Keynes, o come pagare per la guerra al Covid

Dal numero 94 di Aspenia

È stata la grande crisi economica del 2008 a fare scoprire che Keynes non era morto e sepolto, come risultava invece se si stava (e in qualche misura si sta tuttora) alla scienza economica ufficiale insegnata nelle università di buona parte del mondo. Non era affatto sufficiente “un quarto d’ora” per riassumere (e per liquidare) il suo pensiero, come aveva dichiarato qualche tempo prima un premio Nobel dell’economia che insegnava in una delle grandi università americane. Non si trattava soltanto di un capitolo della storia del pensiero economico del Novecento – un capitolo aperto e chiuso nel giro di qualche decennio.

 

LE ALTERNE FORTUNE DELLA TEORIA GENERALE. Forse non era neppure detto che “essere liberali”, nel senso di ritenere sempre e comunque che il mercato funzioni meglio dello Stato, fosse così vero da dover diventare il credo non solo dei conservatori ma anche delle sinistre in Europa e nel mondo, come avevano scritto due ascoltati professori dell’Università Bocconi di Milano. La realtà smentiva ancora una volta il pensiero dominante, così come era avvenuto all’indomani della crisi del 1929, quando le lunghe file degli operai disoccupati in coda per un piatto di minestra avevano travolto le certezze di “un’ortodossia consolidata quanto irrilevante”, come scrisse il premio Nobel James Tobin nel 1983, ricordando l’effetto che ebbe sui giovani economisti americani la pubblicazione nel 1936 della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta.

Come è noto, l’apoteosi dell’influenza di Keynes nel mondo dell’accademia e nella politica economica è stata raggiunta nel trentennio seguito alla seconda guerra mondiale, les trente glorieuses années, che hanno segnato nei paesi occidentali la crescita dei redditi individuali e contemporaneamente l’estensione degli istituti della sicurezza sociale e dato a queste società un volto umano talmente attraente da portare al fallimento gli esperimenti fondati sulla fuoriuscita dal capitalismo. In quegli anni, nelle università la macroeconomia keynesiana era un insegnamento consolidato e non controverso, mentre governi e istituzioni internazionali, dall’OCSE al Fondo monetario, alla Comunità Economica Europea, consideravano l’armamentario keynesiano delle politiche monetarie e fiscali come componente ordinaria del bagaglio di politica economica.

A partire dagli anni Settanta, invece, l’emergere di nuovi problemi, come l’inflazione e la stagflazione, cioè la coesistenza di disoccupazione e inflazione, che sembrava sfidare sia la spiegazione teorica, sia l’armamentario di politica economica keynesiani, e il paziente lavorio intellettuale di pensatori e di economisti del calibro di Friedrich von Hayek e di Milton Friedman, aveva riportato in auge l’ortodossia spodestata da Keynes con la Teoria generale. Non sembrava l’oscillazione di un pendolo, ma la liquidazione definitiva di un’eresia che si era provvisoriamente impadronita delle menti.

Nel 1983, in un convegno tenutosi nel centenario della nascita di Keynes, Paul Samuelson, che era stato uno dei primi e più importanti economisti keynesiani degli Stati Uniti, di fatto rinnegava quell’eredità: “È vero – diceva – che i mercati nel breve periodo non funzionano perfettamente e gli interventi di politica economica possono avere effetti importanti per un certo tempo. Ma di questi tempi la gente impara in fretta e le facili vittorie keynesiane sono da un pezzo dietro le nostre spalle”. E invece, 25 anni dopo, l’esplosione della crisi del 2008 costringeva Samuelson a un’ulteriore correzione di rotta, tanto da affermare: “La causa della peggiore crisi finanziaria degli ultimi cento anni è quella di avere lasciato correre senza briglie il capitalismo libertario del laissez-faire di Friedman-Hayek […]. Questi due uomini sono morti, ma la loro eredità avvelenata continua a vivere”[1].

Una strada del Regno Unito, paese in cui, secondo l’OCSE, i poveri non hanno ancora recuperato i livelli di redditi precedenti alla crisi del 2008

 

IL GRANDE RITORNO DEGLI STRUMENTI KEYNESIANI. Il 2008 segna dunque la fine del rinnovato predominio dell’economia ortodossa e la pandemia del 2020-21 ne ha ulteriormente decretato il tramonto, almeno per quanto riguarda le politiche economiche, monetarie e fiscali. Dopo il glorioso trentennio keynesiano del secondo dopoguerra e dopo il trentennio successivo caratterizzato dalla riscossa dell’ortodossia, il mondo della politica, dell’economia e della finanza oggi sa che il mercato non è in grado di abolire il rischio e l’incertezza e che le fluttuazioni economiche sono parte inevitabile del mercato, così come lo sono gli strumenti di politica economica elaborati da Keynes proprio per tenere conto di questo dato di fatto.

