Chi è realmente Mohammed al-Jolani? Sappiamo che oggi si presenta come il volto ufficiale di un movimento di guerriglieri che ha costretto Bashar al Assad alla fuga. Quando l’ho incontrato, era il 2015: e i suoi uomini erano quelli da cui stare alla larga. Aveva sulla testa una taglia di 10 milioni di dollari. Davvero è cambiato, da allora? Da quando la sua Hayat Tahrir al-Sham si chiamava Jabhat al-Nusra? O più semplicemente, al-Qaeda?
Si leggono opinioni di ogni tipo. E intanto, guardo molti dei giornalisti che fino a ieri hanno visto in Assad un “paladino della stabilità” aggirarsi tra le sue Lamborghini, e come tutti quelli che hanno sperimentato la sua Siria sulla propria pelle, penso solo: magari in questi anni gli fosse stato riservato un po’ di tutto questo rigore analitico.
O anche solo di tutta questa attenzione. Del carcere di Sednaya, si è detto a lungo che non esistesse. Che non fosse che propaganda. Come dimenticarlo?
Per provare a capire cosa è Hayat Tahrir al-Sham, e cosa sarà la Siria, esaminare il “Governo di Salvezza Nazionale” con cui dal 2017, dalla caduta di Aleppo, ha governato Idlib, l’ultimo bastione dell’opposizione, non ha tanto senso. Tutto sommato, ha funzionato. Ma Idlib, situata presso il confine con la Turchia nel nord-ovest del Paese, con i suoi 2 milioni di abitanti, non solo non è paragonabile all’intera Siria: è la città in cui, appunto, si sono concentrati gli ultimi combattenti. A Idlib, sono tutti di Hayat Tahrir al-Sham: è ovvio che Hayat Tahrir al-Sham non abbia avuto problemi.
Ed è vero anche questo: il 7 dicembre, alla caduta di Damasco, non si è avuta la fuga generale dal Paese, la corsa in aeroporto, come alla caduta di Kabul. L’unico ad andarsene è stato Assad. E anzi, i profughi oltre confine stanno rientrando. Ma capiremo Hayat Tahrir al-Sham solo dopo le elezioni. Il mandato del nuovo governo scade a marzo. Cosa sarà Mohammed al-Jolani quando non sarà più un comandante, ma, molto probabilmente, un presidente? Quando si sentirà forte della legittimità popolare? La giacca con cui ha subito sostituito la divisa sarà stata solo retorica? Solo un’operazione di marketing?
In realtà, negli ultimi anni tutti i movimenti islamisti sono cambiati. In fondo, nonostante le diversità, e i diversi contesti, sono un unico mondo e si influenzano l’un l’altro. Imparando l’uno dall’altro. Il punto di svolta è stato il 2013: il colpo di Stato che al Cairo ha rovesciato Mohamed Morsi, e chiuso la Primavera Araba. Avviando una specie di controrivoluzione. Gli islamisti avevano già compreso con Hamas nel 2006, e prima ancora in Algeria nel 1992, che vincere le elezioni, elezioni libere e regolari, non è abbastanza: che in reazione, come minimo si viene colpiti da sanzioni.
E che conviene quindi aprirsi ad altri referenti politici, e formare coalizioni di unità nazionale. Anche perché il Cairo, come Gaza, come Damasco, Beirut, Kabul, non è certo Parigi, dove i governi si alternano ogni sei mesi senza spargimenti di sangue: in questo momento non c’è la fila per essere nominati primo ministro a Ramallah. Per Hamas, e non solo, il modello migliore è sempre stato quello di Hezbollah. Che sta al potere, ma non al governo. Che ha potere senza responsabilità.
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E l’altro punto di svolta è stato il 2021: l’Afghanistan. Con il ritorno dei talebani. Le donne afghane sono segregate e escluse come con il Mullah Omar: ma ora, ogni energia è per l’economia. Un po’ come in Cina. O nel Golfo. In cui quello che più conta è lo sviluppo, senza libertà e senza diritti. E i cittadini, più che cittadini sono consumatori. E soprattutto, ogni energia è per l’Afghanistan. Il compromesso è chiaro: in cambio del non intervento, in cambio del governo dell’Afghanistan, i talebani hanno archiviato la jihad e gli attentati, la guerra all’Occidente – tanto che hanno l’ISIS come nemico interno: esattamente come Hayat Tahrir al-Sham.
La Siria non sarà un altro Iraq, un’altra Libia. Non diventerà una Somalia. Tra l’altro, è composita e complessa come tutto il Medio Oriente, sì: ma ormai, larga parte dei siriani laici e progressisti è in Europa o sottoterra, e in più, il lungo dominio degli Assad ha forgiato una identità comune, in opposizione, che supera la ripartizione tra sunniti e alawiti, musulmani e cristiani, centro e periferia – come è avvenuto in Ucraina dopo l’invasione russa. Il 90% della popolazione e in povertà, e il 26% del PIL deriva dall’esportazione di Captagon. Dallo spaccio.
Per i siriani, tutto è meglio di Assad. E i miliardi di dollari di aiuti in arrivo saranno ulteriore cemento. Ma alla fine, la vera garanzia si chiama Recep Tayyp Erdogan. Che è il regista di tutto: e non ha il minimo interesse ad avere estremisti a Damasco che mettano a repentaglio il risultato raggiunto. Che mettano a rischio l’influenza di Ankara su uno stato-cardine del Medio Oriente. E Mohammed al-Jolani sa perfettamente che così come Assad non era niente senza Hezbollah e la Russia, la sua Hayat Tahrir al-Sham non è niente senza la Turchia. O riga dritto, o riga dritto. Come conferma il suo approccio a Israele: alla conquista del Golan, ha risposto di non avere voglia di altri fronti. Perché il Golan è parte del Risiko all’ombra della caduta di Assad. Con i suoi 2.814 metri, il Monte Hermon (posto sotto diretto controllo militare dall’esercito israeliano) fa da sentinella non solo al Libano, ma alla Siria: e non solo per Israele, ma per tutti.
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Per Hayat Tahrir al-Sham, il rischio in realtà è proprio il successo. Perché militarmente, la vittoria di questi giorni è sua. Ma politicamente, la vittoria è di tutti i siriani: è la vittoria postuma della Primavera Araba. Che ha contestato tutti quelli che ora sono al potere. Erdogan incluso. E se continua così, la Siria finirà per essere di ispirazione in tutto il Medio Oriente.
Di ispirazione non per l’Islam, ma per la spinta a un rinnovamento delle classi dirigenti.