Informare sulla guerra, o comunicazione di guerra?

Comunicare la guerra o informare sul conflitto? Lo scontro tra Russia e Ucraina riporta in auge anche questo dibattito. Un tema che non può essere trascurato visto il peso che le notizie hanno sulle scelte politiche, nazionali e internazionali. Anche in questa guerra, la verità si conferma infatti la prima vittima, come peraltro diceva il politico statunitense Hiram Johnson circa un secolo fa, nel 1917.

Già un mese dopo lo scoppio del conflitto, studiosi come Giacomo Natali hanno parlato di una vera disfatta dell’informazione. Ricostruire la verità è da mesi lo sforzo più snervante per chi – come me – è chiamato quotidianamente a informare circa gli sviluppi di un conflitto che è sempre di più una infowar. Una evoluzione della guerra che non si combatte solo nella sfera virtuale – la più vulnerabile a infiltrazioni e manipolazioni numericamente significative – nei talk show o negli articoli di opinione, ma anche nel racconto dal campo, quello che nei fatti dovrebbe avvicinarsi il più possibile alla realtà.

 

Questo sta avvenendo non solo perché il giornalismo corre a ritmi sempre più serrati che hanno serie ripercussioni sul controllo – necessario – delle fonti, ma anche perché l’uso strumentale dell’informazione ha dato origine a flussi di notizie – o presunte tali – che piovono continuamente su social network, chat, siti web, programmi all-news ed emittenti più disparate, molto spesso in modo confuso e prive di contestualizzazione.

Dopo un’intensa immersione in questi meccanismi, maturata nel corso di tre trasferte giornaliste in Ucraina dopo lo scoppio del conflitto (la prima a inzio marzo a Leopoli e nella regione occidentale del Paese, la seconda – a fine marzo – a Kiev e Chernihiv, in territori come Bucha, Irpin, Hostomel appena liberati dai russi, e l’ultima a maggio nella regione di Kharkiv) l’impressione – che ovviamente resta personale – è che buona parte dei fatti trasformati in notizie non rispondano realmente ai criteri della “notiziabilità”, ma siano più che altro vettori per sostenere, se non addirittura realizzare, obiettivi politici o strategici. In molti dei fatti che ho visto diventare rapidamente virali in questi mesi, non ho infatti ritrovato i criteri che secondo lo studioso Mauro Wolf trasformano gli eventi in notizie. I continui colpi di scena riassunti nei titoli di giornali e telegiornali circa l’assedio di Severodonetsk sono solo l’ultima prova di questa tendenza. I media sono sembrati più che altro megafoni delle rispettive propagande.

Nonostante questo flusso incontenibile di notizie o pseudo tali, ci sono alcuni aspetti, in buona parte trascurati dall’ambiente mediatico stesso, che meritano una riflessione. Tra i tanti sui quali il racconto in presa diretta della guerra mi ha portato a riflettere, ne elenco alcuni, con l’obiettivo di aiutare chi legge a consumare in modo più consapevole le notizie che riceve.

Rimanendo sul territorio ucraino e non occupandosi del discorso già ampiamente trattato della propaganda russa che un recente studio dell’ECFR mostra aver avuto particolare presa in Italia, particolarmente complessa è la copertura di quanto accade nei territori occupati con la forza e illegalmente dalle truppe russe. In queste zone sta infatti diventando sempre più rischioso andare e quindi verificare in prima persona l’evoluzione del conflitto e di quell’occupazione che va ben oltre la dimensione militare, penetrando nel tessuto sociale del territorio. Peraltro, è anche sempre più complesso raccogliere informazioni da fonti interne, visto il clima di terrore generato dal cambiamento repentino, spesso violento, dell’ambiente mediatico locale.

Parliamo di un media enviroment sempre più attenzionato da chi nei fatti controlla ad oggi il territorio. Basti pensare a quanto accaduto nella città portuale di Berdyansk, dove le truppe russe hanno occupato la sede dell’emittente locale. Secondo una serie di testimonianze verificate da media e organizzazioni internazionali, i giornalisti locali sarebbero stati minacciati fisicamente dai russi e forzati a collaborare per diventare megafono della propaganda di Mosca.

