La competizione tecnologica che l’Europa sta perdendo

È interessante analizzare il cambio di paradigma prodotto dall’intelligenza artificiale prendendo in considerazione come le principali potenze stiano raccogliendo la sfida tecnologica dell’IA nell’ambito della propria strategia di sicurezza nazionale. In un quadro da nuova guerra fredda che vede Stati Uniti e Cina opposti in una lotta per l’egemonia di questo nuovo settore, l’Unione Europea resta indietro. Il vecchio continente manca di dinamicità e di grandi imprese ad alta tecnologia. Soprattutto, investe poco in IA. Per risollevarsi, Bruxelles dovrà investire con più decisione su un modello di sviluppo etico delle nuove tecnologie, culturalmente compatibile con i propri valori.

Proprio nel campo della difesa, gli effetti dell’IA promettono di essere dirompenti, rivoluzionando il modo in cui i conflitti militari saranno combattuti e vinti. L’applicazione degli algoritmi, unita agli sviluppi nella robotica avanzata, sta già modificando i campi di battaglia, migliorando l’autonomia decisionale di molte apparecchiature belliche, dai veicoli aerei a quelli terrestri. Questi sviluppi stanno creando un contesto in cui l’elemento umano viene spinto ai margini delle zone di combattimento. E non è un caso che molti intellettuali e imprenditori, da Stephen Hawking a Elon Musk, si siano schierati apertamente contro l’utilizzo di macchine letali autonome (laws – Lethal Autonomous Weapons). Ma non solo: l’IA ha aperto nuovi fronti di scontro digitale fra le potenze, spostando il tema della sicurezza nazionale sul piano cyber delle relazioni uomo macchina, dove a contare sono i dati. La connettività legata all’Internet of Things permette nuove forme avanzate di spionaggio; e non è lontano il momento in cui sarà possibile attaccare preventivamente l’avversario e smantellarne le difese attraverso attacchi hacker mirati. Negli Stati Uniti, a inizio 2018, l’amministrazione Trump ha dato il via a una collaborazione con Google per migliorare i meccanismi di riconoscimento visivo dei propri droni: si tratta del progetto Maven, che il colosso di Mountain View ha però fatto sapere di non voler rinnovare quest’anno, dopo le proteste dei propri impiegati. Dalla Russia a Israele – fino a Stati minori come Singapore, i quali possono contare su un minor numero di effettivi militari – sono in molti a sfruttare l’opportunità di automatizzare la guerra.

 

LA TRASFORMAZIONE DELLE BASI DELLA POTENZA NAZIONALE. Ma la trasformazione è più ampia: lo sviluppo dell’IA influenzerà le basi della geopolitica internazionale a un livello più profondo della semplice struttura militare. Come ha sottolineato Michael Horowitz, l’IA non è una tecnologia monouso, ma un general enabler, simile alla macchina a vapore o alla scoperta dell’energia elettrica, con ricadute trasversali in vari settori economici. Secondo le stime di McKinsey, l’automazione porterà alla sostituzione di più di un terzo dei lavori attualmente esistenti entro il 2030, con importanti guadagni di produttività nel settore industriale e in quello dei servizi. La trasformazione economica non sarà semplice, con l’inevitabile informatizzazione dell’amministrazione e ristrutturazione dello stato sociale che essa comporterà.

L’implementazione di un numero crescente di tecnologie legate all’IA, con i suoi effetti diretti sulla crescita, andrà ad alterare le basi economiche della potenza nazionale, aumentando le diseguaglianze fra quei paesi in grado di abbracciare l’innovazione e i ritardatari. Per sua natura, l’IA è un settore dove esistono grandi vantaggi posizionali – in termini strategici il first-mover advantage. L’industrializzazione dell’intelligenza, infatti, non ha soltanto ricadute economiche immediate, ma tende anche ad accelerare il tasso di sviluppo dell’intero ecosistema tecnologico nazionale, innescando un circolo virtuoso di sviluppo che può scavare rapidamente un solco con altri paesi tecnologicamente arretrati. L’aumento della portata e velocità di connessione di molti dispositivi, attraverso innovazioni come il 5G, aumenterà esponenzialmente la capacità di raccogliere e analizzare nuovi dati da dare in pasto alle macchine. Resta la questione di chi controllerà le nuove strutture della connettività.

