Interrogarsi sull’opportunità di sussidiare il mercato del lavoro significa in sostanza chiedersi quanto e in che modo un governo debba intervenire sull’economia, col rischio di riportare la lancette della storia all’epoca dei dibattiti fra socialisti e liberali. Negli anni Trenta del secolo scorso questa diatriba fu icasticamente rappresentata dal duello intellettuale fra John Maynard Keynes e Friedrich Von Hayek, raccontato in un bel libro di qualche anno fa di Nicholas Wapshott. Oggi che l’interventismo economico dei governi ha raggiunto livelli notevolissimi (con il 40,9% del pil nella media dei Paesi OCSE), e a fronte di un’opinione pubblica che sembra chiederne a gran voce anche di più, è decisivo porsi la domanda e provare a delineare una risposta.
Conviene anzitutto ricordare alcune definizioni. Il mercato del lavoro, come ogni altro, si compone di una domanda e di un’offerta. La prima rappresenta la disponibilità delle imprese a chiedere lavoro, la seconda ci dice quanto lavoro sono disposte a offrire le persone. Quindi la domanda di lavoro è quella delle imprese, l’offerta è quella dei lavoratori. Qualsiasi forma di incentivo, perciò, si può progettare sia sul lato dell’offerta, stimolando la partecipazione dei lavoratori al mercato, sia sul lato della domanda, incoraggiando le imprese a chiedere (ossia creare) lavoro. Nel tempo queste politiche sono state perseguite su entrambi i fronti, ma la teoria tende a separare i punti di osservazione per ragioni di semplicità.
Per semplificare la nostra ricognizione, possiamo partire da un paper pubblicato dal National Bureau of Economic Research (NBER, organizzazione americana di ricerca) circa un anno fa (“Welfare reform and the labor market”) che analizza proprio alcune politiche pubbliche realizzate sul lato dell’offerta, quindi per aumentare la partecipazione dei lavoratori. Il paper esordisce notando come il rapporto fra i programmi di welfare e il mercato del lavoro sia uno dei campi di interessi più frequentati del dibattito economico recente. Non è difficile capirne la ragione. Le società occidentali di oggi sono il frutto di un patto politico, siglato nel secondo dopoguerra, basato sulla promessa della piena occupazione, come osservava già Luigi Einaudi in uno scritto dell’epoca. Tale promessa, visibile ad esempio nel primo articolo della Costituzione italiana, ha condotto naturalmente i governi a intervenire nel mercato del lavoro, anche partecipandovi direttamente, con ciò suscitando molti interrogativi sulla qualità, la quantità e soprattutto gli effetti di questo intervento.
Questo spiega perché già dagli anni ’60 si elaborarono strumenti statistici per quantificare gli effetti delle politiche governative. Uno dei primi tentativi fu quello stimolato dall’analisi degli effetti sul lavoro di una negative income tax (NIT), ossia di un’imposta negativa sul reddito, frutto delle riflessioni di Milton Friedman, che si pensava potesse aumentare l’offerta di lavoro. Da allora si è sviluppata una notevole fioritura della modellistica, mano a mano che il dibattito teorico e quello politico sviluppava varie idee di riforma del welfare. Si fecero strada le proposte più disparate, dai sussidi monetari diretti ai redditi più bassi, a quelli indiretti, sotto forma di servizi, per le famiglie con figli (dal cibo all’assistenza sanitaria), oppure programmi di job training, fino ai programmi che richiedono un tempo minimo di lavoro per avere i sussidi e un tempo massimo di erogazione del sussidio, come ad esempio il Temporary Assistance for Needy Families (TANF) statunitense. Fu necessario, di conseguenza, sviluppare strumenti sempre più raffinati di analisi per capire sostanzialmente il costo/opportunità di queste scelte politiche.
