In totale, Giordania, Libano e Turchia stanno ospitando 4,4 milioni di profughi siriani: data la situazione della Siria, al sesto anno di guerra, questa presenza è destinata ad assumere almeno in parte un carattere strutturale. I paesi ospitanti, già istituzionalmente fragili, manifestano in misura spesso macroscopica gli stessi indicatori – disoccupazione, inflazione, diseguaglianze, corruzione – che sprigionarono nella regione le proteste popolari del 2010-11.
L’impatto socio-economico a lungo termine dei rifugiati è quindi una potenziale miccia, in assenza di un’adeguata gestione del fenomeno, per la coesione interna, per la stessa stabilità regionale e, di riflesso, europea. E non va dimenticato che il mito della solidarietà europea sembra davvero essere tramontato proprio sulla gestione di migranti e rifugiati, nella quale molti membri della UE hanno perseguito senza remore interessi puramente nazionali. È appunto la guerra di Siria a ingrossare i flussi migratori nel Mediterraneo. Le partenze dalla Libia, l’altro grande teatro di conflitto, sono quasi esclusivamente composte da africani della regione sub-sahariana, non da libici – anche se naturalmente è il caos politico-militare a rendere i confini quasi del tutto porosi.
I numeri, le cui cifre rivelano solo le presenze registrate dall’agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR), sono di una chiarezza immediata. In Giordania, paese di 6 milioni di abitanti, si trovano 2,7 milioni di rifugiati (tra questi almeno 700 mila siriani), mentre in Libano, paese di 4,5 milioni di abitanti, i profughi sono 1 milione e mezzo (per due terzi siriani). La Giordania ospitava già oltre due milioni di palestinesi e 55 mila iracheni; il Libano, 450 mila palestinesi e 30 mila iracheni. Ben più grande e popolosa, la Turchia accoglie 2,5 milioni di rifugiati. C’è una folta presenza di profughi anche in Egitto (più di 260 mila): tra questi, 110 mila sono siriani. In Iraq, i rifugiati siriani sono oltre 230 mila.
Giordania e Libano, già paesi-cuscinetto e perciò assai vulnerabili, sono gli stati proporzionalmente più toccati dalla crisi dei rifugiati, e subiscono la pressione maggiore: sociale, economica e ambientale Molte sono le variabili dell’impatto: sbalzi demografici, welfare (quindi bilancio pubblico), mercato del lavoro, housing, istruzione e sanità, risorse idriche, sicurezza e ordine pubblico.
Secondo , i conflitti in Siria e in Iraq hanno provocato, nel 2013, una contrazione dell’economia della Giordania pari all’1% del pil, mentre l’inflazione, spinta dalla domanda dei profughi, ha raggiunto nel 2014 il 4,6%. Anche il Libano ha visto scendere il pil (dal +8% del 2010 al +2% del 2014), in parte a causa della crisi siriana, che ha penalizzato investimenti diretti esteri e turismo. La presenza dei rifugiati sta anche mettendo in difficoltà la tenuta del settore sanitario sia in Giordania che in Libano. Analogo l’impatto sul sistema scolastico: circa metà dei bambini siriani fuggiti in territorio giordano e libanese frequenta le scuole locali con accesso gratuito, e nelle classi ormai sovraffollate si registra un peggioramento della qualità dell’insegnamento. Pertanto, il rischio di medio-lungo periodo è che si produca un “livellamento verso il basso” nell’intero sistema di assistenza pubblica.
Inoltre, l’endemica crisi idrica della Giordania si sta ulteriormente aggravando. Secondo Oxfam più di 3mila metri cubi d’acqua per usi alimentari e domestici vengono destinati ogni giorno al grande campo profughi di Zaatari, che oggi accoglie quasi 80 mila siriani, provenienti soprattutto dalla vicina Dera’a, dove la rivolta anti-Assad partì nel 2011. La città giordana di Mafraq, nella cui provincia sorge Zaatari, ha così visto ridursi l’approvvigionamento idrico da due a una volta a settimana, mentre gli agricoltori locali denunciano danni da siccità alle colture di ulivi. Le famiglie dell’area sono così costrette a ricorrere alle taniche d’acqua, spendendo di più.
C’è poi un aspetto significativo che riguarda la logistica dei rifugiati in Medio Oriente e Nord Africa: solo il 10% di essi vive in campi appositi. Libano, Egitto, Libia, Tunisia e Marocco non prevedono campi ufficiali per i profughi: molti di essi vivono all’interno delle comunità locali. Da un lato, ciò può facilitare l’integrazione nel tessuto sociale di chi fugge dai conflitti (specie se si condivide cultura, lingua e religione), ma dall’altro, è un ulteriore fattore di pressione sulle società ospitanti. Al 2014, solo 6 mila rifugiati siriani in Giordania lavoravano regolarmente, mentre la stima degli occupati in nero è di 160 mila e la disoccupazione giovanile tra i giordani supera il 28% (ILO, 2015).
