Mancano tre mesi alle elezioni presidenziali e, in teoria, alla fine di luglio avremmo dovuto assistere alla convention democratica, che invece è stata spostata di un mese e frammentata in diverse città. Se si votasse oggi il Partito Democratico e il suo candidato presidente vincerebbero a valanga. Novanta giorni sono molti, ma sono anche pochi, e allo stato la campagna Trump non sembra davvero aver trovato una chiave per invertire la marea.
Per impedirglielo, la campagna Biden deve lavorare a fare le due cose che si fanno durante una campagna elettorale: demolire e convincere. Allo stesso tempo, il Partito Democratico deve cercare di raccogliere tutto quel che può da una stagione elettorale che si annuncia promettente. La prossima amministrazione affronterà un primo anno molto duro: idee chiare più una maggioranza forte nel Congresso almeno per due anni sono fattori indispensabili per non trovarsi come Obama nel 2010: già due anni dopo la sua elezione era privo di una maggioranza e impossibilitato a far avanzare pezzi importanti di legislazione.
Come stanno lavorando i Democratici per tentare di capitalizzare gli errori dell’amministrazione Trump nella gestione del coronavirus?
Partiamo dalla demolizione. In questo lavoro i Democratici vengono aiutati e molto dai transfughi repubblicani, ad esempio i never trumpers del Lincoln Project, PAC che produce attacchi “sotto la cintura” contro il presidente al ritmo di uno al giorno e ha raccolto quasi 20 milioni di dollari per comprare spazi pubblicitari. L’esposizione continua delle contraddizioni di Trump – sul coronavirus c’è materiale infinito – e la debolezza in politica estera sono i temi principali degli attacchi, temi che colpiscono anche l’elettorato repubblicano.
Da parte sua, la campagna Biden tende piuttosto a mettere in risalto la distanza tra Trump l’indifferente, personaggio “poco presidenziale” e incapace di gestire una crisi tanto più epocale come quella attuale, e il navigato ex Vice President, che le crisi le ha gestite e che non manca mai di mostrare empatia con chi soffre. Le differenze tra i due vengono in qualche modo esaltate dalla scelta trumpiana di accentuare posizioni estreme – il diniego dei visti agli studenti stranieri, la reiterazione dello slogan “Law & Order”, e così via. Nel dipingere Trump, la campagna Biden deve anche rispondere agli attacchi sull’età e lo stato di salute del proprio candidato – di cui molti sospettano una latente demenza senile – e dunque a sua volta seminare dubbi sulle capacità mentali dell’avversario.
La demolizione di Trump è importante nell’ottica in cui le elezioni di novembre saranno un referendum sui quattro anni di amministrazione in via di conclusione: è la prima volta dal 2004 che un Democratico affronta un presidente uscente. Il tono relativamente dimesso della campagna Biden, a fronte dell’idea dei comizi di massa trumpiani, è un messaggio nel messaggio. Fare a pezzi Trump e la sua risposta all’epidemia significa cercare di attrarre un voto repubblicano moderato, bianco e anziano che in elezioni normali non voterebbe democratico. I sondaggi rilevano che proprio quella fascia, complice il coronavirus e forse anche il profilo politico di Joe Biden, starebbe abbandonando il Grand Old Party.
La parte difficile per i Democratici è però la costruzione. Joe Biden ha presentato un piano economico (Build Back Better, “Ricostruisci meglio”) ben più radicale di quello con il quale ha vinto le primarie: più radicale perché è anche frutto delle discussioni di alto livello tra gli esperti nominati dall’ex VP e quelli nominati da Bernie Sanders. Il tentativo è quello di presentare un partito unito, cioè il contrario di quanto avvenuto nel 2016, quando il risentimento dei sandersiani nei confronti di Clinton era ancora molto diffuso al momento delle elezioni. Stavolta la sconfitta di Bernie non si può imputare a nessuna macchinazione, mentre la crisi e l’epidemia rendono la situazione ottima per promuovere “Big Ideas” di quelle che piacciono alla sinistra.
Biden dunque, al contrario di ciò che accade di solito dopo le primarie, ha svoltato a sinistra: parla di politica industriale, infrastrutture, conversione ecologica dell’economia. E poi di razzismo. Temi che piacciono ai militanti – che pure li declinerebbero in maniera ancor più radicale – ma che possono parlare anche a un elettorato più moderato: la sanità e le infrastrutture (e persino il cambiamento climatico), quando non sono venduti come “rivoluzioni”, trovano consensi trasversali. O almeno questo ci dicono i sondaggi. La crisi e la rivolta dei neri, sfociate in grandi e drammatici eventi di protesta in tutti gli Stati Uniti, concedono a Biden la possibilità di parlare di grandi cambiamenti necessari senza, appunto, doversi presentare come un radicale.
In questo contesto la scelta della vicepresidente – sarà comunque una donna – può dire molto. La scelta, particolarmente significativa a causa dell’età avanzata del candidato, si presenta come un rebus. Privilegiare le posizioni politiche? L’affinità? Scegliere qualcuno pronto “from day one” a fare perfino il presidente, dunque una personalità di grande esperienza più che un volto nuovo? Oppure basarsi sul profilo umano? A seconda di dove si mette l’accento, la candidata perfetta cambia. Kamala Harris è ottima per alcune caratteristiche, Elizabeth Warren per altre, la senatrice dell’Illinois Tammy Duckworth per altre ancora. Tra le novità nella “short list” si parla molto di quest’ultima e di Karen Bass, rappresentante afroamericana della California.
Da ultimo c’è la strategia democratica. Sappiamo che è in corso uno sforzo notevole per lavorare al voto latino e giovane. Per i Democratici non si tratta tanto e solo di guadagnare consensi nella parte di elettorato destinata a crescere di più nei prossimi anni, ma di aumentare la partecipazione al voto. Una delle chiavi del successo alle elezioni di mezzo termine del 2018 è stata proprio l’alta partecipazione ispanica. Con una buona affluenza ispanica, l’Arizona e la Florida (qualcuno sogna anche il Texas) diverrebbero un bersaglio alla portata, dal peso elettorale fondamentale. E in quegli Stati l’investimento democratico sembra essere notevole.
Sia la campagna Biden che quella democratica, al momento, sentono di avere ampie possibilità in Stati e seggi altrimenti difficili da vincere. Il paragone possibile è con il biennio 2006-2008, quando il partito dell’asinello ottenne un successo enorme al mezzo termine e poi, con la “strategia dei 50 Stati” immaginata dall’allora capo del Democratic National Committee, Howard Dean, ottenne vasti successi anche alle presidenziali, tanto da offrire a Obama una maggioranza “blu” sia alla Camera che al Senato.
Per ottenere un risultato simile Biden e il DNC dovranno ricorrere a energie molto diverse tra loro, magari attingendo alla nuova generazione di politici, referenti e strateghi usciti dalle primarie, dai movimenti e ormai anche dai banchi del Congresso. Usare quelle energie, modellare il messaggio e l’offerta a seconda della cultura politica e della composizione demografica dei singoli stati non dovrebbe essere impossibile. Ma 3 mesi sono lunghi e tutto può succedere.