La situazione politica nella Francia odierna viene spesso qualificata come “crisi democratica”. L’adozione della riforma del sistema pensionistico, a metà aprile, ha suscitato una fortissima opposizione, sia di principio che sulla forma. Il ricorso alla fiducia per fare passare il testo all’Assemblea Nazionale è stato percepito come una forzatura. Questa situazione ha provocato una forte polarizzazione fra un Presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, che tira dritto rivendicando anche l’impopolarità delle riforme, e un’opposizione diffusa caratterizzata dall’unione sindacale che ha organizzato una contestazione continuativa.
L’invecchiamento della popolazione e i cambiamenti demografici costituiscono la ratio della riforma delle pensioni, secondo i fautori. La destra aveva sempre difeso questa visione ed Emmanuel Macron ne aveva fatto un punto importante delle sue campagne elettorali sia nel 2017 che nel 2022. Spinto dalla propria volontà, Macron ha portato avanti la riforma. Ma questa forma di decisionismo ha provocato il dissenso delle parti sociali e accentua la polarizzazione contro la figura del Presidente.
Dopo la riforma costituzionale del 2000, la figura presidenziale in Francia sembra aver acquisito un peso funzionale ulteriore, esautorando in larga parte Primo Ministro e ministri per raggruppare le mansioni essenziali, anche di politica interna, intorno al gabinetto presidenziale. Si tratta di una forzatura non prevista dalla Costituzione della V Repubblica e che pone due tipi di problemi. Nel contesto di globalizzazione e forte fluidità internazionale, le capacità di governance nazionali sembrano spesso limitate, e questo avviene con una Francia che ha difficoltà ad organizzare una forma di influenza strategica. Inoltre, va registrata la richiesta crescente da parte della società di forme di esercizio di governo partecipative e aperte. Può risultare paradossale per un Paese di 68 milioni di abitanti che difficilmente può adoperare sistemi di democrazia diretta di tipo svizzero, ma questo dato pone con forza la questione dell’inclusività della democrazia rappresentativa in Francia.
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È ovvio che in questo contesto l’apparente crescita del potere presidenziale fa a pugni con una tendenza più parlamentare che viene spesso invocata, anche dallo stesso Presidente in carica. Da lì proviene gran parte dell’analisi di “crisi democratica”, ovvero sia di percezione di uno scarto fra le attese democratiche e l’attuale pratica politico-istituzionale. La scelta di Emmanuel Macron può spiegarsi come una scommessa politica: il Presidente pensa di saltare un’altra volta l’ostacolo, fiducioso che poi il futuro corso degli eventi farà evaporare il malumore e gli permetterà di proseguire.
Inoltre, per la prima volta dalla riforma del 2000 la Francia ha un Presidente eletto per un secondo mandato, il che significa anche che non potrà concorrere per una terza volta consecutiva. Macron si sente quindi libero di lavorare per la sua eredità politica, ma la cosa potrebbe anche rappresentare un problema. Il Presidente non deve preoccuparsi della popolarità delle sue scelte delle misure in vista delle prossime elezioni, a cui non parteciperà e dove non sembra neanche intenzionato a promuovere un “delfino”. Ma la chiusura, anche temporanea, dello spazio politico macroniano offre una prateria alle opposizioni che possono, Marine Le Pen in testa, cavalcare l’onda degli scontenti.
Va rilevato anche come lo “stile Macron” abbia effetti discutibili in politica estera. Certamente Emmanuel Macron dopo le elezioni del 2017 godeva di un capitale politico al livello europeo che non ha saputo sfruttare. Anche nel contesto diplomatico, ha voluto imporre una propria visione riformista pensata come trascinatrice. La promozione del concetto di “autonomia strategica europea” ne fornisce un buon esempio. Il tema apparve nel contesto della presidenza Chirac (1995-2007) ma è con Emmanuel Macron che conoscerà una particolare fortuna. Già nella conferenza degli ambasciatori del settembre 2018, il neopresidente ne fa un punto centrale della visione geopolitica francese. Dopo aver provato a instaurare un rapporto privilegiato con Donald Trump nel 2017, l’Eliseo si è interrogato sulla solidità dell’Alleanza Atlantica e ha cercato di definire un concetto di sicurezza europea complementare se non alternativo. L’idea è stata accolta con relativa prudenza da parte degli alleati europei, preoccupati dall’evoluzione americana ma allo stesso tempo restii a rompere con la NATO e si è trasformata poi attraverso una serie di evoluzioni che ne hanno assicurato una certa tenuta.
