Dopo anni di dibattito dalla sfera dell’accademia e della riflessione filosofica all’agone politico e un lungo e controverso iter parlamentare, la Knesset ha approvato in luglio con 62 voti a favore e 55 contro la “legge della nazione”, una legge fondamentale con uno status quasi costituzionale. Israele diventerà in virtù della legge da “stato ebraico e democratico” – un ossimoro secondo alcuni, un tentativo in parte almeno riuscito in questi 70 anni secondo altri di conciliare lo “stato degli ebrei” concepito da alla fine dell’800 da Theodor Herzl e dagli altri padri fondatori del sionismo, uno stato cioè dove gli ebrei potessero autodeterminarsi in una nazione, fossero maggioritari e così padroni del proprio destino, con il principio di una democrazia per tutti i suoi cittadini – uno “stato ebraico”. Il richiamo alla democrazia è ignorato, omesso. Ed è ignorato, cosa più grave nella sostanza dei fatti, lo spirito della Dichiarazione di indipendenza del 1948 che prescrive “…completa eguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso…”.
La legge riflette lo spirito dei tempi: l’offensiva del radicalismo di destra, espresso dal partito “Casa ebraica” dei ministri dell’Istruzione Naftali Bennett e della Giustizia Ayelet Shaked e da parte ormai preponderante del Likud, specie nella generazione più giovane, con leggi volte a limitare la libertà d’espressione – soprattutto nel mondo delle ONG e dei movimenti dediti alla difesa dei diritti umani -, l’indipendenza del potere giudiziario, in particolare i poteri della Corte suprema, il pluralismo delle opinioni, in una società in cui larghi strati dell’opinione pubblica appaiono indifferenti od anche ostili ai vincoli dello stato di diritto e intolleranti del dissenso. Una patologia che rende Israele più simile ad altri paesi (dagli Stati Uniti di Donald Trump all’Ungheria di Viktor Orban) dove si agitano spinte nazional-populiste ed autoritarie e si violano le norme della democrazia liberale.
Ironicamente qualche giorno prima del voto Yousef Habareen, deputato della Lista araba unita, aveva presentato un disegno di legge che definiva Israele stato “democratico, egualitario e multiculturale”, con l’obiettivo di assicurare la piena eguaglianza fra ebrei ed arabi e di superare le forti discriminazioni che vi si frappongono nell’istruzione, nell’allocazione della terra per costruire case (il Fondo nazionale ebraico possiede tuttora il 13 % della terra, che riserva ai cittadini ebrei), nel mercato del lavoro, nei servizi sociali.
I punti cardine della legge comportano profonde conseguenze sulla natura di Israele:
1. Con Israele definito stato-nazione del popolo ebraico, il diritto all’autodeterminazione è limitato agli ebrei. Ciò significa disconoscere il fatto che vi è in Israele un’altra nazione o etnia che nulla potrà dire circa il carattere dello stato di cui i suoi membri – gli arabi – sono cittadini con pari diritti. Pari diritti individuali sì, ma non i diritti collettivi di una minoranza nazionale, che dovrebbe potere conseguire attraverso strumenti legislativi e atti concreti uno status non inferiore a quello degli ebrei israeliani, un po’ come avvenne negli Stati Uniti degli anni ‘60-70 con la “affirmative action” per sollevare gli afro-americani dalla condizione di minorità.
2. L’arabo non sarà più seconda lingua ufficiale del paese, ma rivestirà uno status vagamente definito come “speciale”.
3. Gerusalemme (intera) è definita come capitale unita di Israele.
4. Sarà compito dello stato sviluppare e promuovere “insediamenti ebraici” come “valore nazionale”. Il termine “insediamento” è assai pregnante. Non si precisa dove – entro la Linea verde, nei Territori? Questa clausola è una variante edulcorata di quella che, in versioni precedenti del disegno di legge, consentiva di “stabilire comunità separate sulla base della religione o dell’etnicità”, a cui si erano opposti il Presidente Reuven Rivlin e il Procuratore generale Avichai Mandelblit, oltre a numerose organizzazioni ebraiche negli Stati Uniti, in un documento che criticava una norma che rischia di discriminare non solo gli arabi, ma altre minoranze (immigrati, ebrei non ortodossi, mussulmani, cristiani). Ma anche nel testo approvato promuovere insediamenti ebraici comporta abbandonare quelli non ebraici, per quanto riguarda abitazioni e servizi pubblici, ad un limbo opaco.