In Giordania e in Libano, a fronte del numero crescente di arrivi, aumenta la fatica e anche la tensione fra chi accoglie, così come diviene più forte la preoccupazione per le possibili infiltrazioni jihadiste – specie in Giordania: il regno hashemita è stato teatro nel 2016 di un’escalation di attacchi terroristici. Dato il legame storico fra siriani e libanesi, nonché il coinvolgimento militare diretto di Hezbollah in Siria, è in Libano che i rifugiati siriani vengono guardati come potenziali “attori politici”, specie nelle aree di confine a prevalenza sciita, come la Bekaa (roccaforte dei miliziani di Nasrallah), in cui spicca la condizione della città di ‘Arsal a nordest: l’approccio securitario è il prescelto dalle autorità locali, con i conseguenti rischi di conflitti armati e ulteriore radicalizzazione.
A differenza della Turchia, che ha dichiarato di volere naturalizzare siriani e iracheni con qualifiche professionali, è improbabile che Amman e soprattutto Beirut concedano la cittadinanza ai rifugiati dalla Siria, tranne che in casi isolati. Se gli equilibri inter-comunitari del Libano o quelli politici della Giordania (per esempio, i consensi nei confronti della Fratellanza Musulmana o dei salafiti) fossero alterati, le conseguenze si farebbero sentire sulla struttura sociale e di potere interna.
Ma non tutti gli stati mediorientali ospitano ufficialmente rifugiati sul loro territorio. Alcuni hanno reagito all’emergenza con molta riluttanza: gli stati arabi del Golfo hanno privilegiato donazioni finanziarie e progetti in paesi terzi rispetto all’accoglienza diretta – un “disinteresse” che ha attirato varie critiche. Le monarchie del Golfo non hanno siglato la Convenzione ONU sui rifugiati del 1951 e non prevedono, quindi, tale status – d’altra parte, però, neanche Libano e Giordania la firmarono ma si sono assunti, come detto, una grande responsabilità in materia.
Al di là dell’ufficialità, esistono comunque situazioni informali specifiche che riguardano un numero di persone difficile da stimare. Prima della guerra di Siria, 100 mila siriani vivevano in Arabia Saudita: oggi sarebbero 500 mila, soprattutto congiunti di persone che già lavoravano nel regno, data la difficoltà nell’ottenere il visto d’ingresso. Nel corso del Leaders’ Summit on Refugees dell’ONU, svoltosi al Palazzo di Vetro lo scorso 22 settembre, il Ministro della Cooperazione Internazionale degli Emirati Arabi Uniti si è impegnato a far entrare nella federazione 15 mila siriani nei prossimi cinque anni: dall’inizio del conflitto, gli EAU hanno già accolto 123 mila persone provenienti dalla Siria e finanziano campi profughi in Giordania, Kurdistan iracheno, oltre che in Grecia. Nel 2016, il Kuwait ha firmato con la Turchia un accordo da 20 milioni di dollari per servizi educativi e di sanità rivolti ai siriani presenti in suolo turco.
Quella della Yemen è, se possibile, una storia ancora peggiore. Gli yemeniti sono spesso troppo poveri per potersi pagare un viaggio fuori dal paese: fa riflettere che le coste dell’Hadhramaut (in cui Al-Qaeda controllava il capoluogo Mukalla fino all’aprile 2016), risparmiate dal conflitto insorti-governo, ospitino tre centri per rifugiati (nel solo campo profughi di Kharaz, vicino ad Aden, vivono circa 18 mila persone). Chi riesce a scappare via mare raggiunge il Corno d’Africa, come hanno fatto dal 2015 circa 200 mila persone partite dallo Yemen di cui quasi 20 mila a Gibuti(il campo profughi Markazi presso Obock) e gli altri in Somaliland, stato non riconosciuto dalla comunità internazionale e privo di strutture. La frontiera con l’Arabia Saudita è divenuta sempre più impenetrabile, a causa della guerriglia degli insorti sciiti yemeniti, accusati di bloccare il passaggio dei profughi presso il valico di Haradh: 40 mila yemeniti sarebbero finora riusciti a raggiungere il territorio saudita. Eppure, lo Yemen sconvolto dalla guerra civile continua a essere un paese di immigrazione: secondo l’ONU, almeno 106 mila etiopi e somali sono sbarcati sulle sue coste nel 2016, più verosimilmente alla ricerca di un transito (improbabile) verso il Golfo.
Il fenomeno dei rifugiati del Medio Oriente, dunque, non ha certo influito soltanto sulla società e sulla politica europea. Oltre ad aver avuto ripercussioni pesanti sui paesi ospitanti che confinano con la Siria, è destinato a produrre effetti nel medio-lungo periodo sia in questi che in tutti gli altri stati della regione, anche in quelli che non si sono contraddistinti per le politiche di accoglienza. Forse generando nuove aree di crisi e dinamiche transnazionali di insicurezza.