Sebbene non molto popolosi né prosperi, i Balcani Occidentali ricoprono un ruolo primario nelle nuove vie della seta, l’ambiziosa strategia (annunciata nel 2013 dal presidente Xi Jinping) con cui la Cina mira a fare dell’intera Eurasia un unico mercato interconnesso. Posizionati al crocevia tra bacino mediterraneo ed Europa, bisognosi di investimenti infrastrutturali e spesso governati da élite politiche spregiudicate, per Pechino questi Stati rappresentano lo scenario ideale per tentare di espandere la propria influenza sul suolo europeo.
Il Paese che tuttora si auto-percepisce come “Impero del Centro” interagisce con la regione nel contesto del meccanismo 17+1, il forum che riunisce tutti gli Stati dell’Europa post-comunista (UE e non), ritenuti più ricettivi (o vulnerabili) rispetto alle controparti occidentali. Dopo il successo dell’ultimo meeting a Dubrovnik nell’aprile 2019, che ha sancito l’entrata della Grecia nel gruppo, nel 2020 la cooperazione tra la Cina e i diciassette partner europei dovrebbe entrare in una “nuova fase”.
Le azioni di Pechino nel quadrante sudorientale del Vecchio Continente puntano a inserirsi nella costruzione o nella modernizzazione di infrastrutture strategiche, presentandosi come un partner affidabile, competente e indifferente al regime istituzionale e alle preferenze politiche dei propri interlocutori. Il contrasto con l’azione del principale attore della regione, l’UE, non potrebbe essere più netto. Come candidati all’entrata nel club comunitario, i Paesi dei Balcani Occidentali sono costretti da Bruxelles a effettuare una lunga serie di riforme finalizzate ad approssimare i propri sistemi giuridico-normativi all’acquis communautaire che regola la vita dei cittadini UE e i rapporti tra i loro Stati.
La Cina può permettersi un approccio molto più pragmatico. Negli ultimi anni, tramite l’azione di compagnie statali o aziende private legate vicine alla nomenklatura, Pechino si è accaparrata alcune commesse allettanti. Progetti spesso controversi sotto più aspetti (rapporti bilaterali, condizioni economiche, ricadute ambientali), finanziati con prestiti cinesi, realizzati da ditte cinesi, o entrambe le cose. Di norma gli accordi prevedono che, oltre ai soldi, anche la maggioranza delle tecnologie, dei materiali e della manodopera provenga dalla Cina.
Pechino è approdata nella regione a tutti gli effetti nel 2016, quando l’azienda statale COSCO ha acquisito il 67% della proprietà del porto del Pireo ad Atene, visto come la porta d’accesso per i prodotti made in China. I principali investimenti infrastrutturali della Cina nei Balcani rispondono precisamente all’esigenza di fluidificare la circolazione delle merci tra il porto ateniese e i mercati dell’Europa Occidentale, tramite il potenziamento del corridoio paneuropeo X che unisce Salisburgo a Salonicco. In quest’ottica nessuna infrastruttura è più importante della ferrovia Belgrado-Budapest.
In virtù della sua posizione geografica, la Serbia è infatti la pedina fondamentale della partita cinese. Nel paese, localizzato perfettamente al centro della penisola, passa un lungo tratto del corridoio X. Già nel 2009 Pechino e Belgrado avevano siglato una “partnership strategica”, tradottasi cinque anni più tardi in tredici accordi su infrastrutture, trasporti, scambi finanziari, telecomunicazioni e agricoltura. Non a caso quasi un terzo dei 12.2 miliardi di euro stanziati per progetti destinati agli Stati del format 16+1 per il periodo 2007-17 era stato allocato alla Serbia, che oggi risulta il primo destinatario nella regione degli investimenti diretti esteri cinesi (10.6 miliardi di euro). Nel 2016 un’azienda statale cinese ha acquisito la quasi dismessa acciaieria di Smeredevo, trasformandola in due anni nel fiore all’occhiello dell’export serbo (749 milioni di euro). Infine, proprio nel 2019, anno complicato per il rapporto tra Huawei e attori occidentali, Belgrado ha ottenuto dall’azienda leader del 5G mille telecamere per il riconoscimento facciale, nel contesto del programma Safe City.
