Israele dopo il voto: sfide difficili per la democrazia

Dopo una campagna gravida di offese personali, volgarità, accuse mistificatorie, e con un’opinione pubblica polarizzata sugli estremi, il Likud di Benjamin Netanyahu e un insieme di partiti religiosi e della destra nazionalista hanno prevalso nelle elezioni di Israele. Pur con lo stesso numero di seggi per il suo partito rispetto a quelli del partito di centro suo avversario, Netanyahu, giunto alla sua settima corsa elettorale come leader del Likud e candidato alla premiership, e alla quinta vittoria – nel 1996, 2009, 2013, 2015 e oggi –  dovrebbe essere in grado di formare un  governo con una coalizione non dissimile da quella che ha retto il paese negli ultimi anni: il suo partito ne sarà nuovamente il centro di gravità, più forte di prima. Secondo le stime, il margine di tale coalizione rispetto all’opposizione sarebbe di 10 seggi (65 contro 55).

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, alla quinta riconferma

 

E’ stato Netanyahu a volere le elezioni anticipate, un po’ come se fossero un plebiscito sul suo conto, un giudizio popolare sulle accuse che gli sono state mosse negli ultimi mesi. La rielezione gli consentirà forse di evitare un processo, o almeno di restare in carica nonostante le imputazioni, per tre accuse di corruzione, frode ed abuso di fiducia, nonché un quarto caso connesso all’acquisto di sottomarini tedeschi, su cui le indagini sono ancora in corso.

Le elezioni sono state distorte quindi nella loro natura, in quanto l’oggetto del contendere è stato in misura predominante il futuro di Netanyahu, le sue vicende processuali e il suo futuro politico. I temi dirimenti per il paese – un accordo di pace con i palestinesi e il mondo arabo, il rispetto dello stato di diritto e delle prassi democratiche, il legame controverso fra religione e politica e il monopolio del rabbinato ortodosso in materie anche civili, l’acuirsi delle diseguaglianze socio-economiche – sono stati elusi. In occasione di queste elezioni è nato un partito, “Blu e bianco” (i due colori di Israele), capeggiato dall’ex capo di stato maggiore Benny Gantz e dall’ex giornalista televisivo Yair Lapid. Ma neanche la nuova formazione centrista-liberale è riuscita a imporre il dibattito su questi temi.

Solo la sinistra – il Meretz, i laburisti, i partiti arabi – ha sollevato con forza il dilemma drammatico che incombe sul futuro di Israele e sulla sua democrazia incompiuta. A limitare lo stato di diritto nel Paese ci sono da un lato la recente legge sullo “stato-nazione ebraico”, che codifica uno stato di non eguaglianza tra ebrei e arabi cittadini di Israele; i secondi godono infatti di pari diritti individuali, ma non dei diritti collettivi propri di una minoranza nazionale. Dall’altro, il clima ossessivo volto a delegittimare e colpire istituzioni e poteri istituzionali indipendenti – il sistema giudiziario, soprattutto la Corte suprema, e poi l’accademia, il mondo della cultura, la stampa, le ONG attive nella difesa dei diritti umani.

Quest’ultima è una deriva simile a quella vista in stati come la Polonia e l’Ungheria, il Brasile e la Russia, paesi con i quali Netanyahu ha appunto lanciato da tempo una diplomazia attenta e seduttiva. In particolare, è stato manifesto il proposito del governo uscente di rompere l’unità diplomatica della UE sulla questione palestinese – la difesa del principio di “due stati per due popoli” – e sul sostegno all’accordo con l’Iran sul nucleare, scardinandola a partire dai paesi del gruppo di Visegrad retti da partiti nazional-populisti. Ma al di là della Realpolitik vi è anche un’affinità sul piano ideologico fra il Likud e alcuni di questi partiti che esaltano l’identità etnica, il rifiuto degli immigrati, l’intolleranza del diverso.

Netanyahu ha vinto le elezioni anche in virtù della sua spregiudicatezza tattica e di una bella dose di fortuna, e ai festeggiamenti si uniscono gli Stati Uniti di Donald Trump e la Russia di Vladimir Putin. Trump gli ha concesso una triade di doni da offrire all’opinione pubblica israeliana: il ripudio unilaterale dell’accordo nucleare con l’Iran, lo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme e infine, in piena campagna elettorale, la decisione di riconoscere la sovranità di Israele sulle alture del Golan siriano – una decisione che incoraggia l’annessione di parti corpose della Cisgiordania al territorio di Israele, che la destra israeliana propugna. Lo stesso Netanyahu ha affermato all’ultimo momento l’intento di andare proprio in quella direzione, direzione che seppellirebbe una volta per tutte l’idea del “due popoli – due stati” come soluzione del conflitto israelo-palestinese.

