“In nome del popolo” (#AuNomDuPeuple) proclama Marine Le Pen alla fine dei suoi tweet e dei suoi post; ed effettivamente, sui social la leader del Front National è la candidata più seguita, con circa 1,3 milioni di follower su Twitter e altrettanti like su Facebook. François Fillon, Emmanuel Macron e Benoît Hamon, suoi rivali principali, non arrivano nemmeno alla metà. Ma sarebbe errato pensare a Marine Le Pen come a una scrittrice compulsiva di messaggi, o come una produttrice di contenuti controversi, magari razzisti o offensivi, capaci di scatenare i suoi tifosi. Al contrario: i social network sono parte fondamentale della lunga e riuscita strategia di “umanizzazione” della Le Pen.
“Mio padre era il diavolo”, riconosce Marine nella sua autobiografia prodotta per la campagna elettorale. Il libro si apre con il racconto dell’attentato subito dalla famiglia Le Pen nel 1976, quando mani ignote piazzarono 20 kg di dinamite contro l’abitazione di Jean-Marie, all’epoca capo di una formazione vicina ad ambienti paramilitari filofascisti ed eversivi. Non essere più, per nessuno, “il diavolo” è l’obiettivo di Marine Le Pen, coadiuvata dal suo spin doctordi assoluta fiducia (e recentemente promosso alla testa del partito) Florian Philippot.
Quindi, i profili social della candidata sono seri e professionali. Vengono riportati gli appuntamenti alla radio e alla tv, pubblicati alcuni virgolettati estratti dai suoi comizi, illustrati incontri con le categorie economiche e sociali. Niente botta e risposta con altri politici, niente sparate di alcun tipo sull’attualità: di questo se ne occupano Philippot e una schiera di profili militanti collegati, che si tengono però lontani dalla fasciosfera, la ricca galassia dell’estrema destra francese sul web con cui flirtavano un tempo. Il loro bersaglio è Emmanuel Macron, il candidato indipendente di centrosinistra, per di più europeista senza imbarazzi, percepito come l’avversario più pericoloso: tuttavia, almeno dal punto di vista della comunicazione online, l’ex primo della classe a Sciences Po e énarqueMacron risulta davvero poco empatico.
Per evitare che la scelta della professionalità finisca per generare freddezza lo staff di Marine Le Pen usa vari accorgimenti: nelle foto la candidata è sorridente, a contatto con persone che la guardano con attenzione, o che lei ascolta, tocca o abbraccia (mentre la dimensione fisica è del tutto assente dai profili di Macron). Si usano tante emoji: la bandiera francese spesso e volentieri, la telecamera se c’è il link di un video, il maialino se siamo a una fiera di agricoltori… E infine, lo stimma “Le Pen” scompare con un gioco di prestigio: la candidata e tutti i profili collegati usano esclusivamente il “brand” Marine – o la versione hashtag #MLP – che cancella il nome di famiglia. Un artificio che può far sorridere, ma che utilizzato quotidianamente, per anni, in centinaia di contenuti online, ha fatto breccia nell’opinione pubblica francese.
Chi non rinuncia alla sua immagine poco canonica è Geert Wilders, il candidato di punta del PVV, il partito xenofobo e antieuropeo dato per favorito dai sondaggi alle elezioni olandesi. L’account Twitter di Wilders è seguito da quasi 800mila persone, un record se pensiamo che l’uomo non ha mai ricoperto incarichi istituzionali e che i Paesi Bassi hanno solo 17 milioni di abitanti. Nella foto di testata troneggia a caratteri cubitali STOP ISLAM (su Facebook, sempre in stampatello, “l’Olanda torni nostra”) accompagnato dagli occhi penetranti e dal taglio di capelli inconfondibile del candidato.
In superficie, la comunicazione di Wilders è molto diversa da quella della Le Pen. Mentre i profili di Marine sono nelle mani di professionisti scrupolosi, Wilders non è seguito da fotografi personali, produce meno contenuti (spesso link ad altri media che hanno parlato di lui o di terrorismo islamico) ma interviene anche di persona e senza seguire un copione. Gli capita di scontrarsi con chi parla male di lui: “che se ne torni in Turchia, l’Olanda non gli appartiene”, al pensatore turco Kunahan Kuzu che lo paragona a Hitler. E gli capita di usare l’umorismo: “altro che Christen-Democratisch Appèl – twitta riferendosi al CDA, Appello Cristiano Democratico, partito di centrodestra accusato di essere troppo morbido con i rifugiati – questi sono Christenen Dienen Allah (cristiani che servono Allah)”. L’osservatorio Tweet Kamer 2017 certifica che i messaggi di Wilders sono letti e condivisi in una proporzione almeno tripla o quadrupla rispetto a tutti gli altri politici olandesi.
