Il caso della Cina sembra esemplificare al meglio quello che il World Energy Council (WEC) ha definito “Energy Trilemma”, o Trilemma energetico: un principio fondato su tre distinte dimensioni della sostenibilità energetica. La prima è la Sicurezza energetica, ovvero la capacità di uno stato di soddisfare la domanda energetica presente e futura, e di reagire con resilienza ai possibili shock globali. La seconda è la cosiddetta Equità energetica, e consiste nell’abilità di uno stato di fornire un accesso all’energia capillare, equo e a un prezzo sostenibile per la popolazione e le aziende nazionali. Infine, la terza e ultima dimensione consiste nella Sostenibilità ambientale, riferendosi quindi ai livelli di decarbonizzazione, di abbattimento delle emissioni e di efficientamento energetico raggiunti da un paese. Il Trilemma evidenzia come spesso risulti estremamente complicato trovare un bilanciamento tra le tre dimensioni, evitando che i progressi in una delle tre vadano a scapito delle restanti.
L’equilibrio energetico della Cina è infatti stato messo a dura prova in questi ultimi mesi, finché nella prima metà di ottobre, abbandonando il percorso in direzione della sostenibilità seguito fino ad allora, il governo cinese ha dovuto adottare una serie di provvedimenti per aumentare la produzione di carbone. A oltre 70 produttori operanti nella Mongolia Interna è stato chiesto di espandere la propria capacità estrattiva di circa 100 milioni di tonnellate, un incremento pari a circa il 10% dell’output generato dall’intera provincia in un anno. Altre 98 miniere nello Shanxi sono state sollecitate ad alzare i ritmi, tanto che, dopo un aumento del 4% già nei primi nove mesi del 2021 rispetto all’anno precedente, si prevede che la produzione di carbone continuerà a crescere in maniera ancora più considerevole nell’ultimo trimestre.
L’iniziativa di Pechino, intrapresa nonostante le numerose promesse di riduzione delle emissioni di CO2 e di progressiva diminuzione della quota di carbone all’interno del mix energetico, evidenzia l’enorme difficoltà nel combinare sostenibilità sociale, economica e ambientale durante il processo di transizione energetica. L’esigenza di far fronte a una crisi energetica che minaccia di inasprirsi con l’arrivo dell’inverno, infatti, ha spinto la Cina ad anteporre, almeno per il momento, la sicurezza degli approvvigionamenti rispetto all’osservanza degli impegni presi nella lotta al cambiamento climatico.
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La carenza di energia elettrica che da mesi interessa la Cina è legata a una perdurante crisi dell’offerta di carbone, ad oggi la principale fonte cui il paese ricorre per generare corrente (circa il 65% del totale, secondo i dati dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, IEA). Effettivamente, molte miniere sono state chiuse negli ultimi anni dal governo centrale, in conformità con gli impegni sottoscritti con l’Accordi di Parigi, mentre, più recentemente, alcune gravi alluvioni estive nelle province di Shanxi e Henan hanno fortemente rallentato la produzione negli impianti estrattivi.
Anche la National Development and Reform Commission (NDRC) – ovvero l’organo governativo responsabile della pianificazione economica – non è esente da colpe. Infatti, dietro ai problemi nell’approvvigionamento di carbone, oltre a una serie di caratteristiche strutturali tipiche del sistema di produzione e distribuzione dell’energia, sembrerebbe esserci l’attuazione di una serie di decisioni e scelte politiche rivelatesi poi fallimentari.
Nel contesto cinese, mentre il prezzo dell’elettricità è regolato dallo Stato, quello del carbone è determinato dal mercato. Quando questo sale, per le centrali elettriche alimentate a carbone – impossibilitate ad alzare il prezzo del proprio prodotto – diventa sconveniente continuare a generare energia. Non sorprende dunque che il costante aumento del prezzo del carbone a livello globale, a partire da settembre 2020, abbia impattato così pesantemente sulla sicurezza energetica cinese, che da esso dipende fortemente.
Di fronte a tale scenario, e in un momento – la prima metà del 2021 – di ripresa economica e crescente domanda energetica, la soluzione adottata da Pechino per sostenere i produttori di energia elettrica si è rivelata un flop. Il governo ha infatti cercato di impedire alle industrie estrattive nazionali di alzare i prezzi del carbone, e quindi di allinearli a quelli del mercato, senza però consentire alle compagnie energetiche di aumentare il costo delle bollette.
Ciò, da un lato, ha disincentivato i produttori di carbone a intensificare l’attività estrattiva; dall’altro, ha spinto le centrali elettriche alimentate a carbone a non comprare più combustibile fossile, ricorrendo piuttosto alle scorte già in proprio possesso.
