La corsa alla decarbonizzazione: potere e consenso verso un mondo a emissioni zero

La politica internazionale si basa in prevalenza su dinamiche competitive. Nel corso della storia, il confronto, talora conflitto, tra attori internazionali è stato la causa di immani catastrofi. Senza competizione e senza il tentativo da parte degli individui e dei diversi aggregati sociali di primeggiare, però, l’umanità non avrebbe conosciuto il progresso. Dai lasciti artistici del Rinascimento italiano ai brevetti scaturiti dalla conquista della Luna, infatti, la vicenda umana è costellata di esempi nei quali il confronto/conflitto tra aggregati sociali ha spostato la frontiera della conoscenza, aprendo le porte di mondi nuovi.

Sarà così anche nel caso del traguardo delle emissioni zero? Dietro la narrativa sulla decarbonizzazione, quali ragioni potrebbero muovere Europa, Stati Uniti e Cina, protagonisti di quella vicenda? Insomma, è davvero la competizione internazionale a orientare le politiche ‘verdi’ di questi Paesi, oppure i principali fattori propulsivi di breve termine potrebbero rispondere a considerazioni di natura domestica?

 

Questi tre attori, pur con modalità differenti, hanno dichiarato o lasciato intendere di volere guidare la corsa verso le emissioni zero. Fin qui, nulla di nuovo rispetto a quanto ci si aspetterebbe da dinamiche tra grandi potenze. Come la corsa al petrolio raccontata da Daniel Yergin, la corsa agli armamenti o quella allo spazio, il confronto tra i protagonisti della politica internazionale, ora, sembra essersi spostato sul terreno della definitiva dismissione dei combustibili fossili. A seconda che si reputasse la Cina incapace di guidare il sistema internazionale oppure si credesse nel paradigma sul declino americano, la tentazione di parteggiare per Washington o Pechino appare allettante. Ragionare in termini di un nuovo bipolarismo o di egemonia, inoltre, consente di eludere la questione relativa al ruolo dell’Unione Europea che, a causa della natura composita dell’attore e dei processi decisionali che la caratterizzano, talora risulta difficile da collocare nelle dinamiche internazionali. Nonostante le carenze note del quadro europeo, però, a oggi, proprio la Commissione è la sola ad avere esplicitato una strategia di decarbonizzazione e posto le basi regolatorie del processo.

Ragionare prevalentemente in termini di competizione internazionale verso la decarbonizzazione consente in particolare di osservare il dilemma sulla gestione collettiva del problema climatico, il consumo di energia e la distribuzione delle fonti da un’angolazione maggiormente rassicurante. Li rende problemi risolvibili. È implicito, infatti, che chi prevarrà nella competizione energetica, tendenzialmente, deterrà anche tecnologie capaci di guidare il mondo fuori dal ‘pantano’ del riscaldamento climatico e che queste ultime saranno sufficienti da sole a risolvere la questione relativa all’uso disfunzionale dell’energia. Si tratta in sostanza di incapsulare la risoluzione di un problema di beni pubblici, dove l’esito è in genere il fallimento, in uno di lotta per la leadership globale e ricerca del progresso. L’eventualità piuttosto concreta che, nell’indifferenza generale, si consumi una catastrofe determinata da varie forme di free-riding sarebbe così sostituita da quella più nobile – ma incerta – di una sfida epocale in cui l’ordine trionferà sul caos e l’uomo sulla natura.

Che la decarbonizzazione implichi una dimensione competitiva è indubbio, così come non mancano ambiti, magari più tecnici e meno evidenti, nei quali la cooperazione internazionale in materia di energia ha luogo. Né l’una né l’altra, però, esauriscono la spiegazione del problema. Entrambe presuppongono un’enfasi per la dimensione internazionale della politica e una progettualità di lungo termine in palese contraddizione con i comportamenti ai quali i leader mondiali ci hanno abituato, sempre più vincolati a logiche di legittimazione interna e di ricerca del consenso attraverso soluzioni operative a impatto immediato.  Muovendo da questa considerazione sulla rilevanza delle priorità domestiche nella definizione delle politiche di Europa, Cina e Stati Uniti, è possibile dunque spiegare la ‘corsa’ alla decarbonizzazione da una prospettiva meno battuta.

Per quanto riguarda l’Europa, l’eventualità che Bruxelles assuma la leadership internazionale del processo di decarbonizzazione ha principalmente due implicazioni di carattere interno. Internazionalizzare la sfida verde, in primo luogo, permetterebbe di definire sia il ritmo e le modalità della transazione all’interno dell’UE, sia di costruire una narrativa sul ruolo della Commissione da coach/motivatore verso sfidanti esterni, rispetto a quello, sgraditissimo e disfunzionale, di arbitro/censore nei confronti degli Stati membri. Nell’immediato, la ‘corsa’ verso la decarbonizzazione consentirebbe di neutralizzare talune istanze sovraniste e centrifughe presenti all’interno dell’Unione. Se poi la strategia di Bruxelles portasse verso qualche forma di primato rispetto a Stati Uniti e Cina – veniamo quindi alla seconda implicazione – esso legittimerebbe la leadership della Commissione, agevolando il rilancio del processo di integrazione, magari verso una conclusione positiva.

