“Un Senegal per tutti”: è stato questo lo slogan con cui Macky Sall, il 24 febbraio scorso, è stato riconfermato Capo di Stato col 58% dei voti, sbaragliando al primo turno gli altri quattro pretendenti. Il suo messaggio apparentemente semplice racchiude però tutte le sfide di una delle maggiori locomotive economiche dell’Africa occidentale. Un paese alla prese con una crescita rampante – il pil aumenta del 6.7% all’anno, secondo i dati del del Fondo Monetario Internazionale – dove però la tanta ricchezza non viene redistribuita equamente fra gli strati della popolazione.
La visione del presidente, che comincia il suo secondo mandato, è delineata nel “Piano Senegal Emergente” (PSE), una ricetta di medio e lungo periodo ideata nel 2014 che si prefissa, entro il 2035, “un nuovo modello di sviluppo basato su una crescita inclusiva e duratura”. Un programma politico, oltre che socio-economico, alla base di ogni attività governativa. Il logo del PSE, tre frecce dei colori della bandiera senegalese che schizzano verso l’alto, campeggia su tutte le grandi opere in costruzione, da Dakar all’interno del paese. Nei mesi che hanno preceduto le presidenziali, Macky Sall si è affrettato ad inaugurare persino strutture ancora non completate, come la linea del Treno espresso regionale (TER), l’autostrada Dakar-Touba e la nuova stazione dei treni della capitale. Una corsa al taglio dei nastri che gli è valsa il nomignolo, coniato dalla rete, di “InaugurationMan”.
Sui manifesti elettorali, ancora appesi mesi dopo lo scrutinio, si legge: “L’émergence c’est Macky”. Nelle gigantografie col suo volto, Sall si proclama “il costruttore di un Senegal moderno”, incentrando il senso del suo primo mandato sui maxi-cantieri che costellano il paese: autostrade, ponti, arene sportive, il nuovo polo industriale e residenziale di Diamniadio, la prima linea di treno ad alta velocità dell’Africa Occidentale. Grandi opere contestate dall’opposizione e dalla società civile, secondo cui porterebbero maggiore indebitamento con gli investitori stranieri (Cina, Turchia e Arabia Saudita in primis), per avere in cambio infrastrutture “vanitose” che risultano piuttosto inutili alla stragrande maggioranza della popolazione. A sostegno di questa tesi, i detrattori del “modello Macky” portano l’esempio dell’autostrada a pagamento Dakar-Touba (costruita e gestita dalla società francese Eiffage), che solo tratto di una quarantina di chilometri, collegando la capitale al nuovo Aeroporto internazionale Blaise Diagne, costa circa 5 euro di pedaggio ed è perciò inutilizzata dalla gente comune per via del costo elevato.
La viabilità sarebbe solo la punta di un iceberg che secondo parte della società civile senegalese contribuirebbe a creare uno sviluppo a due velocità: da una parte una ristretta élite politico-finanziaria sempre più ricca e agevolata, che si sposta rapidamente su strade moderne e poco trafficate, si rivolge al mercato del lusso (in forte espansione nel paese) e sigla contratti milionari con multinazionali straniere; dall’altra la massa emarginata di gente comune, costretta su piste di sabbia e arterie congestionate da traffico e smog, consumatrice di prodotti scadenti e relegata in comparti produttivi subalterni.
Secondo stime ufficiali, il cosiddetto “settore informale” compone oggi più della metà del PIL senegalese. Un’economia sommersa e parallela che stenta ad essere inquadrata dal governo centrale, come riconosciuto nello stesso PSE. Nel documento programmatico si legge infatti che “la scarsa produttività e il peso del settore informale costituiscono un freno alla trasformazione strutturale dell’economia”.