Stock di carbone a livelli pericolosamente bassi in vista dell’inverno, scarsa produzione domestica, prezzi in costante rialzo e crescente domanda di energia post-pandemia, appaiono dunque essere gli ingredienti principali di una crisi energetica che minaccia di durare ancora a lungo, mettendo a repentaglio la ripresa economica nel paese.
Per salvaguardare la crescita e la stabilità della propria economia, già sotto pressione dopo il tracollo del gigante immobiliare Evergrande, Pechino ha dunque infine scelto di affrontare la questione del deficit energetico con un approccio pragmatico e a breve termine, a scapito delle promesse di graduale riduzione dell’utilizzo di carbone nel lungo periodo.
Il trilemma, un equilibrio impossibile?
Per quanto necessario ai fini di una transizione ecologica globale, trovare un equo bilanciamento tra le tre dimensioni del trilemma energetico (sicurezza, equità, sostenibilità) risulta spesso molto problematico, a maggior ragione per le economie emergenti o altamente dipendenti dall’industria. Il più delle volte – con la parziale eccezione di alcuni paesi “virtuosi” del Nord Europa – gli Stati si ritrovano a scegliere una o due dimensioni su cui puntare, e trascurare le restanti. Nel caso lampante della Cina, sicurezza ed equità energetica sono state anteposte alla lotta al cambiamento climatico, nonostante il forte impulso che le politiche di decarbonizzazione stanno avendo a livello globale in questa fase storica.
È evidente come ciò esponga le difficoltà, specie per le economie emergenti o altamente dipendenti dall’industria, a garantire contemporaneamente sostenibilità ambientale, equità energetica e sicurezza degli approvvigionamenti durante il processo di transizione energetica.
Rispetto alla sicurezza degli approvvigionamenti energetici, va sottolineato come Pechino abbia investito fortemente nel settore del rinnovabile, di cui è tutt’oggi leader mondiale. La capacità installata di solare fotovoltaico ed eolico è più che raddoppiata negli ultimi cinque anni, arrivando nel 2020 a 542GW – corrispondente a oltre un terzo della capacità installata mondiale. Nondimeno, la percentuale di rinnovabile resta ancora esigua all’interno del mix energetico cinese, attestandosi intorno al 12%. Ciò significa che gli idrocarburi rimangono di gran lunga la principale fonte per assicurare la sicurezza energetica in Cina. L’incremento della produzione di carbone richiesto da Xi Jinping nelle scorse settimane è stato inoltre accompagnato da un aumento delle importazioni dello stesso di oltre il 70% rispetto all’anno precedente, prevalentemente da Indonesia, Russia e Australia.
D’altro canto, la crisi energetica in Cina ha evidenziato enormi problemi strutturali nell’effettuare la transizione verso un’economia più verde. Ormai da settembre il razionamento dell’energia è una realtà in almeno diciassette delle trenta province del paese, con effetti negativi sia per la popolazione che per la filiera industriale. È evidente come, per il governo cinese, il metodo più rapido ed efficace per sostenere le proprie aziende e assicurare una maggiore equità energetica sia consistito nell’intensificazione della produzione di carbone, una risorsa tutt’oggi accessibile, disponibile in grandi quantità e ancora relativamente economica.
Potenzialmente, con adeguati finanziamenti, infrastrutture e tecnologie all’avanguardia, e una forte volontà politica, conciliare sostenibilità ambientale, equità e sicurezza energetica potrebbe innescare un circolo virtuoso, tale per cui investire in una delle tre dimensioni del Trilemma avrebbe risvolti positivi anche per quanto riguarda le altre due. Ad esempio, lo sviluppo dell’off-grid in certe aree del pianeta potrebbe favorire un accesso alla corrente elettrica più capillare e a prezzi sostenibili, diminuendo la dipendenza dagli approvvigionamenti di combustibili fossili e aumentando la quota di energia “verde” prodotta.
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Tuttavia, lo scenario più frequente cui si assiste ad oggi è quello di una “coperta sempre troppo corta”, nel quale il perseguimento di determinati obiettivi va sempre a scapito di altri. Una contraddizione che sembra valere, a maggior ragione, per la Cina, al contempo il paese più “green” al mondo, ma anche il più grande responsabile delle emissioni di gas serra nell’atmosfera, in valori assoluti. La Cina ha palesato delle chiare difficoltà nel perseguimento della transizione energetica, le quali che potrebbero senz’altro essere riscontrate in molti altri paesi – laddove già non sono emerse. E’ un dato che gli addetti ai lavori della COP26 di Glasgow dovranno tenere presente.