L’Asia è il continente che ha avuto il maggior successo nel contrasto all’epidemia di coronavirus. La ricetta, mescolando le risposte dei diversi paesi, è un mix fatto di rapidità di intervento, misure coercitive severe, lungimiranza e tecnologia. La vita però, nella Cina continentale che è stata l’epicentro del contagio, è ancora lontana dal ritorno alla normalità.
Taiwan è tra i paesi che si sono distinti di più, riuscendo a contenere contagi e vittime nonostante fosse (insieme a Hong Kong) il territorio più a rischio per la sua vicinanza e i legami con la Repubblica Popolare. Nel 2003 con lo scoppio della Sars, Pechino riuscì a escludere Taiwan dalle sessioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (di cui tecnicamente non fa parte) e nel paese si contarono 73 vittime, il 10% del totale globale.
Memore di quell’esperienza l’isola ha agito con estrema rapidità. La sfiducia e la diffidenza verso la Cina hanno spinto la presidente Tsai Ing-wen a vietare l’esportazione di mascherine all’estero già il 24 gennaio, il giorno successivo alla quarantena di Wuhan, a vietare l’ingresso nel paese di persone provenienti dall’Hubei il 26 gennaio, di tutti i turisti cinesi il 5 febbraio, e infine di chiunque avesse visitato la Repubblica Popolare nelle precedenti due settimane. Inoltre, tutte le persone transitate dalla Cina, (comprese Hong Kong e Macao) sono state sottoposte da subito a un periodo di quarantena di 14 giorni. Tutti gli infetti e i sospetti sono stati monitorati con delle applicazioni create ad hoc e isolati in casa. I sindaci di ogni comune avevano il compito di telefonare a tutti una volta al giorno, garantendo i rifornimenti di cibo. Infine, il governo ha aumentato la produzione interna di mascherine fino a 10 milioni di pezzi al giorno per 23 milioni di residenti, aiutando la popolazione a verificarne la disponibilità nei negozi attraverso un’app specifica.
Questa serie di misure ha permesso a Taiwan di non chiudere uffici e negozi, anche se dall’1 aprile chi ha una temperatura corporea superiore ai 37,5 gradi non può usare i mezzi pubblici e tutti dovranno mantenere in strada e al lavoro la distanza di sicurezza di almeno un metro. La risposta efficace all’epidemia ha fatto di Taiwan un modello (i dati aggiornati al 16 aprile registrano appena 395 casi e 6 morti) e ha permesso al governo di utilizzare la produzione di mascherine in eccesso per fare politica estera: 6 milioni di mascherine sono state donate a inizio aprile all’Unione Europea, che ha ringraziato irritando così la Cina.
Anche Hong Kong, seppur con maggiori difficoltà, è riuscita a contrastare il contagio con efficacia.
L’ombra del coronavirus si è allungata sulla città autonoma intercettando l’onda lunga della protesta iniziata nel giugno 2019. Anche la città autonoma ha preso da subito estremamente sul serio il Covid-19, dal momento che la Sars nel 2003 fece 300 vittime sul territorio. Da metà gennaio, non appena è stato confermato che il virus poteva trasmettersi da uomo a uomo, il governo ha chiuso musei, scuole e università, promuovendo le lezioni online, incoraggiato lo smart working e vietato le manifestazioni sportive. Agli abitanti non è stato impedito di uscire di casa, ma il mantenimento della distanza di sicurezza e l’utilizzo della mascherina (che in Asia resta qualcosa di comune e per nulla sinonimo di malattia, diffidenza o distanza) sono diventati parte della quotidianità.
A febbraio il governo di Carrie Lam ha chiuso molti collegamenti tra Hong Kong e il continente, ridotto il numero di voli da e per il resto della Cina, anche se i medici della città hanno protestato invocando la serrata totale. Dopo un iniziale ritorno alla normalità ai primi di marzo, dalla metà del mese sono state adottate nuove restrizioni come la quarantena di 14 giorni obbligatoria, con tanto di controllo elettronico, per chiunque entrasse in città dall’estero, misura poi mutata in un bando totale agli ingressi per i non residenti. Sono stati anche chiusi i locali per il gioco del mahjong, le popolarissime sale da karaoke e i night club. La scorsa settimana il governo ha disposto anche la chiusura di tutti i locali che vendono esclusivamente alcol, generando un po’ di confusione dal momento che molti bar si sono attrezzati a servire anche spuntini pur di non abbassare la saracinesca. Nonostante le nuove restrizioni di Hong Kong abbiano spaventato l’Europa, mostrando che non basta frenare i contagi una volta per sconfiggere definitivamente il virus, la situazione nella città autonoma resta sotto controllo con 1018 casi confermati e 4 vittime (poco più di una cinquantina i nuovi casi).
