Da tre anni il governo di Pechino usa il pugno duro con chiunque osi chiedere più democrazia per Hong Kong, ma ha ottenuto soltanto un allargamento del fronte democratico. Alle ultime elezioni del parlamento del Territorio, il Consiglio Legislativo (LegCo), tenutesi il 4 settembre, un numero record di votanti (2,2 milioni di persone, pari al 58% degli aventi diritto) si è recato alle urne. Proprio l’alta affluenza ha permesso agli “anti-establishment” di ottenere 29 seggi su 70, due in più rispetto alle ultime elezioni del 2008.
Gli elettori hanno premiato soprattutto i localisti, sei giovani e giovanissimi militanti in formazioni nate dalla cosiddetta “Rivoluzione degli ombrelli” del 2014: non solo essi invocano maggiore democrazia, ma si spingono fino a chiedere l’autodeterminazione, o perfino una vera e propria indipendenza dalla Cina. Pechino ha fatto di tutto per impedire la loro elezione, invano.
Quest’anno i partiti pro-establishment – così vengono definiti quelli vicini alla Cina – miravano invece a controllare i due terzi (47) dei seggi del LegCo, soglia che consente di togliere all’opposizione il fondamentale diritto di veto sulle proposte legislative. Il sistema elettorale di Hong Kong favorisce questo fronte: solo 35 seggi su 70, infatti, vengono assegnati tramite suffragio universale; i restanti sono scelti dalle corporazioni che rappresentano professioni e commerci, perlopiù vicine agli interessi cinesi.
L’exploit di democratici e localisti è dovuto a diversi fattori. La “Rivoluzione degli ombrelli” innanzitutto: nel 2014 migliaia di persone, soprattutto giovani, hanno occupato pacificamente con tende e banchetti per 79 giorni il distretto finanziario di Central. Il movimento è nato quando la Cina si è rimangiata la sua promessa di democratizzare il sistema elettorale della città.
Nella Basic Law, la Costituzione di Hong Kong, c’è scritto che questo sistema ha come “scopo finale” l’elezione del capo del governo del Territorio tramite “suffragio universale”. Attualmente la nomina è affidata a una commissione, composta da 1.200 membri delle élite industriali e politiche (come il parlamento, scelte solo per metà via elezione diretta) e questa si orienta su nomine gradite alla Cina. Dopo numerosi rinvii, l’Assemblea nazionale – cioè il parlamento di Pechino, l’unico organo che può modificare il sistema elettorale di Hong Kong – promise di cambiarlo entro il 2017. La protesta scoppiò il 31 agosto del 2014, quando il governo centrale fece marcia indietro, concedendo l’elezione a suffragio universale sì, ma solo di candidati selezionati in precedenza dal Partito comunista.
I giovani che scesero in piazza non ottennero nulla di pratico, ma dimostrarono che una nuova consapevolezza anima la popolazione di Hong Kong. Il rigetto totale, e le minacce, giunto dalla Cina e dalle istituzioni locali controllate da Pechino, hanno certamente gonfiato il dissenso, dato che la popolazione locale non sembra tifare così ardentemente per lo strappo indipendentista. Se ne è reso protagonista in molte maniere Leung Chun-ying, capo del governo del Territorio ed ex-imprenditore molto legato agli ambienti economici cinesi, che tra l’altro ha imposto ai candidati alle elezioni – pena l’estromissione – di firmare un documento che stabilisce in maniera “inequivocabile” che il Territorio è “parte inalienabile della Cina continentale”, e ha chiesto agli insegnanti di smettere di parlare in classe di indipendenza, come “non parlano ad esempio della droga”. Pechino ha rincarato la dose, chiedendo l’arresto per “alto tradimento” di tutti coloro che appoggiavano l’indipendenza di Hong Kong.
Nonostante il risultato elettorale, secondo molti osservatori l’influenza cinese continua a crescere nella città, fino a rischiare di distruggere dall’interno il modello “un paese, due sistemi”.
Tanto per cominciare, per candidarsi nelle liste “amiche” della Cina non basta avere un’affinità politico-ideologica: serve invece il placet dell’Ufficio per le relazioni, che rappresenta ufficialmente lo stato cinese ad Hong Kong. Emblematico l’esempio di Ken Chow, sostenuto dal partito liberale (pro-establishment), che dopo ripetute minacce “da parte di uomini provenienti da Pechino” è stato costretto ad abbandonare la candidatura per lasciare spazio a Junius Ho Kwan-yiu, sostenuto appunto dall’Ufficio per le relazioni, che infine ha vinto l’ultimo seggio disponibile nel distretto dei Nuovi territori occidentali.
Ma se la Cina spaventa così tanto gli abitanti della Regione amministrativa speciale, la cui “ampia autonomia” cinquantennale scadrà nel 2047, non è solo per motivi politici. Nel 1997, anno in cui la Gran Bretagna ha abbandonato il Territorio, il pil della sola Hong Kong ammontava al 18,5% di quello di tutta la Cina. Nel 2015, grazie all’inarrestabile crescita cinese, la proporzione si è ridotta al 2,9%. L’88% della popolazione è impiegata nel settore terziario, che sta in piedi grazie alle spese dei turisti cinesi (l’80% dei visitatori totali). La metà delle importazioni di Hong Kong viene dalla Cina e il 43,6% delle esportazioni vi è diretto, facendo così di Pechino il principale partner commerciale del Territorio. Inoltre, 410 miliardi di merci dirette e provenienti dalla Cina passano da Hong Kong, e il 30% degli investimenti diretti a Hong Kong sono cinesi. Anche volendo, insomma, un reale distacco da Pechino sembra impossibile.
Negli ultimi tre anni gli imprenditori della Repubblica popolare ha inoltre fatto irruzione nell’esclusivo mercato immobiliare di Hong Kong, fino a pochi anni fa saldamente in mano a pochissime e ricchissime famiglie del Territorio. Lo spazio è uno dei principali problemi della città: su una superficie grande circa la metà di Roma vivono circa 7 milioni di abitanti; per conservare intatta la bellezza della penisola e delle 236 isole che la compongono, il governo ha deciso che la metà del suolo disponibile (circa 500 km2) non deve essere edificata, per cui agli abitanti resta l’altra metà.
Anche l’informazione di Hong Kong è sempre più cinesizzata. Il giornale più importante e famoso del Territorio, il South China Morning Post, è stato acquistato da Jack Ma, presidente di Alibaba e secondo uomo più ricco della Cina con 23 miliardi di dollari secondo Forbes, che ha promesso di garantire la libertà di stampa – anche se pochi ci credono. La spregiudicatezza infine con cui agenti cinesi hanno fatto sparire cinque librai della metropoli, alcuni arrestati illegittimamente all’interno di Hong Kong (solo perché vendevano libri sui più importanti esponenti del regime, tra cui il segretario generale del Partito comunista Xi Jinping), ha dimostrato quanto potere abbia davvero Pechino a Hong Kong.
Il 22 settembre, Wang Zhenmin, capo dell’Ufficio per le relazioni, ha precisato: “Hong Kong non sarà indipendente neanche tra 1.000 anni, non lo sarà mai”. Per quanto comprensibili dal punto di vista di Pechino – che cosa farebbero Tibet, Taiwan, Macao e lo Xinjiang se Hong Kong ottenesse l’indipendenza? – è proprio questo l’irremovibile e chiuso atteggiamento cinese a spingere decine di migliaia di persone a votare per le frange più estreme del fronte democratico anti-establishment.