La firma del Memorandum of Understanding sulla Belt and Road Initiative, nel 2019 da parte del governo giallo-verde di Giuseppe Conte, è un caso esemplare di errore politico. Nessuno degli altri grandi Paesi europei e nessun membro del G7 ha aderito a quello che costituisce un progetto strategico della Cina e non solo un progetto economico: la connessione all’Europa (attraverso l’Asia centrale, l’Africa e il Mediterraneo), con forti investimenti per l’acquisizione di infrastrutture critiche. Lasciando da parte i membri vecchi e nuovi nei vari continenti – più di cento Paesi in larga maggioranza a basso reddito, dalla Guinea-Bissau all’Afghanistan dei talebani – in Europa hanno aderito alla BRI quasi tutti i Paesi dei Balcani, più Grecia (sbarco cinese nel porto del Pireo), Malta, Cipro e Portogallo a Sud; Romania, Ungheria, Slovacchia, Repubblica ceca ad Est ed infine i tre Baltici. La tendenza è chiara: i grandi Paesi continentali, a cominciare da Germania e Francia, hanno firmato con Pechino accordi bilaterali impegnativi, da ultimo Emmanuel Macron. Ma nessuno di loro ha deciso di aderire a un progetto geopolitico così platealmente di timbro e di ispirazione cinesi. L’Italia, facendolo, si è in qualche modo “declassata” da sola; e ha dimostrato di non capire le implicazioni politiche di una scelta del genere.
Sarebbe interessante ricostruire l’origine dettagliata della decisione del 2019, che appare come il risultato di un mix fra distrazione, sottovalutazione e pasticcio. Ha per esempio giocato un ruolo rilevante Michele Geraci, allora Sottosegretario al Ministero dello sviluppo economico, con forti connessioni personali in Cina. Nella disattenzione generale, Geraci ha posto le basi del Memorandum bilaterale con l’appoggio del premier di un partito (il Movimento 5 Stelle) convinto di potersi giocare una “carta cinese”. Quando il ministero degli Esteri italiano ha finalmente reagito, sollecitato dai moniti della Presidenza Trump, era tardi per arrestare il processo: era infatti previsto che la firma dell’adesione italiana alla BRI avvenisse durante la visita di Xi Jinping a Roma (marzo 2019), che altrimenti sarebbe stata messa in discussione, incluso ovviamente l’incontro con il presidente Matterella. La “soluzione italiana” è stata di firmare l’accordo ma al tempo stesso di depotenziarlo. Di conseguenza, il Memorandum è in effetti una scatola vuota. Il problema è che per Pechino continua a contare il suo significato simbolico e politico. Per converso, quello che contava per l’Italia – un salto di qualità nei rapporti economici e commerciali – non si è poi materializzato.
Guardando ai risultati concreti, il Memorandum non ha infatti di per sé prodotto vantaggi economici significativi per l’Italia; mentre ne ha danneggiato la credibilità politica, specie quando la competizione fra Cina e Stati Uniti, il nostro principale alleato, è diventata aperta e diretta. Nel 2019, l’UE trattava ancora con Pechino un Accordo sugli investimenti (voluto da Angela Merkel in particolare), concluso alla fine del 2020 ma di cui il Parlamento Europeo ha poi sospeso la ratifica. L’Accordo, nella forma attuale, è di fatto morto. Donald Trump cominciava ad attuare restrizioni commerciali pesanti contro la Cina, ma il clima fra i due giganti del secolo non era ancora così deteriorato come è oggi. Resta il fatto che non ci voleva una grande immaginazione per capire tutti i contro, e i pochi pro, dell’adesione italiana alla BRI. A ciò si è sommato l’errore di non prevedere una scadenza temporale del Memorandum, inserendo invece una clausola inusuale di rinnovo automatico che fa ricadere l’onere dell’interruzione dell’accordo interamente su Roma.