Ad ascoltare la propaganda del Partito comunista, la Cina continentale ha «sconfitto» il coronavirus, la vita sta tornando alla normalità e i pochi nuovi casi di contagio sono tutti importati dall’estero. In verità la “nuova normalità”, da Pechino a Shanghai, da Chongqing a Tianjin, fino a Wuhan, non è affatto come la vecchia. Per quanto le principali misure restrittive siano state abbandonate e persino Wuhan sia stata “liberata” l’8 aprile, restano in vigore degli accorgimenti che difficilmente potrebbero essere definiti “normalità”.
La ripartenza si basa soprattutto sulla tecnologia e sul “sistema Qr code sanitario”, sperimentato a partire dall’11 febbraio nella città di Hangzhou, esteso a tre province (Zhejiang, Sichuan e Hainan più la municipalità da 180 milioni di abitanti di Chongqing) e ora a tutto il paese. Il sistema funziona attraverso le due app più popolari e multifunzionali di tutta la Cina: WeChat (Tencent) e Alipay (Alibaba). Entrambe le app forniscono un codice sanitario: verde, giallo o rosso. Il primo stabilisce che la persona è sana e può spostarsi liberamente, il secondo che potrebbe essere stata a contatto con un malato di coronavirus e che deve dunque restare in autoisolamento per sicurezza, mentre il terzo sancisce il contagio e la conseguente quarantena. Nessuno sa esattamente con quale criterio vengano assegnati i codici ogni giorno, ma il sistema chiede di inserire il numero della carta di identità, notizie sui sintomi come febbre o tosse, informazioni sulla propria cartella clinica (comprese le malattie passate), dettagli sugli spostamenti delle ultime due settimane e delle persone con cui si è venuti in contatto.
A Wuhan, epicentro dell’epidemia, come anche nelle principali città cinesi, un codice verde è indispensabile per salire sulla metro, prendere il treno o l’aereo, entrare in banca, al supermercato, nei bar, nei ristoranti, in ufficio o addirittura per accedere ad alcuni quartieri delle città. Senza un codice verde è vietato anche entrare in molti compound abitativi, tuttora guardati a vista per monitorare chi entra e chi esce. Le mascherine devono essere indossate dappertutto e le scuole restano chiuse quasi ovunque.
La capitale dell’Hubei ha riaperto i battenti l’8 aprile dopo 11 settimane e l’uscita degli «eroici abitanti», come li ha definiti il presidente Xi, è stata salutata da uno show di luci su entrambe le rive del fiume Yangtze, mentre sui grattacieli venivano proiettate le immagini di medici intenti a curare i malati – ma il 5% circa dei complessi abitativi è ancora in lockdown, a causa della presenza di una o più persone sospette. Anche negli altri, però, spesso per uscire ed entrare è necessario registrarsi. Molti supermercati e negozi di alimenti, inoltre, continuano a servire i clienti dietro ad alte recinzioni di plastica per evitare contatti.
La libertà di spostamento non è tutto. Nonostante il governo locale abbia dichiarato che il 94% dei negozi, circa 11 mila, hanno riaperto, mentre il 97% delle industrie hanno ripreso la produzione, il 60% dei dipendenti delle stesse industrie ancora non sono tornati al lavoro e il consumo di energia è diminuito di un quinto rispetto a gennaio. Inoltre, come rivelato da un reportage di Caixin, molte aziende rispettano la richiesta del governo di consumare lo stesso quantitativo di energia come prima dello scoppio dell’epidemia tenendo accesi i macchinari, ma gli uffici restano vuoti. Secondo il South China Morning Post quasi 500mila aziende hanno chiuso definitivamente nel primo trimestre dell’anno in Cina.
Con le sue misure drastiche di contenimento la Cina ha registrato all’8 aprile 81.802 casi e appena 3.333 morti, la stragrande maggioranza dei quali a Wuhan. Al di là delle cifre ufficiali, che in tanti ritengono poco attendibili alla luce del tasso di mortalità del Covid-19 in Europa e Stati Uniti, la Cina l’8 aprile ha festeggiato una giornata con zero vittime e zero contagi locali. Restano invece quelli “importati dall’estero”. La realtà però potrebbe essere diversa da come viene raccontata: è solo grazie a un comunicato uscito su Weibo che si è scoperto, ad esempio, che l’1 aprile la contea di Jia, nell’Henan, è tornata alle consuete restrizioni dopo che tre medici malati hanno visitato decine di pazienti. Ora nessuno dei 600mila abitanti può uscire di casa, se non per procurarsi gli alimenti, e gli uffici sono stati chiusi.
Che il virus poi non sia sconfitto lo ha fatto capire la Commissione nazionale per la Salute, annunciando che negli ultimi giorni su 885 casi riportati, il 68% (601) erano asintomatici. La metà di questi sono stati individuati nella provincia dell’Hubei. Quanti altri però non sono stati scovati, soprattutto se si considera che fino a poche settimane fa Pechino nemmeno conteggiava gli asintomatici?
L’auspicata normalità, insomma, è ancora di là da venire.