Stallo militare, dubbi sugli alleati e problemi interni. È un’Ucraina molto diversa dall’anno scorso quella che festeggia il primo Natale secondo il calendario liturgico occidentale. Di sicuro se l’erano immaginato migliore alla Verkhovna Rada, il parlamento di Kiev: doveva essere il periodo per brindare, insieme agli alleati europei e nord-americani, al successo della controffensiva e all’unità del mondo libero di fronte all’oppressore venuto da Mosca.
La difficile tenuta del fronte interno
Invece l’atmosfera è tutt’altro che di festa. L’albero che il municipio della capitale ha voluto posizionare in centro non è diventato l’ennesimo simbolo mediatico di resilienza e speranza. Dopo un timido entusiasmo iniziale la gente lo supera in fretta, senza quasi prestarvi attenzione. Del resto, ci sono cose più importanti a cui pensare. «Siamo in uno stato di guerra, sappiamo che il nemico insidioso può colpire in qualsiasi momento, in qualsiasi direzione» ha dichiarato il capo ufficio stampa del comando meridionale delle forze ucraine, Natalya Humenyuk, «Pertanto, dobbiamo stare all’erta per proteggerci. Se sentite un allarme aereo, non trascuratelo».
Ma i kieviti sono un po’ restii alle consegne di sicurezza: nonostante il pericolo dei bombardamenti russi sia reale e costante, il bisogno di continuare a vivere è generalmente più forte. Non sempre però, ci sono periodi in cui questo equilibrio necessario si sbilancia verso la paura e allora la città si trasforma in un simulacro. Era così nei primi giorni dopo il 24 febbraio 2022, quando si temeva che la famosa «colonna di 40 km di carri armati russi» sarebbe presto arrivata alle porte della capitale, ed è così oggi. Nonostante il nemico in carne e ossa sia lontano, nelle trincee ghiacciate del fronte orientale o dietro i terrapieni fortificati del sud, dove il vento del Mar Nero gela persino gli occhi. Gli effetti della guerra si sentono in ogni piccolo aspetto della vita quotidiana. Dalla scarsità di beni nei negozi, al freddo nelle case dove i riscaldamenti sono diventati inutili suppellettili. La strategia russa di bombardare le centrali energetiche del nemico aveva messo a dura prova i civili ucraini l’inverno scorso e sta causando ancora più disagi quest’anno. Nelle zone limitrofe al fronte la «stanchezza della guerra» non è materia di discussione come nei talk show televisivi occidentali ma una dura condizione esistenziale. Eppure le città devono restare attive.
Il governo non reprime troppo duramente quei comportamenti, che pure se in contrasto con le disposizioni della legge marziale, sono dettati dalla voglia di normalità dei cittadini. Dato che il Paese deve essere tutto proiettato verso lo sforzo bellico, c’è bisogno di continuare a produrre e di tenere in piedi gli apparati statali. Gli uffici devono funzionare, la logistica della grande distribuzione anche, i controlli per le strade devono dare almeno l’impressione che tutto sia in ordine.
Tra coloro i quali hanno visitato l’Ucraina negli ultimi due anni ha destato sempre molta sorpresa il fatto che le strade danneggiate dai bombardamenti fossero prontamente riparate. Vedere lavoratori con il gilet catarifrangente tappare buche con il bitume bollente o eliminare frammenti di ordigni dalla carreggiata, mentre tutto intorno i palazzi avevano le finestre esplose o il ferro dei portoni deformato dal calore delle esplosioni sembrava quantomeno insolito. I più disillusi guardavano alla scena commentando con un laconico «tanto stanotte o domani bombarderanno di nuovo e saremo da capo, a che servo questo spreco di uomini e di soldi…». In realtà l’utilità c’è ed è duplice: materiale e simbolica. Strade, ponti, centri logistici e infrastrutture varie devono funzionare affinché i soldati al fronte possano continuare a combattere. Inoltre, il governo vuole a tutti i costi trasmettere il messaggio che la vita va avanti e che si continua a combattere ordinatamente. Nessuno deve lasciarsi andare all’inedia o alla disperazione perché ciò che succede nelle retrovie si riflette al fronte.
