Il deterioramento delle relazioni tra Cina e Stati Uniti sta determinando gravi e preoccupanti conseguenze sull’economia e sulla politica internazionale. Le cause recenti di questo deterioramento, senza scomodare Tucidide, vanno fatte risalire a più prosaici difetti di leadership.
Di fronte all’aggressione russa dell’Ucraina, il governo cinese si è schierato a fianco di Putin dichiarandogli una “amicizia senza limiti”. La Cina afferma inoltre di volersi contrapporre all’egemonia occidentale, accusando quest’ultima di ogni nefandezza; e dichiara l’intenzione di creare un ordinamento internazionale alternativo a quello occidentale, con effetti che in tal caso potrebbero essere disastrosi per la pace, la sicurezza e lo sviluppo globale (frammentazione, conflitti, blocchi contrapposti, ecc.).
Gli USA, dal canto loro, con l’amministrazione Trump hanno accusato la Cina di essere la vera e principale causa dei problemi strutturali dell’economia americana, e di conseguenza hanno introdotto dazi, controlli e barriere commerciali e tecnologiche, che l’amministrazione Biden ha poi sostanzialmente confermato. Altre cause della rivalità Cina-USA sono più antiche: ad esempio la crescente assertività del regime cinese che ha rafforzato le sue tendenze autoritarie e le rivendicazioni territoriali, e in secondo luogo il progressivo allontanamento degli USA dagli ideali dell’internazionalismo liberale, giudicati fallimentari e sostituiti da teorie cosiddette “realiste” delle relazioni economiche e internazionali fondate sulla forza, sulla militarizzazione (weaponization) e sulla supremazia.
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C’è oggi nell’opinione pubblica occidentale grande delusione di fronte ai principi fondamentali che erano stati posti alla base dell’ordinamento internazionale liberale del dopoguerra. Mi riferisco in particolare al teorema della “pace commerciale” (con il libero commercio e con le interdipendenze economiche si riteneva dovesse crescere la pace e la sicurezza), a quello della “pace democratica” (con la promozione della democrazia si rafforza la coesistenza pacifica), e della pace diplomatica (col multilateralismo e il dialogo nelle organizzazioni internazionali si promuove la cooperazione e lo sviluppo). Le catene globali del valore – si dice – e gli investimenti transnazionali non hanno prodotto automaticamente, insieme alla produttività e alla ricchezza, l’uguaglianza, la coesione sociale e la democrazia. E questo punto di vista ha certo un qualche fondamento di verità.
Ma d’altro canto l’attacco ai principi liberali non riesce a costruire nulla di nuovo e di tranquillizzante, e non ci prova nemmeno: invece di proporre correzioni nel funzionamento di questi meccanismi, evidenziando non solo le condizioni necessarie, ma anche quelle sufficienti, esso pretende di buttar via i principi liberali per sostituirli con principi sostanzialmente opposti. È il caso, ad esempio, delle liberalizzazioni commerciali e della globalizzazione, che certo si è rivelata condizione necessaria, ma non sufficiente per diffondere il buon governo e il progresso sociale, ma che non per questo deve essere rottamata. Quindi invece della pace commerciale i “realisti” invocano la guerra commerciale, invece della pace democratica la guerra delle democrazie contro i regimi autoritari, invece del multilateralismo delle organizzazioni internazionali la diplomazia “dei lupi guerrieri”, e così via. Non è chiaro come queste apocalittiche prospettive care ai “realisti” possano servire a dare risposta alle aspirazioni e agli interessi di lungo termine dei popoli, dei cinesi come degli americani, e degli altri in tutto il mondo, sviluppati e in via di sviluppo.
Alla delusione dell’Occidente corrisponde analoga delusione dal lato della Cina. Dopo le bellicose e disastrose conseguenze del governo Trump negli USA, l’attuale amministrazione di Joe Biden, dai toni moderati e aperti al dialogo, non ha fatto granché agli occhi dei cinesi per migliorare la cooperazione e far recuperare fiducia reciproca nel rapporto tra i due Paesi. Da queste diverse ma convergenti percezioni, sono emersi “grandi abbagli” reciproci, degli americani nei confronti dei cinesi, e dei cinesi nei confronti degli americani, con conseguenti aspettative frustrate e sentimenti di rancore e sfiducia. Tutto ciò ha reso tossiche le relazioni bilaterali USA-Cina, dominate da recriminazioni e sensazioni di slealtà e tradimento.
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La realtà è però diversa. Oggi entrambe queste grandi potenze, Cina e Stati Uniti, stanno attraversando crisi politiche ed economiche di origine interna che i rispettivi governi fanno fatica a dominare e risolvere. Esse si sentono e si trovano in condizioni di diversa ma obiettiva debolezza, che induce quindi le relative leadership a scaricare sull’esterno le responsabilità della crisi. Entrambe avrebbero invece bisogno non di conflitto egemonico ma di collaborazione strategica.
Invece che scommettere reciprocamente sulle rispettive debolezze, sperando di ricavarne effimeri benefici, le due grandi potenze dovrebbero scommettere positivamente sulla forza delle loro economie e delle loro popolazioni, collaborando insieme a realizzare una governance globale multipolare che garantisca pace e sviluppo. Non ci sono alternative a questa collaborazione, e bisognerebbe che entrambi i Paesi ne prendessero atto con “realismo” e con ritrovata fiducia.