Nel caso degli Stati Uniti, dato il ruolo sistemico di Washington e la dialettica con Cina e Russia, è intuitivo leggere la strategia energetica del Paese in chiave di posizionamento esterno. Di contro, come hanno evidenziato i maggiori storici degli Stati Uniti, proprio l’agenda internazionale di Washington è stata dettata in prevalenza da considerazioni basate sulla ricerca del consenso. In un contesto dove la politica energetica è definita in prevalenza dagli apparati federali e dove gli Stati dell’Unione godono di notevole autonomia, quando Joe Biden afferma di voler guidare la transazione energetica l’obiettivo più prossimo sembra quello di sfidare i Repubblicani sul loro stesso terreno. Poiché la promessa di Trump di ‘rendere nuovamente grandi’ gli Stati Uniti attraverso politiche unilaterali ha minato la credibilità internazionale del Paese e messo in crisi le istituzioni interne, una risposta basata sul rilancio del ruolo degli USA come potenza in grado di guidare la transizione energetica, coagulando le risorse necessarie a evitare la catastrofe climatica, consentirebbe ai Democratici di prevalere nelle elezioni di metà mandato.

L’eventuale vittoria permetterà a Biden di godere della legittimità (e dei numeri, dato che ora il Senato è in parità) per rilanciare il modello liberale, sfidato dall’interno. La corsa alla decarbonizzazione non assicurerà il mantenimento del primato economico americano. Né il risultato né i tempi di realizzazione sono certi. Tuttavia, in un contesto nel quale il commercio internazionale è visto come funzionale al mantenimento del sistema politico e alla prosperità della nazione, impegnarsi in quella sfida potrebbe rilanciare alcuni valori fondativi della democrazia e, ancorandoli a un obiettivo vitale, a consolidarli.

Il caso cinese è il più oscuro. La tendenza di Pechino a non esplicitare le sue intenzioni e l’impenetrabilità di un sistema politico tuttora dominato dagli apparati di partito (unico) rendono assai complesso comprendere cosa si celi dietro la strategia di decarbonizzazione di Pechino.

Poiché la Cina rappresenta un ‘grande inquinatore’ (attualmente il più grande), un’ipotesi è che il Paese asiatico sfrutti indiscriminatamente i vantaggi derivanti dall’uso delle fonti fossili più reperibili ed economiche, balzando poi direttamente al livello di sviluppo tecnologico successivo. In questo modo, infatti, abbatterebbe i costi di rete per eventuali gasdotti e oleodotti destinati poi alla dismissione. Il grande tema che tuttavia la leadership cinese ha ribadito negli anni – e al quale sembra subordinata la sua strategia, anche nelle implicazioni neoimperialistiche – è quello dello sviluppo interno e della trasformazione della società cinese da una di ‘produttori’ a una di ‘consumatori’. In questa prospettiva l’eventuale corsa alla decarbonizzazione di Pechino va letta su due livelli, quello delle tecnologie e quello dei consumi. Rispetto alle prime, guidare il processo genererebbe una serie di vantaggi comparativi nel commercio internazionale e proventi reinvestibili per la crescita interna cinese. Viceversa, nel caso dei consumi, Pechino trarrà maggiori vantaggi se ottimizzerà il mix di fonti fossili, sfruttando il proclamato ‘diritto’ a inquinare nei confronti dell’Occidente.

Nel caso della Cina, quindi, più che prevalere sull’Occidente il vantaggio di arrivare per primi nello sviluppo di tecnologie ‘no carbon’ consisterebbe nel conquistare una buona porzione del mercato occidentale, sfruttando quella posizione per fare crescere il mercato interno e modificare i comportamenti di consumo della popolazione, anche sul piano energetico. Pur con i caveat di un regime semidittatoriale, la legittimità dell’esecutivo cinese dipende dalla sua capacità di generare sviluppo interno e, non diversamente da altre politiche, la decarbonizzazione ne rappresenta uno strumento.

Per concludere, chiunque prevalesse nella competizione in corso o qualunque forma di accomodamento tra grandi potenze emergerà in futuro, i payoff interni sulla cui scorta i diversi leader orienteranno le rispettive scelte avranno un ruolo primario nel determinare i costi diretti, indiretti e sociali della decarbonizzazione stessa.

 

 


La seconda parte di questa analisi

La terza parte di questa analisi

 

 

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