Ancora più peculiare quanto accaduto a Melitopol, dove una testata, che si era rifiutata di pubblicare i messaggi russi, ha prima chiuso il suo sito, smettendo di stampare anche la versione cartacea, e poi si è vista rubare nome e logo dalla propaganda di Mosca che è tornata a ripubblicare il giornale, mettendo in primo piano una foto del neo-sindaco installato dai russi, condita da una piccola foto di Putin in taglio alto. Dinamiche, peraltro, molto simili a quelle già denunciate da anni in Crimea da diverse organizzazioni, tra le quali “Reporter senza frontiere” (organizzazione internazionale non governativa con sede a Parigi).

Il rischio è che con lo scemare dell’attenzione mediatica, le regioni di Lugansk e Donetsk diventino zone progressivamente più opache dalle quali arriveranno notizie sempre più complesse da verificare e parziali. Per scongiurare che questo accada si potrà fare ricorso all’Intelligence su fonti aperte (OSINT) – che peraltro sta già registrando una notevole accelerazione – ma la condivisione di immagini satellitari e materiale simile, da sola, non basta.

Altra questione è quella che riguarda l’ambiente mediatico ucraino, molto attivo nel contrastare la propaganda russa, tenere compatto il Paese e alto il morale soprattutto delle truppe al fronte. Sembrano passati anni dal giorno in cui la giovane direttrice del Kiev Indipendent firmava sul New York Times un editoriale critico nei confronti di Zelensky. Eppure l’articolo di Olga Rudenko è stato pubblicato solo alla vigilia della guerra, prima del boom della sua testata che l’ha portata ad essere una delle più seguite all’estero, facendole guadagnare la copertina del Time. In questi quattro mesi di guerra, il racconto giornalistico ucraino è stato monolitico. Si è trattato e si tratta nei fatti di un’informazione – seppure con qualche eccezione – a reti unificate. E questa non è un’espressione metaforica, ma la descrizione di quello che realmente è accaduto almeno nel settore televisivo, dove emittenti pubbliche e private si sono strategicamente unite in una maratona informativa che dal giorno dello scoppio del conflitto trasmette la stessa copertura su buona parte dei canali disponibili.

Questo racconto giornalistico sempre più nelle mani dei protagonisti del conflitto ha contribuito alla diffusione di un nuovo vocabolario della guerra, dai toni sempre più aggressivi. Quasi in risposta ai media russi che chiamano Zelensky “il Nazi”, quelli ucraini hanno coniato il neologismo rashist, una crasi tra russi, razzisti e fascisti, usata ormai tanto in strada quanto in buona parte dei media per descrivere le truppe di Mosca che hanno invaso l’Ucraina. Questo termine si alterna spesso a un’altra parola del vocabolario di questa guerra, orchi, un termine con il quale ci si riferisce soprattutto a quei soldati ritenuti disumani perché responsabili dei crimini più perversi. E ancora, polizei, per descrivere i collaborazionisti.

Alla luce di queste osservazioni, si può quindi concludere che l’informazione sulla guerra è stata prevaricata dalla comunicazione della guerra che ne ha scandito tutte le fasi, a partire dal primo discorso televisivo di Putin del 21 febbraio. Visto il ruolo che quest’ultima ha assunto, è facile ipotizzare che potrebbe influenzare anche un eventuale processo negoziale e diventare addirittura determinante per l’esisto del conflitto.

Monitorare lo stato di salute della nostra informazione – cosa diversa dalla comunicazione – non riguarda più solo le condizioni della nostra democrazia, ma anche la sicurezza internazionale che ne viene nei fatti influenzata. Acquisire gli strumenti per non essere consumatori passivi di notizie o pseudo notizie, sembra ora più urgente che mai.

 

 

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