La pandemia del 2020 ha messo in luce, soprattutto nel dibattito francese, la necessità di promuovere la capacità di produzione industriale autonome, anche per non dipendere dalla Cina. Se questa visione si applicata prima di tutto ai vaccini e ai dispositivi medicali, ha contribuito comunque ad alzare l’attenzione in Europa su un concetto di autonomia strategica intesa come difesa del sistema produttivo strategico: una forma di “sovranità tecnologica” anche lontana dal concetto di difesa europea autonoma lanciato da Emmanuel Macron nel 2018. Ci sarà poi una specie di fusione fra produzioni civili e militari per rinforzare questa politica di “autonomia strategica” prettamente industriale.
L’arrivo di Joe Biden alla presidenza americana alla fine del 2020 e il rinnovato ruolo di garante della sicurezza militare europea giocato dagli USA nel contesto dell’invasione russa dell’Ucraina hanno finito per rafforzare il consenso intorno alla visione di un’autonomia “industriale”, mettendo in soffitta le velleità di difesa autonoma. Per certi versi possiamo dunque considerare che la Francia abbia fatto da apripista, ma ha dovuto poi constatare che un certo accordo internazionale si sia raggiunto solo su una versione diversa del concetto inziale.
Tutto questo permette di illustrare vari punti. Il primo è che la Francia ha delle enormi difficoltà a trascinare politicamente il resto dell’Unione Europea. Per certi versi ciò è fisiologico, in quanto la Francia appare oggi come un Paese piuttosto singolare nel contesto della UE: è l’unica a possedere l’arma atomica, ma anche a pensare a una strategia veramente globale, quello che molti giudicano come “fare a pugni nella categoria superiore”, una categoria a cui la Francia non apparterrebbe in base a molti altri criteri. Gli altri Paesi membri dell’Unione la pensano infatti diversamente e non condividono questo approccio: si sentono spesso urtati da una certa irruenza francese, ed è quindi normale che la Francia abbia difficoltà a costruire consenso, anche perché non sembra portata a inseguire i necessari compromessi europei. Anche se la visioni e le analisi francesi possono spesso apparire come fondate, Parigi fatica a trasformarle in agenda comune e condivisa.
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Su questo dato di fondo si inserisce anche il personale stile di un Emmanuel Macron che, in politica estera come in politica interna, tende a concepirsi come portatore di una visione riformista che deve trionfare per la sua giustezza, senza però troppo badare alle suscettibilità diplomatiche, ma anche alle virtù del silenzio e del tempo. Da qui, ad esempio, l’episodio infelice delle interviste rilasciate al ritorno della recente visita in Cina dove Macron si lascia andare a commenti che, come spesso gli accade, rivendicano un’inossidabile coerenza con le posizioni già espresse in passato, esumando la versione “trumpiana” dell’autonomia strategica europea, quella della difesa. L’effetto è fuorviante, perché suscita la preoccupazione se non l’ira di numerosi alleati: diventa controproducente per la formulazione della politica francese in Europa, come se Emmanuel Macron fosse un “anti-diplomatico”.
Esiste quindi un nesso rilevante fra la politica interna ed estera francese, quello di una prassi presidenziale che intende imporre “razionalmente” una forma di “riformismo”, pensando che poi si riuscirà a produrre un effetto-trascinamento. Nel caso in cui i pianeti si allineino, funziona, ma la maggior parte delle volte questo comportamento rende la posizione francese urticante per quasi tutti i membri dell’Unione. Ed è un vero peccato, sia perché poi le analisi francesi poggiano su una serie di elementi tutt’altro che imaginari, anche quando cercano una via europea nel contesto globale, ma anche perché l’approccio francese rappresenta un fattore spesso bloccante nel contesto dell’Unione, provocando molte diffidenze.
Proprio nello scenario nazionale, sempre più pluralista, il contesto dell’Unione a 27, che poi verrà ulteriormente allargata, richiede un approccio più partecipativo, conciliante e aperto a compromessi. Si tratterebbe di una notevole evoluzione per una diplomazia francese troppo spesso incline a rappresentare gli interessi della Francia, e quindi della presidenza della Repubblica, senza mettere la funzione mediatrice al primo posto. Ed è un discorso che va anche allargato a tutti governi dell’UE tentati da forme di ripiego nazionalistico, come nel caso dell’attuale governo italiano.
Una tale evoluzione di stile e di principio sarebbe la condizione sia per una maggiore influenza francese che per una rinforzata capacità dell’Unione nel contesto internazionale. Come se l’efficacia della “strategia” francese fosse condizionata dalla capacità della Francia di imparare a superare la propria postura tradizionale: paradosso non da poco su cui, comunque, anche tutti gli altri membri dell’Unione dovrebbero meditare.