Fuori dalla Serbia, due altre infrastrutture che vedono Pechino protagonista sono l’autostrada Bar-Belgrado e il ponte di Sabbioncello (Pelješac) in Croazia. La prima è il progetto più oneroso intrapreso dal Montenegro dall’indipendenza (2006), la cui fase 1 è costata circa 1.3 miliardi di euro, più o meno un quarto del PIL annuo della repubblica adriatica. Il prestito contratto con la Cina ha fatto impennare il rapporto Debito/PIL montenegrino dell’80%, rendendo verosimile l’ipotesi che Podgorica sprofondi nella cosiddetta “trappola del debito”. Il secondo è invece un progetto di primaria importanza per la Croazia, in quanto permetterebbe di collegare l’exclave di Dubrovnik con la madrepatria.
Sul fronte energia, la terra d’elezione per l’intervento cinese sembra essere la Bosnia. I prestiti di Pechino sono stati decisivi per finalizzare la costruzione di un altro impianto termoelettrico a Tuzla, città già nota per le sue centrali altamente inquinanti, e per costruirne uno ex novo a Stanari, nonostante le proteste di autorità UE e movimenti ambientalisti. Parallelamente, tramite l’acquisizione dei diritti di esplorazione e sfruttamento delle risorse petrolifere detenuti dalla Canada’s Banker’s Petroleum da parte della cinese Geo-Jade Petroleum (2016), gli operatori cinesi sono sbarcati anche nel settore energetico albanese.
La penetrazione cinese suscita opinioni divergenti nelle opinioni pubbliche locali e internazionali, grosso modo ascrivibili a due fronti contrapposti. La prima fazione interpreta questi investimenti come il minaccioso cavallo di Troia con cui Pechino ambisce a contrastare l’influenza dell’Occidente. La seconda li valuta come una mera operazione economica, stigmatizzando l’allarmismo dei primi come un ostacolo allo sviluppo del tormentato quadrante sudorientale del Vecchio Continente. Poiché entrambe le posizioni presentano argomenti validi, per valutare compiutamente l’azione cinese è utile sottolineare quattro dati oggettivi.
Primo, l’azione cinese non è al momento antitetica a quella dell’UE, ma complementare. Potenzia le connessioni tra la regione balcanica e il resto del continente. Non a caso una delle priorità su cui Bruxelles ha maggiormente insistito di recente è proprio la “connettività” interregionale.
Secondo, la regione ha un reale bisogno di migliori infrastrutture. Una volta riconosciuta questa esigenza, chi ambisce a rallentare l’avanzata cinese dovrebbe prima identificare eventuali alternative, ugualmente convenienti per le fragili economie degli Stati balcanici. In mancanza di ciò, solo una drastica alterazione del sistema di libero mercato globalizzato potrebbe impedire che essi cedano alle sirene del Dragone.
Terzo, al momento le criticità insite nelle manovre cinesi derivano in primis dalla scarsa competenza delle élite locali. La Cina potrebbe essere legittimamente accusata di capitalizzare alcuni difetti congeniti della politica balcanica – clientelismo, corruzione, esclusione della società dai processi decisionali – ma non di crearli o incentivarli per scopi egemonici, come fa invece la Russia.
Quarto, chiunque costruisca le infrastrutture strategiche di un paese arriva, notoriamente, a poterne influenzare le decisioni. Negare dunque che la Cina si stia avviando a diventare un attore geopolitico primario nel cortile di casa dell’UE, enfatizzando la dimensione prettamente economico-finanziario della sua azione odierna, è poco lungimirante.
Se e quanto l’inevitabile preponderanza futura della Cina nei Balcani Occidentali sarà in contrasto con gli obiettivi delle cancellerie europee dipende più da come evolverà la sua contesa con gli USA sul palcoscenico globale che dalle mosse di Bruxelles.