La conferenza di Londra sulla Somalia: un bilancio negativo

La conferenza internazionale sulla Somalia promossa dalla Gran Bretagna si è conclusa il 23 febbraio con molteplici manifestazioni di soddisfazione. Alle dichiarazioni di principio sulla necessità di intervenire in modo costruttivo nell’ennesima “crisi” somala, tuttavia, ha fatto seguito l’amara constatazione di un sostanziale fallimento.

Il rinnovato attivismo inglese sulla Somalia è motivato, piuttosto chiaramente, da forti interessi di ordine economico e di sicurezza. Questo è emerso con particolare chiarezza nel corso dei lavori preparatori della conferenza di Londra, e soprattutto nei colloqui a margine della stessa.

La Gran Bretagna persegue tre principali interessi nella regione. Il primo, di carattere più immediato, concerne la sicurezza e l’impatto economico della Somalia sui flussi mercantili nell’Oceano Indiano. Il fronte più urgente è quello della pirateria, con l’incremento dei costi che il fenomeno ha provocato sulle assicurazioni navali e sulla complessa gestione della protezione delle navi.

Il secondo obiettivo britannico è relativo alla duplice valenza del problema di sicurezza posto dalla situazione somala. Esiste infatti la concreta possibilità che le milizie islamiche dell’Al Shabaab divengano una struttura meglio organizzata, con veri legami internazionali che le permetterebbero di agire al di fuori dei confini della Somalia: e c’è una cospicua comunità somala sul suolo britannico.

Un terzo, ben più occulto, interesse perseguito da Londra riguarda invece la possibilità di definire accordi con l’autoproclamata entità regionale del Puntland: ciò al fine di rendere possibile lo sviluppo delle attività di prospezione petrolifera nello spazio di mare tra la Somalia e lo Yemen, dove si stima siano presenti ingenti quantità di petrolio.

Un’agenda dei lavori, quella di Londra, dettata quindi dalle esigenze economiche del governo di David Cameron assai più che da quelle umanitarie e di governance della Somalia.

Male interpretando – come è stato quasi sempre il caso in passato – la natura della crisi somala, lo svolgimento dei lavori della conferenza di Londra è stato dominato dal tema della sicurezza e dal ruolo delle milizie dell’Al Shabaab. La crisi somala e la sua pronunciata conflittualità, in buona sostanza, è stata attribuita alla presenza delle milizie islamiche. Trascurando il background sociale e politico del paese, e lasciando intendere in modo non troppo velato come la soluzione ai problemi locali sia quella militare. Di fatto, si tratta di una sorta di estensione della “guerra al terrorismo” iniziata nel 2001, come ha apertamente detto il Segretario di Stato americano Hillary Clinton.

Le milizie islamiche sono un fenomeno recente, che poco o nulla hanno a che vedere con la radici sociali della crisi somala. La disgregazione e la conflittualità sono iniziate nella seconda metà degli anni Ottanta, con la definitiva crisi del regime di Siad Barre. Le guerre e gli scontri hanno avuto quasi sempre una dimensione inter-clanica, e successivamente sono state dominate dal ruolo di un drappello di spietati e feroci warlord. Paradossalmente, tra il 2005 ed il 2006, furono proprio le Corti islamiche a riportare l’ordine a Mogadiscio. Un ordine basato sulla sharia, questo è vero, ma pur sempre un ordine che fece sparire dalle strade i taglieggiatori delle bande armate. È per questo che le Corti ebbero, nella fase iniziale, un largo sostegno popolare. Le milizie dell’Al Shabaab erano una minoranza integralista agli esordi del ruolo politico delle Corti, e hanno potuto crescere ed espandere il loro ruolo anche grazie alla chiusura della comunità internazionale verso la parte moderata delle Corti islamiche., che finì per essere estromessa. Tutto questo con il generoso contributo di denaro delle charities saudite e kuwaitiane, cui è addebitabile la responsabilità maggiore nella diffusione del radicalismo nella regione.

Colpisce, quindi, dopo vent’anni di assoluto inattivismo (della Gran Bretagna in primis), che questo sia stato l’approccio, poco lungimirante, della conferenza di Londra.

Tra i pochi passi concreti, è certamente da menzionare la decisione di non riconoscere ulteriormente la validità del rinnovo unilaterale del mandato del governo transitorio (Transitional Federal Government, TFG), che lo scorso febbraio del 2011 si era autonomamente rinnovato il mandato per altri tre anni (con il voto a favore di 431 su 445 membri del Parlamento). E’ stato così esteso in modo arbitrario il mandato che già nel 2009 fu prorogato in via eccezionale in occasione degli accordi di Gibuti.
È stato però stabilito che ad agosto l’attuale compagine istituzionale decadrà, per dare spazio ad un nuovo Parlamento che dovrà essere eletto dalla popolazione. Come si svolgeranno le elezioni, chi le garantirà e quando si terranno, resta tuttavia ancora da decidere.

A Londra non si è discusso direttamente della ricostruzione delle attività economiche in Somalia. Gli Stati Uniti hanno concesso un contributo di 64 milioni di dollari per aiuti umanitari, gli inglesi 51 milioni di sterline per l’assistenza ai profughi fuori confine, e i francesi garantito la continuità del programma di addestramento delle forze di sicurezza somale. E’ decisamente troppo poco per risollevare le sorti di un failed state.

Il contesto della discussione, in ogni caso, è stata viziato da un’attenzione quasi esclusivamente incentrata sulla situazione politica di Mogadiscio, ignorando le realtà autonome del Puntland e del Somaliland, sia nella gestione degli affari interni che dei rapporti internazionali.

A questo punto la palla passa alla Turchia, che ospiterà a giugno la prossima conferenza sulla Somalia, forte del suo impegno nel paese e del fondo di oltre 310 milioni di dollari che, a livello puramente nazionale, ha messo a disposizione.

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