 

LA GEOGRAFIA DELLE NUOVE TECNOLOGIE. Data la centralità geopolitica delle nuove tecnologie, non è un caso si sia sviluppata una forte competizione fra le principali potenze. Come durante gli anni della corsa allo spazio durante la Guerra Fredda, la sfida tecnologica dell’IA ha subito assunto tinte nazionalistiche. Già nel settembre 2017, Il presidente russo Vladimir Putin ha profetizzato che chi diventerà leader in questo settore, “governerà il mondo”. Gli Stati Uniti d’America, culla della civiltà di internet e della ricerca in robotica, mantengono ancora un primato a livello globale in termini di capacità computazionale totale e di applicazioni della tecnologia orientate al settore del business. Nel solo 2017, hanno attratto più di 10 miliardi di dollari di venture capital nel settore dell’IA, sommati a finanziamenti pubblici e investimenti strategici delle grandi compagnie della Silicon Valley come Apple e Facebook. Tuttavia, questo sviluppo tecnologico non è trainato da un quadro strategico pubblico, ma da un modello di innovazione basato su un sostanziale laissez-faire in cui il settore dell’IA rimane scarsamente regolato e alle aziende private viene lasciata sostanziale autonomia decisionale. Questo garantisce un sistema economico dinamico, ma ha anche alcuni lati negativi, individuati da uno studio commissionato da Barack Obama al Science and Technology Policy Office della Casa Bianca nel 2016 che ha evidenziato la difficoltà dell’amministrazione a incanalare la ricerca in ia verso settori ritenuti strategici, come il militare, nonostante le sue numerose possibili applicazioni duali.

 

LA GUERRA FREDDA HI-TECH. A contendersi la leadership con gli Stati Uniti è la Cina che, a partire dal luglio 2017, ha dato il via a massicci investimenti attraverso un piano di sviluppo decennale per lo sviluppo dell’IA, mobilitando le proprie ingenti risorse per ottenere il primato nelle nuove tecnologie. I ritardi strutturali del colosso asiatico sono molti, a partire da un modello di sviluppo economico che negli anni passati ha investito poco sul contenuto tecnologico delle proprie esportazioni. Tuttavia, l’approccio centralizzato del governo della Repubblica popolare ha portato a risultati immediati, utilizzando le grandi aziende del settore – Weibo, Tencent e Alibaba – come vere e proprie estensioni della propria politica industriale. Già oggi, la Cina possiede il maggior numero di supercomputer fra primi 500 al mondo ed eccelle per numero di articoli scientifici pubblicati nell’ambito del deep learning. Pechino ambisce a diventare la superpotenza mondiale del settore entro il 2030, con un’industria legata all’ia del valore stimato di più di un miliardo di renminbi.

I rapidi progressi tecnologici della Cina hanno riacceso la competizione geopolitica con gli Stati Uniti, già in fermento per le promesse neoprotezioniste di Donald Trump. Di recente, la schermaglia si è concentrata sulla compagnia di telecomunicazioni cinese Huawei, accusata di spionaggio industriale e messa al bando dai paesi anglosassoni che fanno parte della rete d’intelligence dell’accordo multilaterale UK-USA.

 

L’AUTORITARISMO DIGITALE. Ma la competizione ha anche aspetti ideologici. Proprio con riferimento al modello di sviluppo tecnologico cinese, l’organizzazione non governativa Freedom House ha parlato di “autoritarismo digitale”, sottolineando come l’IA e l’analisi dei big data su scala massiccia abbiano consentito alla Repubblica popolare cinese di abbattere drasticamente i costi del proprio apparato repressivo. Dal 1994, il Grande Firewall di Pechino opera una censura preventiva sui contenuti internet ritenuti socialmente pericolosi. Lo sviluppo di algoritmi di analisi automatica e riconoscimento facciale ha esteso il sistema di sorveglianza a molti ambiti della vita fisica e digitale dei cittadini cinesi, trasformando il social network Weibo e l’app di messaggistica WeChat in meccanismi di controllo preventivo del dissenso.