Il nodo degli aiuti internazionali
Tale impostazione finora ha funzionato, ma oggi ci sono degli elementi potenzialmente devastanti per la parte ucraina. Il primo è economico. Se è vero che la produzione nelle retrovie non può arrestarsi, è altrettanto vero che oggi Kiev dipende dagli aiuti occidentali per quasi tutto. Si parla continuamente di forniture militari, ma senza le centinaia di miliardi arrivati al governo di Volodymyr Zelensky dai Paesi europei e, soprattutto dagli Stati Uniti, probabilmente oggi non potremmo ragionare sul futuro dell’Ucraina. Perciò l’annuncio fatto a metà dicembre dai deputati Repubblicani di voler bloccare la votazione per il rinnovo degli aiuti economici a Kiev ha generato enorme preoccupazione.
Nello specifico si tratta di 61 miliardi che fanno parte di un pacchetto più ampio di 106 miliardi di fondi straordinari dei quali 14 dovrebbero andare a Israele e il resto destinato al «Pacifico e al confine con il Messico». Lo Speaker della Camera Mike Johnson, appena nominato dai Repubblicani, tentando di spiegare il motivo dell’opposizione dei suoi, aveva dichiarato di sostenere l’Ucraina ma che le «politiche fallimentari di Biden» non stanno portando ad alcun risultato. I Democratici avevano ribadito che il sostegno a Zelensky è fondamentale per arginare Putin, e che quindi si tratta proprio di difendere gli interessi strategici degli Stati Uniti, ma finora non sono stati ascoltati. «Se Putin prende il controllo dell’Ucraina, otterrà la Moldavia, la Georgia, e poi forse i Paesi Baltici» aveva dichiarato alla testata The Messenger il presidente della Camera degli Affari Esteri Michael McCaul. Tesi che i membri del partito di Biden hanno iniziato a ripetere in tutte le sedi istituzionali citando anche le parole del Segretario alla Difesa Lloyd Austin, il quale ha avvertito il Congresso che se gli aiuti all’Ucraina non saranno approvati, «molto probabilmente» si verificheranno una serie di reazioni a catena negative che porteranno «le truppe americane a combattere una guerra in Europa».
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Secondo gli analisti politici alla fine i Repubblicani (che alla Camera hanno la maggioranza) voteranno favorevolmente alla manovra nelle prime settimane dell’anno nuovo, ma esigeranno in cambio un netto ridimensionamento in senso restrittivo della politica migratoria americana alla frontiera messicana e una modifica alla legge sui visti. Concessioni che il democratico Biden non può permettersi, pena la fronda interna da parte della corrente più progressista del suo partito. Insomma, la campagna elettorale negli Stati Uniti è iniziata e l’Ucraina è uno dei temi più sentiti da entrambi gli schieramenti politici. I 61 miliardi bloccati in commissione straordinaria al Congresso di Washington sono vitali per Kiev. Senza quei finanziamenti il rischio di bancarotta per l’Ucraina è quasi certo e c’è chi è pronto ad approfittarne.
Putin ha ragione a dire che «senza l’Occidente ora l’Ucraina non sarebbe in grado di resistere un mese». Non perché gli ucraini difettino di capacità produttive o militari, ma per la mancanza di soldi. Quando negli USA prima di Natale i due leader di maggioranza e opposizione al Senato, Chuck Schummer e Mitch McConnell, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui hanno ammesso che non si riuscirà a raggiungere un accordo sul pacchetto d’aiuti straordinario entro la fine dell’anno, a Zelensky deve essere mancata l’aria per qualche secondo.
Stallo e contrasti a livello militare
Il secondo elemento è militare. Il 26 dicembre i vertici ucraini hanno ammesso (dopo una smentita iniziale) di essersi ritirati dal centro urbano di Marinka, una cittadina del Donetsk a pochi chilometri dalla capitale separatista. «Il fatto che ci siamo spostati alla periferia di Marinka» ha dichiarato il comandante in capo delle forze armate ucraine, Valerii Zaluzhny, «e che in alcuni punti abbiamo già oltrepassato i limiti della città, non dovrebbe suscitare clamore nell’opinione pubblica». Ma il clamore invece c’è stato. Dopo mesi di smentite, negli ultimi tempi gli uomini più vicini a Zelensky hanno ammesso che «la controffensiva non è andata come speravamo». La conquista di una posizione strategica, seppur di importanza limitata, da parte dei nemici segna un cambio non indifferente nelle vicissitudini militari del conflitto In altri termini, non solo gli ucraini non sono più all’attacco nell’est, ma ora sono costretti a difendersi.
