Sul fronte della nuova diplomazia di Pechino, l’ultimo impegno in ordine di tempo assunto dalla Cina è di lavorare fianco a fianco con il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) per vaccinare gli atleti in vista dei prossimi Giochi. Sia quelli estivi di Tokyo, già rinviati un anno fa a causa della pandemia, sia, più importante dal punto di vista cinese, l’edizione invernale del 2022 in programma a Pechino.
Non sono un mistero le aspettative riposte dalla dirigenza cinese nelle Olimpiadi, con l’auspicio di ripetere il successo del 2008. Con l’avvicinarsi dei Giochi aumentano tuttavia anche gli appelli al boicottaggio, per contestare la repressione della minoranza uigura nello Xinjiang e la stretta autoritaria su Hong Kong.
Ecco quindi l’ennesimo impegno preso dalla Cina in senso umanitario. Il ministro degli Esteri e consigliere di Stato, Wang Yi, ne ha fatto uno dei punti salienti della conferenza stampa tenuta martedì 8 marzo in occasione dell’annuale seduta planaria dell’Assemblea nazionale del popolo, l’organismo legislativo cinese, l’appuntamento primaverile che assieme ai Plenum del Partito comunista, solitamente in autunno, scandisce il ritmo della politica cinese. E dal CIO è arrivata un’accoglienza entusiastica alla proposta. Forse un po’ troppo entusiastica, tanto da provocare la reazione giapponese, spiazzata dall’annuncio del presidente Thomas Bach delle forniture cinesi di vaccini per gli atleti attesi a Tokyo questa estate. Per il responsabile della politica cinese le risposte alle domande dei giornalisti sono state occasione per rilanciare l’immagine del suo Paese quale attore responsabile nella lotta contro il Sars-Cov2.
È la diplomazia del vaccino, evoluzione della campagna di soft power avviata da Pechino in una rimodulazione in chiave sanitaria della Via della Seta, adattando all’era del Covid l’idea della Belt and Road Initiative (BRI), il mastodontico progetto infrastrutturale e commerciale lanciato nel 2013 dal presidente Xi Jinping.
Come già con la fornitura di mascherine e dispositivi di protezione personale nella prima fase della pandemia, la Cina ha deciso di fare leva sull’aiuto ad altri Paesi per allontanare da sé la sfiducia generata nell’iniziale gestione del Covid-19.
“Tratteremo il vaccino come un bene pubblico globale”, ha assicurato il presidente Xi Jinping. Perciò, sin dallo scorso maggio i messaggi rivolti al mondo intero hanno battuto su questo tasto. L’efficacia non può però essere trascurata, e i dati in tal senso sono spesso parziali: il CoronaVac sviluppato da Sinovac, ad esempio, ha un’efficacia del 91% per la casa farmaceutica, ma in Brasile gli esami hanno dato come risultato soltanto un 50,8% (benché sia il 100% sui casi gravi).
Il passo successivo della campagna di immagine sarà istituire centri di vaccinazione regionali nei Paesi in cui le condizioni lo consentono per somministrare vaccini Made in China ai propri cittadini provenienti da nazioni limitrofe, ha aggiunto Wang Yi nel sottolineare gli aiuti gratuiti forniti a 69 Paesi in via di sviluppo e le esportazioni di propri vaccini in 43 nazioni.
Pechino si sta ritagliando così un ruolo centrale in un mercato che secondo un recente studio di Credit Suisse rilanciato da MF-Milano Finanza, nel 2021 varrà tra i 9 e i 14 miliardi di dollari. Stando alle analisi dell’Associated Press sono circa 500 milioni le dosi di vaccino ordinate all’estero dalla Cina. Dieci volte il numero di dosi inoculate in casa, ferme attorno a quota 52 milioni. La campagna di somministrazione iniziata a luglio 2020 con le categorie più a rischio, come i medici, procede infatti a rilento. Il Paese ha scelto di dare priorità ai lavoratori nella sanità, nei trasporti e logistica di concentrarsi sulla fascia d’età 18-59 anni. Ora le autorità sanitarie spingono per un’accelerazione. Zhong Nanshan, pneumologo di fama internazionale per il ruolo nel contrasto all’epidemia di Sars nel 2003, ha fissato come obiettivo quello di immunizzare circa il 40% degli 1,4 miliardi di cinesi entro luglio. Tale traguardo richiederebbe tuttavia una svolta radicale, considerata l’attuale quota del 3,5% di cittadini vaccinati.