Per la verità l’insegnamento universitario è rimasto più o meno quello degli anni dell’ortodossia. Dubito che nelle Università siano stati messi da parte i modelli matematici basati sulla perfetta conoscenza del futuro e il pieno funzionamento dei mercati. Non c’è stato a livello accademico un vero e proprio “Ritorno del Maestro” (per usare il titolo di un libro di Robert Skidelsky su Keynes). C’è stato invece il pieno ritorno delle idee di Keynes e degli strumenti di politica economica che da quelle idee discendono nelle politiche economiche dei governi e delle banche centrali.

Che cos’è, se non la realizzazione di un auspicio keynesiano, la politica di tassi di interesse bassi o addirittura negativi inaugurata dalle banche centrali dopo la crisi del 2008? Che cos’è il quantitative easing? E a cosa sono ispirate le decisioni negli Stati Uniti sui grandi programmi di spesa pubblica in deficit varati da Joe Biden? Che cosa vuol dire in Europa la sospensione del patto di stabilità nel corso della pandemia e che cos’è il Next Generation EU se non una politica di ripresa economica affidata al sostegno della spesa pubblica in deficit?

Dunque, Keynes è tornato, se non nella versione teorica, certo nell’ispirazione pratica, come un set di strumenti monetari e fiscali al quale banche centrali e governi sono pronti a ricorrere nel caso in cui le economie soffrano di sottoccupazione e fatichino a rialzarsi. Non è un caso che all’indomani dello scoppio della pandemia da Covid-19, in un articolo apparso sul Financial Times, Mario Draghi per primo abbia scritto che era necessario per le banche centrali e per i governi utilizzare pienamente gli strumenti di politica economica keynesiana.

Oggi si devono fare ancora i conti con la pandemia. Essa provoca una doppia crisi: una crisi dell’offerta e una crisi della domanda intrecciate fra loro. Le chiusure imposte dalla necessità di tenere sotto controllo il diffondersi della malattia bloccano l’offerta, ma questo si riflette anche sui redditi dei lavoratori e delle imprese e ciò a sua volta comporta una crisi della domanda. Uscire dalla crisi della pandemia comporta il ricorso sia alle politiche monetarie che alle politiche fiscali in una combinazione che è un po’ diversa da quella che si adotterebbe nel caso di una “semplice” fluttuazione della domanda. Si tratta di delineare una politica economica che abbia insieme interventi dal lato della domanda e da quelli dell’offerta.

 

IL PARADOSSO DI OGGI: RIPRESA CON BASSI CONSUMI. Ma vi è di più. Molto di più. Le analisi emerse in questi mesi dicono che dalla crisi si può uscire soltanto con una trasformazione molto profonda del sistema produttivo, perché nel frattempo sono venuti al pettine i nodi della condizione energetico-ambientale e la insostenibilità del modello economico tradizionale e perché si è posta l’esigenza di trasformare in senso digitale l’economia. Dunque la crisi economica dovuta al Covid richiede da un lato politiche di sostegno della domanda, attuate con strumenti keynesiani sia attraverso le politiche monetarie, sia attraverso la finanza pubblica, ma dall’altra postula una profonda trasformazione dei sistemi economici per adeguarli alle condizioni e alle necessità dell’oggi e del domani.

Servirà un’attenzione particolare alle spese sanitarie. Serviranno investimenti nell’economia digitale. Servirà una trasformazione nel senso delle energie verdi e rinnovabili delle attività di produzione e dei prodotti di consumo. Serve in sostanza un enorme programma di investimenti. Questo programma di investimenti potrebbe in sé costituire la risposta al problema della disoccupazione generata dal Covid sia dal lato dell’offerta che dal lato della domanda. Ma non invece al problema dei consumi.

La questione è in questi termini: possiamo immaginare di tornare rapidamente ai livelli di occupazione pre-Covid o magari – per paesi come l’Italia, che si trascinano da lungo tempo livelli di disoccupazione “strutturale” – possiamo anche immaginare di riassorbire la disoccupazione eccedente e giungere alla piena occupazione. Ci vorrà tempo, ma ci si potrà riuscire. Ma a fronte di questa occupazione, quali beni verranno prodotti? Verranno prodotti beni di consumo che soddisferanno la domanda proveniente dai lavoratori occupati? O invece verranno prodotti o dovranno essere prodotti dei beni di investimento necessari alla trasformazione digitale o verde o circolare delle nostre economie?

