Gli europeisti vedono nella risposta di Bruxelles e Francoforte la prova che l’Unione europea esiste ed è utile: la BCE ha fatto più di quanto fosse pensabile, la Commissione ha giustamente congelato il Patto di Stabilità e ora lancia una sorta di “cassa integrazione” europea. Certo, bisognerebbe andare ancora più in là (eurobond) ma sono alcuni governi nazionali, non le istituzioni europee, a impedirlo. In sintesi: non è l’insuccesso del progetto di integrazione ma la conferma di quanto resti necessario. Abbiamo bisogno anche dell’Unione fiscale, di più Europa invece che meno – concludono gli europeisti.
Gli euroscettici vedono la cosa al contrario, naturalmente: la pandemia seppellisce anche l’Unione europea, dimostrando che in tempi difficili esiste solo lo Stato nazionale. La solidarietà non c’è, la Germania fa esclusivamente i conti con se stessa, l’Italia si trova a risolvere i suoi problemi da sola. E quindi a cosa serve l’Europa?
Il risultato è che una crisi di cui avremmo fatto molto volentieri a meno viene letteralmente sprecata. Mentre sarebbe l’occasione, in Italia, per ricercare un nuovo punto di incontro sulla politica europea: la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per metterci in grado di negoziare in Europa con qualche efficacia.
Quale punto di incontro? La risposta va basata sui fatti, sull’Europa che c’è, e non sulle illusioni, sull’Europa che ci inventiamo, nel bene o nel male. Vediamoli, i fatti.
Primo: senza l’ombrello della BCE saremmo in estrema difficoltà. L’Italia salterebbe per aria. Quindi l’Unione monetaria serve; serviva prima e serve tanto più oggi.
Secondo: la sospensione del Patto di stabilità lascia agli Stati nazionali lo spazio fiscale indispensabile per programmi di “recovery” interni. Uno spazio sufficiente per i paesi del Nord, molto più ristretto per un paese ad alto debito come il nostro; che potrà però aumentare ulteriormente l’indebitamento interno (è una conseguenza accettata dei tempi di guerra) e fare leva su massicci acquisti di titoli italiani da parte della BCE. Questi primi due fatti conducono a una conclusione certa, su cui tutte le forze politiche italiane dovrebbero ragionevolmente convergere: non ha nessun senso parlare di uscita unilaterale dall’euro. Nelle condizioni di oggi, equivarrebbe al suicidio economico dell’Italia.
Ma c’è poi un terzo fatto: la pandemia non ha cancellato la contrapposizione fra paesi del Nord – che vogliono evitare una condivisione dei rischi (finanziari) seppure in presenza di un choc comune (sanitario) – e paesi del Sud, alla ricerca di solidarietà fiscale. Questo scarto di posizioni impedisce progressi sul tema degli eurobond o comunque di nuovi emissioni di debito garantite dall’Europa nel suo insieme.
Per fare passi avanti su una strada alquanto impervia, l’Italia dovrà dimostrare che il suo obiettivo non è di sfruttare l’emergenza sanitaria per ottenere in modo surrettizio la mutualizzazione del debito pregresso. La proposta francese di un fondo europeo di ripresa economica con una scadenza temporale (5 o 10 anni) e un debito comune limitato a quel fondo, potrebbe aiutare. Al tempo stesso, dividersi all’interno sul Meccanismo europeo di stabilità non favorisce la nostra credibilità (e potrebbe alla fine isolarci da Francia e Spagna): il negoziato che Roma può ancora fare e anche sperare di vincere è sulle condizionalità di fondi destinati unicamente all’emergenza, senza l’attivazione di forme di tutela esterna (la famigerata Troika) ed eventualmente utilizzati come garanzie per nuove emissioni della Banca europea degli investimenti.
Un compromesso interno per un compromesso europeo? Si, perché anche l’Europa del Nord, cominciando proprio dalla Germania, ha interesse a impedire la crisi terminale della terza economia dell’euro: ciò equivarrebbe, mentre si avvicina una grande recessione, a una bomba sganciata sull’economia continentale. La ricerca di un accordo è quindi necessaria. E probabilmente avverrà sulla base di un “pacchetto” di proposte. L’Italia sarà in grado di negoziare le condizioni migliori possibili solo se avrà alle spalle un consenso più solido: una posizione europea più matura, senza illusioni e senza prevenzioni.
*Una versione di questo articolo è comparsa su La Stampa del 2 aprile