Infatti, l’internazionalismo liberale faticosamente costruito e difeso negli ultimi ottant’anni col contributo decisivo della leadership statunitense ha assicurato una crescita senza precedenti di benessere di progresso e di libertà in tutto il mondo portando fuori dalla povertà e dal sottosviluppo milioni di persone. A beneficiarne è stata proprio la Cina, oltre agli USA e all’intera economia mondiale. La pax americana, durante e dopo la fine della guerra fredda ha assicurato progresso e stabilità alle economie e alle società del mondo, crescita delle interdipendenze e degli scambi, non solo in Occidente, ma in tutto il globo.
Certo, esistono ancora squilibri, antichi e recenti, e nuove sfide, che richiedono profonde riforme e vasti aggiustamenti, che sarebbe nell’interesse di tutti affrontare con coraggio e determinazione (pensiamo ad esempio al cambiamento climatico e alla sanità globale, oltre che alle crisi finanziarie). E ci sono stati ritardi, resistenze e anche, come ha coraggiosamente ammesso il Presidente Biden, errori, soprattutto dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Ma parlare di tramonto dell’egemonia americana è improprio e ingeneroso.
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Anche la Cina ha affrontato cambiamenti straordinari negli ultimi cinquant’anni che l’hanno portata a poter giocare oggi un nuovo protagonismo sulla scena internazionale. Dopo le umiliazioni delle guerre dell’oppio e del colonialismo, e dopo l’oscurantismo della rivoluzione culturale, la Cina si è aperta all’economia di mercato, è cresciuta di ruolo nelle catene globali della tecnologia e del valore e nelle sedi internazionali. Negli ultimi anni, proprio con la Presidenza Xi Jinping, la Cina ha anche rivalutato la cultura, i valori tradizionali e il Confucianesimo dopo gli anni bui del comunismo ateo e rivoluzionario.
Certo, la modernizzazione nella Repubblica Popolare appare oggi ancora incompiuta, e sono emersi anche segnali preoccupanti di involuzione. Ecco perché la Cina va incoraggiata a proseguire nel suo processo di tipo “gorbacioviano” (avviato dai predecessori di Xi), spinta ad assumere responsabilità internazionali di grande potenza e a collaborare in un dialogo costruttivo con l’Occidente. È questo un sentiero stretto, impervio e denso di incognite, ma -anche qui- non ci sono alternative.
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Come l’esito favorevole della COP 28 negli Emirati Arabi Uniti ha chiaramente dimostrato, solo la collaborazione costruttiva tra Cina e Stati Uniti, con la mediazione determinante della Unione Europea e il contributo di tutti i Paesi, consente di raggiungere quei compromessi necessari a far avanzare la transizione climatica in modo positivo e a trovare soluzioni ai complessi problemi che dobbiamo oggi fronteggiare a livello globale. L’agenda delle riforme della governance globale è nota, manca solo la leadership per realizzarla a livello locale nazionale e globale, e questa leadership può solo venire dalla collaborazione tra i diversi livelli di governo e dalla cooperazione internazionale, a partire dai due più forti e più grandi Paesi, che per questo devono fare da guida e assumersi più forti e più grandi responsabilità.
Vedo già i “realisti” scuotere la testa pessimisticamente, e proporre invece la loro visione della “realtà”, una realtà di “guerra perpetua”, in luogo della “pace perpetua” kantiana. Non possiamo, e non dobbiamo, rassegnarci a questo modo di pensare!
A ricordarci della reale “possibilità” del dialogo e della convergenza internazionale tra Oriente ed Occidente, c’è il modello offertoci più di 400 anni fa da Matteo Ricci, il grande gesuita che non soltanto portò il Cristianesimo in Cina, ma che è ancora oggi celebrato dai cinesi come un Padre della Cina moderna. Don Matteo, dopo anni e anni di studio e di “accomodamento” alle civiltà dell’Oriente, nel 1595 pubblicò la sua prima opera in cinese, anzi scritta in cultura confuciana. Il tema è quello dell’amicizia. Ricci raccoglie e porta a mirabile sintesi le massime e i principi della nostra cultura classica e cristiana, da Aristotele a Cicerone, da Tommaso d’Aquino a sant’Agostino, con quelli della tradizione cinese, dando evidenza al fatto che i nostri “valori” non sono semplicemente “valori occidentali”, ma sono “valori universali”. Essi possono quindi e debbono essere ricercati e ritrovati nella cultura tradizionale cinese, così come in tutte le altre culture. Questo suo libro ebbe grande successo, diventò un best seller e lo aiutò ad entrare nella Città Proibita e ad essere riconosciuto e stimato quale grande saggio dell’Oriente e dell’Occidente, come è oggi riportato nei libri di testo della scuola pubblica in Cina.
Non vedo perché quello che fu possibile allora a Matteo Ricci, non possa diventare possibile anche oggi dopo la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” e la Carta delle Nazioni Unite. E come allora, anche oggi, la “via dell’amicizia” alla riforma e al rilancio della governance globale, guidata dagli Stati Uniti e dalla Cina, dovrebbe essere sostenuta e alimentata dal contributo determinante dell’Europa con il suo soft power, le sue tradizioni di pensiero, i suoi legami culturali con tutti i continenti e la sua visione del futuro.
Non è forse questo il senso vero e profondo del “friend-shoring” proposto da Janet Yellen, Segretaria del Tesoro americana e grande economista? Quale de-risking può essere più efficace di quello che investe in relazioni economiche e politiche “amichevoli” a livello globale?