E se questa è la situazione, cioè se per un certo tempo dovremo affrontare una ingente assegnazione di risorse non alla produzione di beni di consumo, ma a quella di beni di investimento, allora potremmo avere il paradosso di economie che lavorano a pieno ritmo, pagano salari e stipendi più elevati che in passato ma producono quantità di beni di consumo minori che in passato e anzi debbono garantire di produrre beni di consumo in quantità minori che in passato. In sostanza, potrebbe determinarsi una condizione in cui l’economia lavora a pieno ritmo, ma non è possibile fornire i beni di consumo che a quel ritmo di produzione l’economia tenderebbe spontaneamente a richiedere.

Ecco un problema nuovo o forse antico che merita di essere esaminato e discusso. Un problema difficile perché la sua soluzione non può essere affidata ai meccanismi di mercato o non soltanto a essi e perché esso pone difficili problemi politici.

Esaminiamo separatamente i due aspetti. Sul piano economico, come si è detto, bisogna governare non solo la dinamica complessiva dei redditi in modo che non si determinino pressioni inflazionistiche: bisogna far sì che la composizione della domanda espressa da questi redditi corrisponda alla condizione dell’offerta che riteniamo indispensabile.

Ma questo problema ha un rivolto politico complesso perché in sostanza, dicendo che possiamo fare funzionare il sistema con piena occupazione, ma non possiamo garantire che la produzione abbia la composizione che naturalmente essa avrebbe se tutti fossero liberi di spendere come vogliono, diciamo che dobbiamo imporre una scelta intertemporale che avvantaggia le generazioni future e in un certo senso, se non danneggia, certamente limita le possibilità di consumo delle generazioni contemporanee. Come si fa ad affrontare questo problema?

 

 

LA RISPOSTA PUÒ ESSERE LA POLITICA DEI REDDITI. Ecco che la riflessione sulla trasformazione delle economie imposta sia dalla pandemia, sia dalle necessità dell’ambiente, dalle esigenze imposte dal progresso tecnologico diventa una riflessione politica. Come si fa a guidare una società libera in queste direzioni? Una risposta che venne data 50 anni fa per un problema diverso ma con qualche carattere analogo fu chiamata “politica dei redditi”. Era una politica volta a tenere sotto controllo la dinamica dei prezzi interni in rapporto all’andamento dei prezzi internazionali.

Ma fin da allora vi fu chi colse un aspetto più complesso della questione: cioè una possibile contraddizione fra la composizione della produzione fra beni di consumo e di investimento adatta alle esigenze di medio periodo dell’economia e la composizione invece della produzione che scaturirebbe dalla libertà di destinare come si vuole il proprio reddito. Le società riconoscono – seppure malvolentieri – che una parte del reddito generato venga preso dallo Stato a fronte delle spese per la produzione di beni collettivi. Ma aldilà di questo, quali consumi andranno ridotti e quali ceti dovranno ridurre i propri consumi per fare spazio agli investimenti richiesti dalla trasformazione delle economie?

Questa è la problematica economica e politica che è posta dalla condizione presente delle economie dopo il Covid. C’è uno scritto di Keynes del 1940 che contiene un pezzo della possibile risposta, e che bisogna quindi riportare al centro dell’attenzione. Keynes sostenne nell’opuscolo How to Pay for the War pubblicato nel febbraio del 1940 che per finanziare le spese belliche si potesse ricorrere oltre che al prelievo fiscale anche a un meccanismo da lui concepito di differimento delle paghe. Si sarebbe trattato di riconoscere ai percettori di redditi chiamati a contribuire al costo della guerra il titolo a un rimborso a conclusione del conflitto. Era sostanzialmente l’anticipazione dell’idea delle politiche dei redditi che non hanno avuto fortuna negli anni del dopoguerra, ma che possono ripresentarsi come necessarie quando ci si trovi di fronte all’esigenza di una trasformazione strutturale delle nostre economie.

Conviene tornare nuovamente su questa proposta keynesiana e valutare se e in che misura essa possa adattarsi ai problemi che dovremo affrontare.

A suo tempo un notevole studioso italiano di economia, Giorgio Lunghini, prematuramente scomparso, parlò del pensiero keynesiano come di “un’eredità giacente”. Ecco, esattamente di questo si tratta. Gli scritti di Keynes contengono ammaestramenti preziosi che sono stati in parte compresi e utilizzati; in parte, tuttavia, debbono ancora essere compresi fino in fondo e utilizzati per affrontare i problemi delle nostre società.

 

 


Nota:

[1] Tribune Media Services, 15 ottobre 2008.

 

 


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 94 di Aspenia

 

 

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