5. Israele si adoprerà nella Diaspora per preservare i legami fra esso e il popolo ebraico. Anche questa formulazione è frutto di un compromesso voluto dai partiti ultra-ortodossi che hanno preteso quella dizione – “nella Diaspora” – per evitare che si potesse altrimenti interpretare come un avallo al pluralismo religioso in Israele, in particolare a conversioni e matrimoni celebrati da rabbini riformati o conservative e ad accordi più volte negoziati e poi disattesi circa spazi egualitari di preghiera al Muro del pianto.
Il dualismo fra “ebraico” e “democratico” esiste fin dalla nascita dello stato; basti pensare alla Legge del Ritorno che consente agli ebrei del mondo di diventare cittadini di Israele immigrando nel paese. Che Israele sia uno stato “ebraico”, non solo perché luogo di rifugio dalla persecuzioni di un popolo disperso, ma perché l’identità collettiva del paese è impregnata di cultura ebraica (la lingua, le feste, il calendario, i simboli pubblici, dalla bandiera alla menorah) è certamente legittimo. Ma non è accettabile che lo stato favorisca il gruppo ebraico rispetto ad altre etnie. La novità dell’oggi è che la legge codifica questa discriminazione.
In più, uno stato che non ha confini certi e riconosciuti come può definirsi ? Se i territori palestinesi fossero annessi, come si configurerebbe Israele come lo stato-nazione del popolo ebraico? Si giungerebbe così anche formalmente ad uno stato binazionale, ma non egualitario, non democratico, con diritti pieni solo per gli ebrei. Uno stato bandito dalla comunità delle nazioni e destinato ad una perenne guerra interetnica fra arabi ed ebrei.
Come ha scritto David Grossman (Repubblica, 3 agosto): “…l’intenzione del governo è mantenere aperta la ferita del rapporto fra lo stato e la minoranza araba… perché essa così è più vulnerabile, più facile ad essere sobillata, intimidita e divisa, più propensa a subire una politica di divide et impera. Ritengo che le ultime leggi siano il risultato di un modo distorto di pensare prodotto da cinque decenni di occupazione e di un senso di superiorità etnico. […] Un qualche noi nazionalista che vuole buttare fuori di casa tutto ciò che non ci appartiene, un altro popolo, un’altra religione, una diversa tendenza sessuale. Ma forse questa legge ci fa un grosso favore perché mostra a tutti noi, di destra e di sinistra, a che punto siamo arrivati, dov’è precipitato Israele. Forse la legge darà una scossa chi tra noi si preoccupa per il paese, il suo spirito, la sua umanità, i suoi valori ebraici, democratici ed umani.”
L’opposizione alla legge è stata agguerrita, in Israele e nella Diaspora: da un lato petizioni di scrittori ed artisti, lettere di protesta di ex diplomatici, manifestazioni a Piazza Rabin organizzate dalla comunità drusa e dai partiti e movimenti d’opinione arabi, dall’altro pronunciamenti di organizzazioni ebraiche in America (Jstreet e molte altre) e in Europa (Jcall). Queste ultime insistono sui diritti delle minoranze come misura di un sistema democratico, a cui noi ebrei siamo particolarmente sensibili per la nostra storia di discriminazioni subite nonché per la nostra stessa condizione di comunità di minoranza insediate in società nelle quali la difesa della democrazia e del pluralismo è principio vitale dì convivenza.
Leggi anche:
Israel at 70: a hybrid and sturdy nation-state, with hard decisions ahead
Claudia De Martino