Diversi economisti e analisti politici senegalesi, come Ndongo Samba Sylla e Cheick Fall, sostengono invece che il fallimento del progetto di creare una crescita più inclusiva risieda nelle mancate riforme sociali, promesse dal 2012 e ancora disattese da Macky Sall. La “copertura sanitaria universale”, uno dei pilastri del programma governativo, ad esempio, stagna ancora fra le pieghe di una burocrazia elefantiaca che assorbe ogni tentativo di reale cambiamento. Settori chiave per gli strati più vulnerabili della società come sanità, scuola e giustizia sono abbandonati a se stessi e compromessi da continui scioperi del personale amministrativo (insegnanti, medici, infermieri, giudici, avvocati), che contestano i bassi livelli retributivi, i ritardi nei pagamenti e la mancanza di strutture, materiali e formazione adeguati.
Le carenze dell’esecutivo in tema d’investimenti nella scuola e nella sanità pubblica vengono in parte compensate dagli aiuti allo sviluppo – veicolati dagli organismi internazionali quali la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Africana di Sviluppo, dalle varie agenzie dell’ONU e dalla pletora di ong che operano in Senegal – così come dagli investimenti privati, in crescita. La privatizzazione del sistema sanitario e scolastico rappresenta un ghiotto business per la classe dirigente, ma sono ancora poche le famiglie senegalesi che possono permettersi le costosissime cliniche e gli istituti formativi privati che si moltiplicano, attirando a Dakar pazienti e studenti facoltosi dell’intera regione.
A tale quadro va aggiunto l’acuirsi della dicotomia fra una capitale-bolla sempre più vicina al collasso ma in costante espansione (oltre la metà delle industrie del paese è concentrata qui), e il mondo rurale circostante, che rappresenta ancora la realtà quotidiana della maggioranza della popolazione senegalese. In scala maggiore, i villaggi soffrono degli stessi problemi che affliggono le periferie di Dakar, soprattutto lo scarso accesso ad acqua ed elettricità.
L’agricoltura, settore chiave dell’economia senegalese insieme al turismo e alla pesca, è messa a dura prova dai cambiamenti climatici (avanzamento del deserto e pluviometria instabile), dall’accaparramento delle terre da parte di società straniere e dalla carenza di infrastrutture, macchinari e forza lavoro.
Nonostante la crescita economica, cresce anche la disoccupazione: per via della forte pressione demografica un’importante fetta di forza lavoro giovane e poco specializzata non riesce ad essere assorbita nel sistema produttivo nazionale. E anche l’esodo dai campi è una realtà in aumento per la gioventù senegalese, sempre più attirata verso le città o l’emigrazione. La persistenza, negli ultimi anni, di cittadini senegalesi fra i migranti in arrivo in Europa per motivi economici, è ulteriore segnale di una crescita ancora davvero poco bilanciata.
La recente scoperta del petrolio e di giacimenti di gas naturale al largo delle coste senegalesi, inoltre, ha aperto la stagione dei negoziati attorno alle concessioni per lo sfruttamento di tali risorse naturali in favore di società straniere (cinesi, francesi e russe, soprattutto). Quella che sulla carta potrebbe rappresentare una preziosa occasione di guadagno e di creazione di posti di lavoro, si teme che possa invece ulteriormente allargare la forbice fra i pochi che ne beneficeranno e i molti che ne subiranno l’impatto, non solo ambientale. In questo senso la gestione personalistica del potere da parte della “dinastia Faye-Sall” – il governo, gli istituti finanziari e i consigli di amministrazione delle principali società nazionali sono controllati da parenti della coppia presidenziale – getta un’ombra sulla tenuta politica della pseudo-democrazia senegalese.
In un tale contesto lo stato di diritto, messo in discussione durante le elezioni presidenziali di febbraio dall’incarcerazione dei principali avversari politici della maggioranza e dalla repressione del malcontento popolare, resta l’unico appiglio stabile per riconsegnare al Senegal il ruolo di esempio regionale imprescindibile di cui ha goduto negli scorsi decenni. La capacità d’incanalare il vivace sviluppo economico del paese verso una dimensione più inclusiva, che contrasti invece di ampliare le disuguaglianze socio-economiche di un paese ancora molto rurale, è la vera sfida del secondo mandato di Macky Sall. Solo così il presidente costruttore potrà realizzare il sogno di “un Senegal per tutti”.