In Nevada, il primo allungo di Bernie Sanders

“Se vedi una targa californiana, prendi la mira”, dicono gli adesivi sui paraurti di auto, SUV e pick-up del Nevada. Bernie Sanders ha ottenuto la sua prima grande affermazione alle primarie Democratiche in uno stato la cui importanza potrebbe essere limitata, se non fosse per alcuni elementi che lo rendono tutt’altro che marginale.

La prima ragione è proprio la “californication”, l’invasione dal grande stato vicino che fa infuriare gli “old-timers”: il Nevada aveva un milione di abitanti nel 1990, ne ha 3 milioni oggi, e la maggior parte dei nuovi viene proprio dalla California. Per avere un’idea, elegge circa un sesto dei delegati del Texas e della Florida, un terzo della Virginia, meno della metà dell’Indiana, dunque molto pochi, ma la vittoria di Sanders cresce di significato politico se la vediamo come un antipasto delle decisive primarie in California, a cui appunto il Nevada tende a somigliare sempre di più socialmente e demograficamente.

California (rosso) e Nevada (arancione), due stati contigui non più solo geograficamente

 

L’infornata di abitanti californiani, in fuga da un costo della vita alto e da un mercato immobiliare ormai inaccessibile, ha spostato il Nevada politicamente a sinistra: lo stato negli ultimi cinque anni ha aumentato le tasse per migliorare il sistema educativo, ha legalizzato l’uso della cannabis a scopi ricreativi, ha lanciato un piano di economia verde; alle elezioni del 2018 i Democratici hanno conquistato tutti i posti disponibili, e alla Camera, unico caso negli USA, le deputate donne sono più degli uomini. Se il risultato del Nevada si ripetesse in proporzioni simili in California (dove si vota il 3 marzo, Super Tuesday), la partita per la nomination sarebbe chiusa. Ma non c’è solo questo.

Mentre in Iowa e New Hampshire (i primi due stati a votare) le minoranze sono quasi assenti, il Nevada è etnicamente composito: il 30% degli abitanti è di origine ispanica, il 10% afro-americano, il 9% asiatico, e il 48% è “bianco”. Somiglia di più all’America vera. Inoltre, Iowa e New Hampshire sono due stati rurali, privi di una vera dimensione cittadina; il Nevada è spopolato sì, ma gli abitanti invece che sparsi sul territorio sono tutti concentrati in due aree metropolitane, Las Vegas (2,3 milioni) e Reno (400mila). Insomma, i candidati Dem non avevano ancora passato il test delle minoranze e del voto urbano, e anche questo aumenta la valenza politica della vittoria di Sanders.

I risultati delle primarie in Nevada. Le regole dei caucus permettono un doppio voto (rettangolo rosso). Nel rettangolo verde, la percentuale di delegati.

 

Eppure lo sbarco in Nevada era cominciato male per il senatore del Vermont. Subito dopo la vittoria di misura su Pete Buttigieg in New Hampshire, i dirigenti del sindacato dei lavoratori della ristorazione di Las Vegas, una potenza organizzativa di 60.000 persone impiegate in hotel e casinò, lanciava una crociata contro la proposta di copertura sanitaria universale, stella polare della campagna di Sanders, perché avrebbe cancellato il regime privilegiato privato ottenuto dai tesserati al sindacato. La Culinary Union denunciava poi (senza prove) di essere stata oggetto di violentissimi attacchi e intimidazioni da parte dei “Bernie Bros”, i supporter di Sanders descritti da più parti come fanatici agitatori di stampo quasi bolscevico.

Prima del voto partiva anche l’offensiva mediatica di Michael Bloomberg, ultimo arrivato nelle primarie Dem. L’ex sindaco di New York sarà presente sulle schede solo dal 3 marzo in poi, ma grazie a una capacità di spesa di 7 milioni di dollari al giorno in pubblicità elettorale è riuscito a imporsi al centro del dibattito. Tuttavia, almeno finora, il suo sforzo si è trasformato in un boomerang. Deciso a porsi come vero e unico anti-Sanders, Bloomberg è stato preso di mira da tutti gli altri candidati – che quel ruolo vorrebbero per sé – fino ad essere impallinato senza pietà al dibattito tv di mercoledì 19, in cui Elizabeth Warren l’ha dipinto come una fotocopia di Donald Trump.

Inoltre, a livello comunicativo, la discesa in campo di Bloomberg sembra un dono piovuto dal cielo tra le braccia di Sanders. Il Senatore “socialista” del Vermont – da sempre – batte e ribatte sull’influenza negativa del denaro sul processo elettorale e la democrazia, sull’avarizia e sulla miopia del mondo economico-finanziario e della classe dirigente USA (il famigerato 1%) che preferisce continuare a macinare profitti e si rifiuta di pagare anche un minimo di tasse mentre le persone normali devono indebitarsi a vita per andare all’ospedale o all’università: Bloomberg ha già speso 400 milioni di dollari in un mese di campagna elettorale, è stato Repubblicano e ha sostenuto George W. Bush ma ora si sente Democratico, è l’ottavo uomo più ricco del mondo. Insomma, è l’incarnazione perfetta di quello spauracchio.