Per il governo italiano, oggi, il problema è la limitazione dei danni: politici con gli Stati Uniti, economici con la Cina. Se sceglierà di uscire dalla BRI (Roma ha tempo fino a dicembre per comunicare a Pechino questa sua eventuale intenzione), l’Italia subirà prevedibilmente ritorsioni commerciali. La diplomazia “coercitiva” della Cina è di tipo vendicativo: bastino, per ricordarlo, i precedenti di Lituania e Australia. Se resterà nella BRI, Roma si esporrà alle critiche di parte dei suoi alleati, a cominciare da Washington. Giorgia Meloni ha puntato molte delle sue fiches sul tavolo atlantico, come indica la fermezza sulla guerra in Ucraina, avvalorata dalla visita a Roma di Volodymyr Zelensky il 13 maggio. Il problema Cina le può però complicare i rapporti con l’amministrazione Biden, che vede nella competizione con Pechino la vera sfida strategica a lungo termine. E lo stesso sarebbe con un successore repubblicano alla Casa Bianca.
Sul versante economico, i dati degli ultimi anni (con l’impatto sentito del Covid e quello mancato del Memorandum) indicano un aumento modesto degli investimenti diretti di Pechino in Italia (sono assai superiori gli investimenti in Germania e Gran Bretagna) e livelli in ascesa ma contenuti dell’interscambio commerciale, con una crescita più importante dell’import dalla Cina (da 31 a 57 miliardi di dollari circa fra il 2019 e il 2020) che del nostro export (da 13 a 16,6 miliardi). Al di là dei valori assoluti, la Cina è comunque un mercato primario per settori specifici dell’industria italiana. Abbiamo insomma una vulnerabilità settoriale, che riguarda per esempio meccanica, farmaceutica e lusso. In questi ultimi due casi, in particolare, il mercato cinese è molto rilevante ed è in forte crescita nel post-Covid.
E’ d’altra parte vero che l’Italia ha poi bilanciato l’adesione alla BRI con un uso estensivo della golden power a protezione di infrastrutture strategiche; e ha esercitato maggiori controlli (a partire dal caso Huawei in poi) sulle tecnologie. Paradossalmente, proprio la firma di un Memorandum sbagliato è stata poi compensata con scelte più rigide di quelle compiute da Berlino (che ha infine deciso a favore della partecipazione di minoranza cinese in un terminal del porto di Amburgo) e da Parigi: il testo dell’accordo appena siglato da Macron e Xi Jinping, a latere della grossa commessa di Airbus, è molto più impegnativo della scatola vuota nostrana.
L’Italia ha di fronte due strade possibili: trattare con Pechino una via di uscita non troppo costosa dalla BRI, negoziando eventualmente (se riuscirà) un nuovo accordo economico; convincere Washington che la propria politica verso la Cina non danneggia la scelta del “de-risking” (in particolare nel campo delle tecnologie sensibili) su cui sta convergendo il G7 e su cui si sta orientando l’UE. Giorgia Meloni può rivendicare con Washington l’uso estensivo della golden power e può fra l’altro fare valere l’abbozzo di un’attenzione specifica verso l’Indopacifico. Negli ultimi mesi, Roma ha stretto i rapporti con gli alleati asiatici degli Stati Uniti impegnati nel contenimento della Cina, a cominciare dal Giappone, e ha sviluppato le relazioni con l’India; mentre Taiwan ha aperto a Milano una seconda rappresentanza commerciale.
In teoria, la cosa migliore sarebbe stata quella di parlare il meno possibile del dossier BRI, di lasciarlo insomma sottotraccia. Ma la rilevanza del problema Cina, nella politica occidentale, ha in qualche modo reso questa discussione inevitabile. Ed è importante che, a differenza del 2019, le implicazioni delle decisioni da prendere siano vagliate con attenzione. Vedremo presto se prevarranno i rischi economici o quelli politici, nei calcoli del governo italiano. Ma quando si eredita un pasticcio, qualunque scelta è destinata ad avere dei costi, prima che veri vantaggi.
*Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica del 17 maggio