meglio comprendere il senso della nuova iniziativa di Washington, finalizzata a riannodare alcuni fili rimasti sciolti che la crisi russo-ucraina ha messo temporaneamente in secondo piano.
Un ruolo che potrebbe perfino risultare decisivo in chiave indo-pacifica ma anche globale è quello dell’India: il governo Modi ha assunto una posizione ambigua sulla vicenda ucraina, ma ha presto chiarito che le persistenti forniture di armamenti russi non sono certo un sostituto di quelle americane e che gli acquisti di gas e petrolio da Mosca sono dovuti alla contingenza di prezzi vantaggiosi e non a un programma a lungo termine. Insomma, dichiarazioni piuttosto esplicite per segnalare che Nuova Delhi ragiona su scala globale e di lungo periodo – dunque, vede anzitutto la Cina come sfida complessiva nella grande area indo-pacifica – mentre la Russia è questione regionale e di tipo non sistemico. In tal senso, si registra un perfetto allineamento con la valutazione fatta dall’amministrazione Biden; una valutazione, peraltro, che forse è ancora poco percepita da noi europei.
L’India, comunque, è già membro a pieno titolo del “Quad”, con Giappone e Australia, ma dalla prospettiva americana un suo coinvolgimento più ampio è utile per creare forme aggiuntive di interdipendenza e aumentarne l’affidabilità come partner strategico. E Nuova Delhi non era comunque parte del CPTPP del 2018, mentre la neonata IPEF la include a pieno titolo e anzi ne sottolinea l’importanza nello stesso acronimo, con l’uso del termine “Indo-Pacific”.
Questo accordo-quadro potrebbe avere anche altri vantaggi, favorendo una maggiore integrazione nei fori regionali di due Paesi problematici, sebbene per ragioni molto diverse: Taiwan e Corea del Sud.
Il caso taiwanese è ben noto ed è tornato alla ribalta proprio in occasione della visita di Biden a Tokyo, quando in conferenza stampa il Presidente ha espressamente ipotizzato l’uso della forza in risposta a un eventuale attacco cinese contro l’isola. L’amministrazione – in particolare per bocca del Segretario di Stato, Tony Blinken – ha precipitosamente ribadito la propria adesione alla tradizionale “One China policy” dei primi anni ’70, che di fatto prevede una certa “ambiguità strategica” in proposito, pur garantendo il diritto taiwanese a una soluzione comunque pacifica della disputa con Pechino che dura dal lontano 1949. Ma resta la netta sensazione che la posizione americana si sia indurita nell’interpretare quella linea politica, a fronte della crescente assertività della Cina di Xi Jinping. Il governo di Taipei non partecipa al nuovo “framework” economico, a causa della volontà di altri partecipanti di evitare eccessive provocazioni nei confronti di Pechino; ma la Casa Bianca ha annunciato l’avvio di uno specifico canale negoziale per intensificare la collaborazione economica bilaterale, che nei fatti consentirebbe a Washington di chiudere il cerchio diplomatico nella regione.
La Corea del Sud (che partecipa invece all’IPEF) porta con sé, inevitabilmente, lo spinosissimo problema della penisola coreana – dove a tutt’oggi manca un accordo di pace tra Nord e Sud e continuano le minacce nucleari del regime di Pyongyang. Inoltre, i rapporti di Seul con il Giappone non sono privi di frizioni, e Washington non è mai riuscita a far realmente collaborare i due alleati – sul cui territorio stazionano la gran parte delle truppe americane schierate stabilmente nella regione, con circa 50.000 unità in Giappone e quasi 30.000 in Corea del Sud. Anche in questo caso, servirà nel prossimo futuro una certa creatività diplomatica da parte dell’amministrazione Biden per far sì che i dossier militari e della sicurezza siano allineati al meglio con quelli economici, tecnologici e commerciali.
Tre mesi di guerra tra Russia e Ucraina hanno ricordato a tutti, se ve ne fosse stato bisogno, quanto possa contare l’uso strategico degli strumenti economici: gas e petrolio, ma anche grano, mais e forniture dell’industria pesante, e infine il sistema finanziario. Senza dubbio, l’interdipendenza creata dalle lunghe catene del valore presenta aspetti negativi.
Quello che però si continua forse a sottovalutare è un dato economico collocato a monte del semplice ricatto legato a una risorsa, un bene intermedio, l’accesso a un porto o una sanzione finanziaria; si tratta della superiorità tecnologica, dei continui processi di innovazione e della capacità di adattare le tecnologie a situazioni non sempre previste in partenza. E’ proprio qui che la coalizione guidata dall’amministrazione Biden sta facendo la differenza in Ucraina rispetto alle iniziali mire di Vladimir Putin – come stanno certamente osservando con attenzione i leader cinesi.
Se ciò è vero, non basta la forza economica di un Paese, neppure di una superpotenza come gli USA, per produrre automaticamente una superiorità diplomatico-militare in qualunque area del globo; è necessaria una vasta infrastruttura e una rete di rapporti consolidati, cioè un impianto multilaterale sofisticato. Ed è esattamente questo che Biden sta cercando di migliorare e aggiornare nell’Indo-Pacifico, dove si trova il baricentro del potere economico nel XXI secolo.
[1] Australia, Brunei, Corea del Sud, Filippine, Giappone, India, Indonesia, Malaysia, Nuova Zelanda, Singapore, Tailandia, Vietnam, oltre agli Stati Uniti.