In Iowa e New Hampshire Sanders aveva vinto di un pugno di voti. Bloomberg l’ha dunque aiutato a staccare il gruppo? Forse. Certo è che anche gli altri candidati ci hanno messo del loro. Buttigieg, terzo con il 13,7%, nei giorni prima del voto in Nevada ha preferito girare la California in cerca di finanziatori per il seguito della campagna. Amy Klobuchar, dopo l’endorsement del New York Times e la buona prestazione in New Hampshire, è scesa sotto il 4% grazie a una serie di gaffes imbarazzanti – l’ammissione di non conoscere il nome del presidente del Messico in uno stato al 30% ispanico non è stata l’unica. Elizabeth Warren (9,6%) non ha capitalizzato la sua combattività per l’assenza di una struttura organizzativa capillare, di cui ha invece potuto godere Joe Biden (21%) grazie ai legami intessuti negli anni con la politica locale. Nonostante i magri risultati, nessuno di loro ha ancora deciso di abbandonare la contesa, cosa che oggettivamente avvantaggia Sanders.

Biden ha vinto tra gli afro-americani e tra gli over 65. Tutte le altre categorie invece hanno dato la maggioranza a Sanders: giovani e adulti fino ai 65 anni, uomini e donne, più o meno istruiti, bianchi, asiatici e soprattutto Latinos. E’ un dato che può entusiasmare i sandersiani, ma si tratta ancora in molte categorie di una maggioranza relativa dei voti degli elettori delle primarie, inferiore al 50%.

Nevada: voto per etnia. Fonte: New York Times

 

Nevada: voto per classi di età. Fonte: New York Times

 

Il consenso dei Latinos a Sanders, comunque, non era affatto scontato: nel 2016 gli ispanici, minoranza fluida, variegata e difficile da coinvolgere, restarono freddi oppure votarono Hillary Clinton. Ma è un dato cruciale: è un gruppo che può pesare alle presidenziali di novembre, basti pensare alle eterne contese sul voto della Florida. I cambiamenti demografici, con l’aumento della popolazione Latina e la crescita di una giovane generazione più progressista, rendono anche pensabile quello che solo pochi anni fa sembrava una bestemmia contro le leggi della politica americana: la conquista Democratica del Texas. Se accadesse – Sanders l’ha promesso in un tweet – bilancerebbe la sconfitta del 2016 nel Mid-West e nella Rust Belt, che portò Trump alla Casa Bianca.

Perché oggi Sanders piace ai Latinos? Al di là delle vulnerabilità degli altri candidati, e del lavoro organizzativo di lungo periodo, la risposta si chiama Alexandria Ocasio-Cortez. La deputata del Bronx-Queens, di origine portoricana, segue Sanders come un’ombra da quattro anni, ma l’arrivo al Congresso (2019) le ha dato la notorietà e il palcoscenico di cui prima non disponeva. Riesce a parlare alle comunità latine con un’autenticità di cui gli altri candidati non riescono a disporre, e affianca la campagna di Sanders palmo a palmo. In maggioranza di origine ispanica, gli stessi cuochi e camerieri della Culinary Union di Las Vegas, nonostante la presa di posizione dei loro dirigenti, hanno votato per Sanders, dichiarando ai giornalisti che “non ha senso godere di un privilegio (l’assicurazione sanitaria privata) se i nostri figli, familiari o altri lavoratori non ce l’hanno”. Frase che riecheggia le parole ascoltate nei comizi di Sanders e Ocasio-Cortez.

Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez

 

Il successo tra i Latinos però non basta alle ambizioni di Sanders. Iowa e New Hampshire avevano visto il senatore del Vermont in difficoltà nel rompere il “soffitto di vetro” del 25% dei votanti. In Nevada l’ha superato, guadagnandosi il titolo di favorito per la nomination finale: grosse associazioni di categoria, come insegnanti o infermieri e paramedici, sono dalla sua, e nelle primarie pesano. Ma Sanders ha ancora vari ostacoli importanti nella costruzione di un consenso convincente in vista della sfida a Trump – ammesso che i dati positivi del Nevada si ripetano – tra cui due immediati. Il primo è la popolarità tra due gruppi decisivi di elettori: gli over 65, cioè la classe di età che vota di più ma che è meno radicale; e gli afro-americani, che preferiscono Joe Biden, sulla scia della presidenza Obama – qui, una prima risposta arriverà sabato 29, in South Carolina, dove la maggioranza degli elettori Dem è di colore, e dove Sanders, nei sondaggi, è dato al secondo posto.

Il secondo ostacolo è la tempesta che Michael Bloomberg scatenerà nei prossimi dieci giorni per frenare lo slancio di Sanders in vista del Super Tuesday, martedì 3 marzo, quando ben 14 stati voteranno contemporaneamente, inclusi California e Texas. In ballo ci sono i tantissimi elettori che non hanno ancora scelto Sanders, ma mostrano di non gradire davvero nessuna delle alternative. Bloomberg, che ha appena incassato il sostegno di Clint Eastwood, deluso da Trump, è deciso al duello all’ultimo sangue.

 

 

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