A partire dal 2015, le autorità hanno anche cominciato a introdurre un sistema di credito sociale che, incrociando i dati di vari dispositivi, assegna una graduatoria alla condotta di ciascun cittadino. L’uso politico dell’IA ha, in sostanza, trasformato internet da strumento di liberazione individuale in un panopticon a uso e consumo del governo. Questo mette in crisi la posizione di quanti hanno sempre pensato che sviluppo tecnologico fosse sinonimo di liberazione individuale ed entra in contrasto con i cardini del modello politico liberale, basato sulla centralità democratica del binomio privacy e diritti di proprietà.

Il panorama internazionale, dal punto di vista “tecno-politico” si sta, dunque, ridefinendo in termini di un nuovo bipolarismo, con Stati Uniti e Cina impegnati in una lotta per l’influenza internazionale lungo le direttrici della propria espansione commerciale. Il progetto cinese per una Nuova Via della Seta attraverso l’Eurasia prevede un’importante parte di investimenti infrastrutturali in cablatura e reti radiomobili, mentre le tecnologie messe a punto dalle aziende di Pechino vengono già esportate in altri contesti autoritari nel Medio Oriente e Africa. La Russia gioca, per ora, un ruolo secondario, concentrandosi su forme di IA più aggressiva per uso militare e per attuare forme di disturbo nei processi politici dei propri avversari. In questo contesto, l’Unione Europea rischia di rimanere schiacciata e vedere la propria posizione strategica compromessa. Secondo uno studio di PricewaterhouseCoopers, allo stato attuale, il 70% dell’impatto economico globale dell’IA si concentrerà in Nord America e in Cina.

 

IL RITARDO EUROPEO. L’Europa resta il più grande hub per la ricerca in IA e robotica, con un numero di articoli scientifici superiore a Cina e Stati Uniti, ma fatica a trasformare questo primato in potenza economica e tecnologia pratica. In primis, questo è dovuto alla mancanza di un quadro coordinato di politica industriale a livello centrale, con gli Stati membri che continuano a muoversi in modo largamente autonomo rispetto a Bruxelles. La Francia, ad esempio, ha fatto dell’IA una propria priorità strategica, affidando al matematico Cedric Villani una task force parlamentare per mettere a punto delle linee guida per lo sviluppo del settore, pubblicate a marzo 2018 nel rapporto ai for Humanity. La Germania, invece, manca ancora di un piano nazionale per l’IA, operando soprattutto a livello di governo regionale (ad esempio, il finanziamento di una “cyber valley” da parte del Baden Württemberg). Vi sono poi una serie di Stati minori, come Estonia e Finlandia, che stanno cercando di integrare gli algoritmi nella propria pubblica amministrazione – anticipando l’impatto che le nuove tecnologie avranno sulle strutture dello Stato – ma restano troppo marginali per agire da volano di sviluppo per l’intera Europa.

La mancanza di politica industriale integrata a livello europeo nel settore dell’IA ha impedito la nascita di national champions capaci di tenere testa alla competizione dei colossi sino-americani e promuovere gli interessi del vecchio continente. Secondo Stratfor, la SAP SE è l’unica azienda hi-tech europea a essere valutata a più di 100 miliardi di dollari. L’incapacità di favorire lo sviluppo della grande impresa nei settori tecnologicamente avanzati si riflette anche in un ecosistema meno innovativo per le start up. Sempre secondo Stratfor, in Europa ci sono solamente due dozzine di “unicorni” – nuove imprese con una valutazione di almeno un miliardo di dollari. Negli Stati Uniti sono più di un centinaio. Soprattutto, circa metà delle start up europee attualmente impegnate nel campo dell’IA hanno sede nel Regno Unito. La Brexit avrà, quindi, importanti ripercussioni, non soltanto geopolitiche ma anche per la politica tecnologica dell’Europa.