La situazione tra Israele e Russia era più delicata, soprattutto perché i due stati risultano avversari sul campo di battaglia della Siria, dove Putin ha sostenuto il regime di Bashar al-Assad e non ha ostacolato la presenza delle truppe iraniane ai confini stessi di Israele, nel sud della Siria e in Libano. Ma il Cremlino, proprio pochi giorni prima del voto, ha fatto un gesto significativo di amicizia con la consegna a Netanyahu, in visita a Mosca, dei resti di un soldato israeliano ucciso nel 1982 in Libano – resti ritrovati proprio in Siria. Un gesto importante, data la tradizione così forte e condivisa nella società israeliana di recuperare ad ogni costo soldati prigionieri o dispersi o caduti sui fronti di guerra.

I partiti di centro-sinistra hanno subito le contraddizioni tipiche di un confronto politico spostata sul piano etno-nazionalista, dove le posizioni intermedie soccombono. Hanno sì reso manifesta l’opposizione alla legge sullo “stato nazione” richiamandosi ai principi di eguaglianza sanciti dalla Dichiarazione di indipendenza del 1948, e insistito sulla difesa dello stato di diritto. Tuttavia, sono apparsi scettici, dubbiosi circa la loro stessa proposta politica sul terreno della pace o almeno di una pragmatica coesistenza con i palestinesi, nonché sull’urgenza di preservare l’identità di Israele come stato ebraico e democratico, il che esigerebbe il ritiro dai Territori e la nascita di uno stato palestinese sovrano accanto ad Israele.

Le urne sono state per loro più amare che mai: la sinistra ebraica, composta dai laburisti e dal Meretz, ha ottenuto meno del 10% dei suffragi. I partiti arabi, divisi in due tronconi, hanno perso voti rispetto al 2015, soffrendo anche del massiccio astensionismo dei cittadini di origine araba. Quasi il 20% dell’elettorato, questa parte della popolazione è irritata per le divisioni del proprio campo, delusa per il varo della legge sullo “stato-nazione ebraico” e segnata da un crescente senso di alienazione dal sistema politico del paese.

Al di là dei fatti contingenti, vi è però in atto da tempo uno spostamento profondo e permanente della società israeliana verso posizioni etno-nazionaliste. Il Likud, un tempo più moderato, oggi sostiene l’annessione in parte o toto della Cisgiordania. Alcuni dei partiti minori alla destra del Likud sono dominati ormai da un’ideologia integralista. Oltre il 50% degli israeliani si dichiara di destra, contro circa il 25% di centro e meno del 15% di sinistra. Tra varie cause, il fenomeno è dovuto alle trasformazioni sociali e demografiche del paese, quali la grande immigrazione dalla Russia post-sovietica dei primi anni ’90 e il crescere del peso demografico dei religiosi. Ma conta anche la via nichilista imboccata dai palestinesi: la violenza terroristica dell’intifada negli anni 2001-05, la guerra di guerriglia mossa da Hamas dalla striscia di Gaza, il rifiuto di Abu Mazen alle offerte di accordo del governo Olmert-Livni nel 2008, hanno convinto molti israeliani dell’impossibilità di un accordo con la componente palestinese.

I 400.000 coloni insediatisi in Cisgiordania contribuiscono a rendere la soluzione “a due stati” sempre più difficile nei fatti; ma anche una vasta parte dei quasi 7 milioni di cittadini di ebrei preferisce ormai che i palestinesi restino “invisibili”, dietro il muro di separazione. Questi non vedono la pace e la democrazia come un’esigenza fondamentale, e guardano ai palestinesi come un nemico ineluttabile, da contenere in un conflitto “a bassa intensità”. Vivono ormai fra il mare Mediterraneo e il Giordano, stretti in una contesa politico-territoriale, 6,7 milioni di ebrei e 6,7 milioni di arabi (di cui circa 1,8 milioni sono cittadini di Israele, quasi 2 milioni sono schiacciati a Gaza, e quasi 3 vivono in Cisgiordania). Secondo serie inchieste d’opinione solo un terzo degli israeliani sostiene convinto una soluzione “a due stati”, il 19% opta per uno stato unico, il 27% per qualcosa di indistintamente diverso, il 20 % non risponde. Ma negli stessi sondaggi solo il 28% degli israeliani si dichiara contrario ad ogni forma di annessione; il 15% vuole l’annessione piena, e senza diritti per gli abitanti palestinesi, mentre l’11% opta per un’annessione che assicuri pari diritti civili e politici per gli stessi palestinesi, cioè per la soluzione di uno stato con due nazionalità su base egualitaria.

In questa grande incertezza, la volontà egemone nel governo è quella di mantenere lo status quo: forse senza un’annessione formale, ma espandendo senza limite alcuno, a poco a poco ma inesorabilmente, gli insediamenti e i loro residenti. Eppure il ripetersi di una guerra distruttrice con Hamas, il numero di vittime soprattutto civili fra gli abitanti della Striscia, gli immani costi materiali, le aggressioni contro israeliani a Gerusalemme o sulle strade Cisgiordane dimostrano che il costo della non-pace è enorme. L’illusione che i palestinesi accettino per l’eternità un’occupazione umiliante è pericolosa per lo stesso Israele.

 

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