Tra le giustificazioni dei ritardi viene tirata in ballo la capacità dimostrata nel contenere il diffondersi della pandemia nel Paese, dove i casi sono ridotti al minimo. In pratica, stando ai sondaggi, la stragrande maggioranza dei cinesi, l’85%, è pronta a vaccinarsi, ma senza fretta. Al momento comunque la Cina può contare su cinque vaccini approvati. Ai due di Sinopharm e Sinovac si sono aggiunti a fine febbraio i via libera per quelli sviluppati da CanSino Biologics e Wuhan Institute of Biological Product, (altro affiliato Sinopharm). Da ultimo è arrivata luce verde per il farmaco sviluppato dalla Anhui Zhifei Longcom Biopharmaceutical, assieme all’Accademia cinese per le scienze. Complessivamente, quindi, la capacità produttiva entro fino anno dovrebbe attestarsi attorno a 2 miliardi di dosi.
In una recente intervista al Global Times, quotidiano che si fa spesso portavoce dei falchi dell’amministrazione cinese, il CEO di Sinovac Biotech, Yin Weidong, ha però annunciato di poter arrivare a quota 2 miliardi già entro giugno, tanto che per il tabloid, a fine anno la Repubblica popolare potrebbe portare la produzione a quasi 4 miliardi di dosi. Si tratterebbe di una capacità sufficiente a soddisfare il 40% della domanda globale di vaccini e di un traguardo fissato in precedenza dai cinesi soltanto alla fine del 2022.
Il sospetto nei governi occidentali è che la Repubblica Popolare intenda sfruttare la politica dei vaccini per aumentare la sua influenza internazionale. Accuse rigettate alla stregua di una visione di corto respiro dalla dirigenza comunista. Intanto, soltanto per restare alle ultime settimane, le autorità cinesi hanno promesso l’invio di 400mila dosi in Afghanistan. Altre 600mila dosi del CoronaVac, e 10mila di Sinopharm sono state donate alle Filippine, che ne ha ordinate 25 milioni.
Discorso analogo vale per l’Indonesia, con un ordine da 140 milioni di dosi, e dove il presidente Joko Widodo è stato il primo a ricevere la somministrazione. Tra le consegne delle ultime settimane figurano Messico, Cile, Colombia, Egitto, Thailandia, Sierra Leone.
Anche l’Europa è della partita, con la Serbia testa di ponte con circa 1,5 milioni di dosi. Soprattutto lo è Ungheria, primo Paese dell’Unione Europea a rivolgersi a Pechino e il cui premier, Viktor Orban, si è fatto immortalare in maglietta bianca e manica sollevata mentre riceveva l’iniezione.
Dove non arriva la diplomazia, la Cina usa mezzi più sottili e indiretti, sfruttando il prestigio dell’essere stata l’unica grande economia a crescere nel 2020. Trascorso un anno dall’introduzione del divieto di ingresso nel Paese per la maggior parte dei cittadini stranieri, Pechino ha deciso di allentare le procedure per ottenere il visto per lavoratori e lavoratrici stranieri che devono rientrare in Cina. L’unica condizione sarà, appunto, quella di essersi fatti somministrare uno dei vaccini prodotti nella Repubblica Popolare.
L’attivismo cinese rischia di avere conseguenze anche sui sempre più tesi rapporti nello stretto di Taiwan. La distribuzione di dosi Made in China potrebbe far deragliare i tentativi di Taipei tessere una propria rete diplomatica internazionale. Il timore è che la distribuzione dei farmaci possa essere usata come forma di pressione per isolare Taipei. Spia di questi timori, nell’aprile del 2020, un gruppo di senatori del Paraguay ha avanzato una mozione per sospendere il riconoscimento del governo di Taiwan e ristabilire rapporti diplomatici con la Repubblica popolare, sospesi dal 1957. Secondo l’Institute for National Defense and Security Research, la nuova strategia cinese può inoltre mettere a repentaglio la politica verso il Sud-Est asiatico varata nel 2016 a Taipei dall’amministrazione della Presidente Tsai Ing-wen, allontanando Paesi come le Filippine, il Myanmar, la Cambogia e il Laos, già nella sfera di influenza della BRI.
Considerazioni geopolitiche chiare anche in Europa. Non a caso, incontrando il 4 marzo il ministro italiano dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, il commissario UE al mercato interno, Thierry Breton, ha voluto ricordare che nel 2021 l’Unione Europea potrà produrre fino al 3 miliardi di dosi. Sommate ai 2,5 miliardi degli USA farebbe del blocco atlantico il principale approvvigionatore al mondo.
* L’autore è socio dell’associazione indipendente di giornalisti Lettera22