Da questo punto di vista l’esperienza di USA e Regno Unito sui sussidi alle retribuzioni e all’infanzia è molto istruttiva. Negli Stati Uniti la Earned Income Tax Credit (EITC), approvata nel 1975, che fornisce incentivi ma sostanzialmente solo a chi lavora, ha mostrato che questo tipo di supporto tendeva a fare aumentare la partecipazione al lavoro delle madri single. Dalla metà degli anni ’90 si iniziò a ridurre il sostegno ai non lavoratori, per aumentare quelli a favore dei lavoratori. Questa filosofia fu alla base della politica americana conosciuta come “work-based safety net”, che ha condotto a un aumento dell’occupazione, ma non sempre a un aumento del reddito familiare. Un esito da non sottovalutare.
Nel Regno Unito si è osservata una situazione molto diversa per la semplice ragione che i benefici a favore dei disoccupati sono superiori rispetto a quelli statunitensi. I sussidi iniziarono nel 1971 con il Family Income Supplement, che condurrà al Family Credit nel 1988 e al Working Families Tax Credit nel 1999. Col nuovo secolo, nel 2003, fanno capolino il Working Tax Credit e, nel 2013, l’Universal Credit. Le analisi condotte hanno mostrato una certa difformità nella fruizione dei benefici. Ma soprattutto hanno mostrato effetti molto disparati sul mercato del lavoro anche relativamente ai tassi di partecipazione. Alcuni studiosi hanno osservato che un aumento degli incentivi per chi lavora del 25% ha condotto a una crescita della partecipazione delle madri single del 2,5%. Al tempo stesso altri hanno correlato tale crescita a una diminuzione (-0,6%) della partecipazione delle donne sposate mentre aumentava la partecipazione degli uomini sposati. Il che, al di là della fondatezza di queste osservazioni, ci riporta al cuore del problema: le conseguenze non intenzionali. Qualunque tipo di intervento produce effetti del tutto imponderabili e fuori dal controllo del pianificatore, che poi è l’obiezione principale del pensiero liberale a quello socialista.
Ma poiché è impensabile che la politica non intervenga, forse la strada da percorrere è chiedersi quale possa essere il modo più efficace. Nel caso delle politiche sul lato dell’offerta, ad esempio, uno degli interrogativi sul quale gli studiosi e gli osservatori si arrovellano da tempo riguarda la funzione dei sussidi per la disoccupazione. Le domande sono semplici: in che modo incidono sull’offerta di lavoro? Sussidi elevati possono scoraggiarla?
Sono questioni che risalgono a tempi lontanissimi, come sa chiunque abbia letto “La grande trasformazione” di Karl Polanyi, dove, fra le altre cose, si racconta la storia della Speenhamland Law, la legge dei sussidi approvata in Gran Bretagna nel 1795 che emendò la Poor Law di epoca elisabettiana. Lo scopo della normativa era integrare i redditi con un sussidio agganciato al prezzo del pane “in modo da assicurare un reddito minimo ai poveri indipendente dai loro guadagni”. Un’esigenza sorprendentemente attuale. Questa normativa, scriveva Polanyi, “introduceva una innovazione sociale ed economica come quella del diritto di vivere e fino a che non fu abolita, nel 1834, essa impedì l’istituzione di un mercato concorrenziale del lavoro”. Detto altrimenti, il sussidio “distorceva” il mercato del lavoro, sia dal lato della domanda che dell’offerta. Lo stesso Polanyi riconosceva che, da una parte, il lavoratore non aveva interesse al suo livello di salario, e tanto meno a svolgere una buona prestazione, perché tanto l’integrazione del reddito al minimo, sarebbe stata garantita dallo stato. Da parte loro, i datori di lavoro, potevano pagare qualunque salario ritenessero opportuno per la stessa ragione. La conseguenza fu che nel giro di pochi anni la produttività crollò. “Alla lunga – scrive – il risultato fu agghiacciante.
Per quanto occorresse del tempo prima che il rispetto di sé dell’uomo comune cadesse così in basso da preferire il sussidio per i poveri al salario, i salari che venivano integrati per mezzo di fondi pubblici erano in numero illimitato, tanto da spingerlo a sostenersi con essi. Poco a poco la gente della campagna fu immiserita, l’adagio ‘una volta il sussidio, sempre il sussidio’ era una verità”.