A pesare c’è sicuramente la mancanza di investimenti. Le risorse pubbliche e private che l’Europa può mettere in campo restano al di sotto della capacità di autofinanziamento dei colossi della Silicon Valley e delle disponibilità della Repubblica popolare cinese. Conscia del proprio ritardo, in aprile 2018 la Commissione europea ha stanziato 1,5 miliardi di euro di investimenti in IA all’interno del programma di ricerca Horizon 2020. Per quella data, Bruxelles cercherà di arrivare a circa 20 miliardi di nuovi investimenti totali nel settore, attraverso partnership con soggetti privati all’interno della strategia per la creazione del Digital Single Market varata nel maggio 2015.

Il solo aumento della disponibilità finanziaria per nuovi investimenti in IA, tuttavia, potrebbe non bastare. L’uniformità dei dati è un requisito essenziale per addestrare e rendere le decisioni degli algoritmi più efficienti e capaci di operare nel mondo reale. In questo senso, la frammentazione culturale e regolatoria dell’Unione Europea rappresenta un notevole ostacolo allo sviluppo delle dimensioni di scala necessarie a competere sul mercato globale. I membri dell’Unione Europea hanno regole stringenti per quanto riguarda la diffusione e la licenza d’uso dei dati – tanto da richiedere lo stoccaggio fisico dei server all’interno dei propri confini nazionali – mentre le differenze linguistiche rendono complesso sviluppare software integrati a livello continentale. Dal punto di vista digitale – nonostante il potenziale di oltre mezzo miliardo di consumatori di servizi – il mercato europeo è ancora carente rispetto a Stati Uniti e Cina. I due Stati sovrani possono infatti contare su una compagine amministrativa omogenea e su una base di utenti di fatto più ampia, soprattutto per quanto riguarda Pechino. Se i dati si apprestano a diventare il petrolio dell’economia del futuro, come ha recentemente scritto The Economist, la Cina è l’Arabia Saudita.

 

ALLA RICERCA DI UN PROPRIO MODELLO. Per emergere nella corsa globale all’IA, l’UE deve non soltanto sviluppare un proprio modello di politica industriale, bilanciando intervento dello Stato e mercato per favorire un sistema di innovazione efficiente. Soprattutto, deve offrire nuovi standard qualitativi. Tanto il modello di deregulation americano quanto quello autoritario cinese non offrono garanzie circa le regole condivise attraverso cui gestire l’impatto sociale delle nuove tecnologie.

L’Europa ha, invece, l’opportunità di emergere attraverso uno sviluppo tecnologico eticamente affidabile e trasparente, regole ferree per la protezione dei dati personali e lo sviluppo di un quadro giuridico innovativo che sappia regolare l’impatto dell’IA nell’ambito della responsabilità legale. Questo non compensa le risorse che pure andranno investite, ma permetterebbe lo sviluppo di un soft power tecnologico per garantire i diritti comuni. Allo stesso modo, un modello etico europeo in materia di IA favorirebbe un protezionismo informale per le imprese del continente, sfruttando le differenze culturali con l’America e i colossi asiatici.

Il Regolamento generale europeo per la protezione dei dati, in forza da maggio 2018, ha già aumentato i costi per alcune grandi imprese americane, costringendole a rivedere le proprie regole in materia di dati personali. La Commissione sembra voler continuare proprio in questa direzione. A dicembre 2018, Bruxelles ha presentato un piano coordinato per l’IA in cui indica – oltre agli obiettivi di massimizzare gli investimenti attraverso partnership pubblico-private e di creare repository di dati comuni – quello di sviluppare le nuove tecnologie in maniera morale e affidabile. Lo stesso mese, un comitato di esperti UE ha pubblicato una prima bozza delle linee guida etiche di cui la Commissione intende dotarsi in materia di nuove tecnologie.

Per cogliere le opportunità della sfida tecnologica e giocare la partita geopolitica del futuro, l’Europa deve riscoprire i valori di un nuovo umanesimo digitale, in modo da guidare la ricerca, aprire nuovi spazi di investimento e offrire un baluardo culturale a modelli autoritari e materialisti che rischiano di trasformare le promesse dell’IA in una nuova distopia.

 

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