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A poca distanza da Marinka c’è Avdiivka, che i russi bersagliano costantemente da almeno due mesi. Come Mariupol, come Bakhmut, Avdiivka è diventato l’ennesimo tritacarne di questa guerra. Le forze armate del Cremlino annunciano costanti progressi e gli ucraini generalmente smentiscono. Sullo sfondo, per permettere ai due schieramenti di mantenere salde le posizioni, migliaia di soldati stanno morendo. È lo stallo.
«Non sappiamo quando la guerra finirà, ma sappiamo che servono più uomini per lo sforzo bellico» aveva dichiarato Zelensky durante la conferenza di fine anno, aggiungendo che sono i generali dello stato maggiore ad averli richiesti e quindi, spostando il biasimo su Zaluzhny. A metà novembre il generale aveva criticato apertamente, in un’intervista concessa alla rivista britannica The Economist, le scelte strategiche e tattiche di Zelensky. «Il conflitto si è trasformato in quello che in gergo militare si chiama ‘guerra di posizione’» aveva inoltre dichiarato. Zelensky si è infuriato, «nessuno crede nella vittoria dell’Ucraina come me, nessuno!» aveva dichiarato al Time, il quale ha usato la frase per una copertina che raffigura il leader di spalle, con il volto di traverso, come se qualcuno lo chiamasse o se controllasse che non ci siano pericoli incombenti. A quel punto il presidente ucraino ha chiuso i rapporti con Zaluzhny. Ma quest’ultimo non può essere allontanato, almeno per ora: gli Stati Uniti lo ritengono un interlocutore affidabile e competente. E perciò: «manteniamo rapporti di lavoro», ha chiarito Zelensky, senza lesinare un affondo: «deve essere responsabile del risultato sul campo di battaglia insieme allo Stato maggiore».
Quindi il presidente sta ufficialmente incolpando il suo capo militare del fallimento dell’ultima operazione militare ucraina? Non direttamente. «Ci sono molte domande. Quella dell’offensiva è una domanda difficile». Lo scontro proseguirà senza dubbio. Anche perché a breve bisognerà chiarire se la mobilitazione da «4-500 mila unità» si farà o no. Per ora Zelensky si è detto «non del tutto convinto» della presunta richiesta pervenuta dai generali. È possibile che sia un modo per scaricare direttamente sull’esercito il malcontento popolare, ma il ragionamento di Zaluzhny, almeno logicamente, è ineccepibile. Per fare la guerra servono i soldati e «non possiamo permetterci di perdere i più coraggiosi, i migliori» che sono attualmente al fronte «ma bisogna ragionare su un piano per una sorta di rotazione». Tuttavia, dove prendere altri 500 mila soldati? Kiev potrebbe abbassare l’età di leva a 25 anni (e non più ai 27 attuali) ma ciò non sarebbe affatto sufficiente. Si dovrebbe ricorrere alla chiamata diretta, inasprire i reati per la renitenza e per i medici conniventi, abbassare gli standard medici, richiamare gli uomini espatriati negli ultimi due anni e, addirittura, ricorrere a gruppi finora esclusi come, ad esempio, i detenuti per reati lievi? D’altronde, il presidente ha chiarito che «non c’è ancora un piano». Ma a breve qualcosa si dovrà muovere.
La distruzione della nave da sbarco russa Novocherkassk nei pressi del porto di Feodosia, in Crimea, avvenuta il giorno di Natale, è un esempio di come potrebbe evolversi la strategia ucraina nella prossima fase della guerra: attacchi mirati a infrastrutture e mezzi che minacciano direttamente il Paese e massimo effetto mediatico possibile. Tutto ciò a condizione che il fronte terrestre tenga e che gli alleati non voltino le spalle.