La circostanza che l’analisi di una vicenda accaduta nel XIX secolo sia stata fatta nel 1944 da un autore celebre per la sua critica all’economia di mercato, dovrebbe servire a comprendere quanto antica e complicata sia la questione e quanta prudenza occorrerebbe adottare quando si legifera sul mercato del lavoro.
In effetti, se dall’analisi sommaria che abbiamo fatto di alcune politiche pubbliche sul lato dell’offerta, ci spostiamo a quella delle politiche sul lato della domanda, il discorso cambia poco. Gli interventi pubblici possono essere del più vario genere: da interventi fiscali che diminuiscano il costo del lavoro per l’impresa, ad esempio diminuendo i contributi da versare per il lavoratore, a finanziamenti diretti alle imprese, fino ad arrivare a domandare direttamente lavoro tramite la pubblica amministrazione o le imprese pubbliche. Queste pratiche vengono perseguite tutte, ovviamente, connotandosi la differenza fra i vari paesi solo relativamente alla declinazione di tali strumenti o alla loro intensità. La letteratura economica su questo versante è praticamente sterminata e tutt’altro che univoca quanto alle conclusioni. Può essere interessante perciò tentare un’altra strada, di natura più empirica, per farsi un’idea non solo delle dimensioni del fenomeno, ma anche dei suoi effetti.
Come strumento di osservazione ci serviamo di un database OCSE che quantifica la spesa pubblica sul pil per il mercato del lavoro dei paesi dell’area. Nella definizione OCSE questa spesa comprende i servizi pubblici per l’impiego, la spesa per la formazione, i sussidi per l’assunzione e la creazione di posti di lavoro anche diretti nel settore pubblico, fino ad arrivare alle indennità di disoccupazione. Quindi si parla di sostegno sia sul versante dell’offerta (la formazione migliora la qualità dell’offerta di lavoro, ad esempio) che sul lato della domanda (assunzione di lavoratori nella Pubblica Amministrazione).
Il grafico seguente prende in esame l’andamento della spesa pubblica sul pil per il lavoro dal 1985 per alcuni dei principali paesi dell’area.
Mentre questa seconda elaborazione visualizza l’entità della spesa su tutti i paesi dell’area con dati riferiti all’anno 2016.
Un’analisi comparata ci offre alcune d interessanti. La prima è che la spesa pubblica per il mercato del lavoro ha avuto un andamento molto altalenante nelle varie economie.
Si osserva tuttavia un andamento comune nei momenti di crisi più gravi. Quindi a inizio anni ’90 e dopo il 2008.
Il grafico relativo ai dati globali 2016 invece ci comunica un’informazione più generale: è innanzitutto l’Europa a sostenere con la spesa pubblica il lavoro. Giappone e USA stanno sotto l’1% del pil almeno dal 1985. Il sussidio pubblico al mercato del lavoro, insomma, visto attraverso le particolari lenti di questo strumento statistico, sembra un fatto squisitamente europeo. Anche il picco di “interventismo” che si osserva negli USA dopo la crisi del 2008, quando la spesa pubblica sul PIL superò l’1%, è rapidamente tornato ai livelli inferiori allo 0,5% che si osservano da un ventennio. Si può dire che questa situazione abbia determinato, negli Stati Uniti e in Giappone, un mercato del lavoro meno efficiente? Se si guardano i dati generali, ossia i tassi di disoccupazione e di partecipazione, la risposta non può che essere negativa. Sia negli USA che in Giappone la disoccupazione è bassa e la partecipazione (cioè il rapporto tra forza lavoro e popolazione) è alta.
In Europa la situazione è fortemente differenziata, ma non si può affermare che il mercato del lavoro francese, sul quale il governo investe il 2,98% del pil, sia migliore di quello tedesco, dove l’indice è fermo all’1,46%. Anzi, molti direbbero che probabilmente è il contrario.
A ben vedere, ciò che qualifica un mercato del lavoro, oltre ai tassi di partecipazione o di disoccupazione, è il livello di produttività sottostante, che finisce con il determinare anche il livello delle retribuzioni. Ma questo aspetto è spesso trascurato nelle varie normative che sussidiano il lavoro, per lo più orientate a garantire trasferimenti di risorse. E forse è proprio questo il problema, al di là dei sussidi in quanto tali.