Mentre Wilders va al sodo, la religione è tabù nella comunicazione di Marine Le Pen. Probabilmente, la differenza di approccio si spiega con le differenti esigenze elettorali dei due paesi: in Olanda vige il proporzionale, e perché il PVV risulti il partito più votato basterà poco più del 20% dei voti. Aggressività e sfrontatezza sono le armi giuste con cui Wilders può mobilitare tutti i suoi – considerando poi che i musulmani, bersaglio della sua propaganda, sono solo il 4% della popolazione olandese. La Le Pen ha davanti a se un sistema a doppio turno: al ballottaggio dovrà uscire dal suo recinto e conquistare più del 50% dei voti. Le regionali di due anni fa, con lo stesso sistema, l’hanno scottata: i candidati del Front National, lei inclusa, sono andati molto bene al primo turno ma hanno sempre perso al secondo, quando i voti si sono sommati quasi tutti contro di loro. Inoltre in Francia vivono più di sei milioni di musulmani (circa il 10% della popolazione), e il loro comportamento è stato decisivo alle scorse presidenziali nella sconfitta di misura di Nicolas Sarkozy contro François Hollande, votato in massa nelle banlieue delle grandi città.
Per questo motivo la comunicazione di Marine è tutta tesa a sottolineare alcuni concetti-base, il più possibile inclusivi per gli elettori: la necessità di difendere la nazione; il valore dell’essere francesi; l’importanza della comunità. Chi li condivide è un “patriota”. Sono tre le minacce che impediscono alla Francia di risollevarsi, nell’ordine: l’Unione Europea, la globalizzazione e i trattati internazionali, il governo socialista. Qui, il “riprendiamoci la nostra patria!” resta parafrasato, anche se evidente.
Geert Wilders, riecheggiando la campagna pro-Brexit, mette invece in bella vista sul suo programma parole d’ordine come “basta rifugiati”, “basta immigrati islamici”, “basta soldi a Bruxelles e in Africa”, “via dalla UE”, “il nostro paese torni nostro”. Lo imita parola per parola Frauke Petry, la 41enne leader di Alternative fuer Deutschland che ricalca con meno successo la propaganda dell’olandese.
Frauke Petry è dei tre l’allieva più diligente delle tecniche social di Donald Trump. Il suo profilo Twitter per ora resta snobbato (solo 70mila follower), ma vi abbondano i commenti personali, le accuse di corruzione e di elitismo verso gli altri candidati e di fake news ai media, le frasi semplici, gli attacchi a tutto campo. Wilders usa a sua volta questi strumenti, ma con più parsimonia e meno scientificità, risultando forse per questo più autentico. D’altronde, gli olandesi paiono così stanchi del loro sistema partitico che nei dieci giorni in cui la campagna di Wilders è stata sospesa – si è scoperto due settimane fa che i poliziotti della sua scorta rivendevano informazioni riservate – il PVV è continuato a crescere nei sondaggi. Non è così per la Petry, molto indietro rispetto alla popolarità di Angela Merkel o Martin Schulz.
“Siate forti, siate determinati, cioè siate francesi”, martella Marine Le Pen nei suoi comizi. E rivela così uno degli aspetti decisivi della sua offerta e della sua strategia comunicativa, comune ad altri soggetti che in altre zone d’Europa e del mondo hanno scalato sistemi politici da cui erano ai margini. L’orgoglio della vita sociale e civile, e della appartenenza, da ritrovare: il riferimento è a un passato idealizzato di cui rimane qualche briciola paragonato a un presente considerato dalla maggioranza squallido, rovinato da forze ostili, ingiusto.
“Rimettere in sesto la Francia” era stato lo slogan vincente di François Hollande nel 2012; oggi, Marine propone di “Rimettere in ordine la Francia”. Un paragone che può soddisfare i più cinici, e chi pensa che i “nuovi” partiti europei siano in fondo uguali ai “vecchi”. Ma che lascia l’amaro in bocca quando, di quella vecchia politica, si vanno a cercare le responsabilità.