Una città ridotta in una distesa di sabbia rossa, davanti a un mare che nasconde buona parte di quello che manca ancora all’appello. Più uno scenario di guerra che quello di un disastro naturale. Rovine che fanno pensare a un terremoto, invece che a un’alluvione. Così si presenta Derna – sulla costa nordorientale della Libia – dopo il passaggio dell’uragano Daniel dell’11 settembre, descritto dai pochi superstiti come l’apocalisse.
Il cambiamento climatico che interessa il Mediterraneo è certamente un colpevole, ma arrivando in città sin da subito si capisce che il crollo delle dighe sul fiume Wadi Derna ha amplificato le proporzioni del disastro. Un cedimento causato dall’incuria già denunciata da vari studi scientifici, come il report dell’idrologo Abdelwanees A.R. Ashoor che nel 2022 invitava le istituzioni a preoccuparsi appunto della manutenzione delle dighe, prevendendo conseguenze devastanti in caso di alluvione. Le denunce sono state ignorate anche se, nel 2021 il ministero delle Risorse Idriche aveva stanziato circa 2,3 milioni di euro per la manutenzione delle dighe; manutenzione però mai eseguita, a causa di quello che Tarek Megerisi, senior researcher dell’European Council on Foreign Relations, chiama un “cocktail di negligenza e illeciti che riflette il fallimento dello stato libico”.
Derna non è una città qualsiasi nella Libia dilaniata dalla rivalità tra l’Ovest – nelle mani del governo di Tripoli del premier Abdul Debaibah, l’unico riconosciuto internazionalmente – e l’Est controllato dall’Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar insieme a un governo guidato da Osama Hamad, di cui fa parte. Modernizzata agli inizi del XX secolo dai colonizzatori italiani, divenne nel 1939 provincia italiana, una delle quattro della Libia mediterranea. Bastione della “resistenza in nome di Dio” all’ex dittatore libico Gheddafi, la conservatrice Derna nel 2014 fu la roccaforte della cellula locale del sedicente stato islamico, per finire poi, nel 2017, sotto assedio nella campagna condotta dal generale Haftar per smantellare la presenza islamista in Cirenaica.
Dunque, la ricostruzione della città non è una questione solo umanitaria, ma anche un tema politico che potrebbe avere conseguenze sull’intero Paese. Potrebbe infatti esacerbare la rivalità tra le due fazioni che si contendono la Libia o – volendo essere ottimisti – contribuire a superarla, facendo della solidarietà e degli aiuti internazionali in arrivo degli strumenti per tentare di unire il Paese.
Per quanto osservato sul terreno fangoso di Derna, nelle prime ore dopo la tragedia, le due fazioni sono sembrate pronte a collaborare, trovando un modus operandi condiviso per far arrivare gli aiuti nelle zone colpite dal disastro. L’aeroporto di Tripoli è stato lo scalo di partenza di centinaia di volontari che dall’ovest del Paese si sono precipitati nell’est per tendere la mano a quelli che hanno chiamato di fronte a microfoni e telecamere “i fratelli di una Libia sola e unita”.
A colpire, camminando in quel che resta delle strade della medina di Derna, è stato vedere come anche le storiche divisioni geopolitiche possono essere superate, almeno temporaneamente, dall’emergenza. Dissipate le voci secondo le quali gli aiuti internazionali non avrebbero raggiunto le aree colpite o sarebbero stati intenzionalmente dirottati lontano da esse a causa delle divisioni politiche libiche, contributi sono arrivati da paesi come Russia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti – storici alleati di Haftar – ma anche dai loro rivali regionali Qatar e Turchia. Una cosa impossibile da immaginare anche solo un anno fa, considerato che è stata proprio Ankara a bloccare la marcia di Haftar su Tripoli nel 2019. Nell’estate successiva c’era stato anche il rischio che la Turchia guidasse un’offensiva nella Libia orientale contro le forze di Haftar. Importante e tempestiva anche la presenza dell’Italia, che fino a qualche anno si era interfacciata soprattutto con Tripoli. Ora a Derna – distribuite tra le due rive del fiume – ci sono una base della Protezione Civile, dei Vigili del Fuoco e una presenza della Marina Militare.
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Secondo quanto riportato da Claudia Gazzini, analista dell’International Crisis Group arrivata subito dopo la catastrofe, “le cancellerie notificano a Tripoli l’intenzione di fornire aiuti e Tripoli ne approva l’invio, ma poi sul terreno sono le forze di Haftar che organizzano la logistica delle operazioni, come l’arrivo degli aerei, la fornitura di veicoli e alloggi. Il premier Debaibah invia messaggi pubblici di ringraziamento ai Paesi che si sono mobilitati, ma sul campo ci sono il primo ministro rivale e i suoi ministri. Non è chiaro se la cooperazione tra i due governi vada oltre. Alcuni libici sostengono che la cooperazione ci sia, anche se non è visibile.” (La Stampa, 18 settembre, pag. 15)
Quello che invece è già visibile, girando soprattutto al tramonto tra le squadre di soccorritori che terminano le loro complesse operazioni di ricerca, è il tentativo del generale Haftar di presentarsi come il salvatore di Derna. Suo figlio Saddam cammina disinvolto in quel che resta delle vie della medina promettendo ai pochi cittadini rimasti denaro e una veloce ricostruzione. E’ proprio lui l’uomo messo a capo della commissione per la gestione dei soccorsi e la ricostruzione. Ed è stato proprio lui a recarsi all’interno del campo allestito dagli italiani, nelle prime ore dell’emergenza, per ringraziarli dell’aiuto portato. Il dialogo tra l’Italia e l’uomo forte della Cirenaica era stato già rianimato dall’incontro, nel marzo scorso a Roma, tra la premier Meloni e il generale Haftar. Un faccia a faccia di due ore con al centro il tema dei migranti, visto che già nei primi mesi dell’anno i dati mostravano che la rotta della Cirenaica era particolarmente calda. Seconda solo a quella della Tunisia.
La solidarietà che nelle prime ore della crisi è sembrata in grado di accantonare rivalità e conflitti ha iniziato però a scricchiolare già a una settimana dal passaggio dell’uragano Daniel. La prova è stata la manifestazione organizzata dai superstiti di Derna il 18 settembre. Gli slogan dei manifestanti hanno preso di mira il Presidente della Camera dell’Est, Aguila Saleh, e con lui il sindaco della città – sospeso dalle sue funzioni all’indomani della tragedia. Entrambi sono accusati dalla gente di essere in parte responsabili della mala gestione delle dighe. Proprio su questo punto è partita un’inchiesta della procura che ha già portato al fermo di otto funzionari sospettati di numerose mancanze, come la cattiva gestione dei fondi destinati alla manutenzione delle dighe crollate.
Da quel giorno, quando la casa del sindaco è stata data alle fiamme, il dibattito sembra tornare ai toni divisivi del passato recente, con la città di Derna sempre meno accessibile ai media internazionali e sempre più sotto il controllo delle forze armate. A livello politico, sono le rivalità di sempre a tornare a galla. La risposta alla tragedia di Derna mostra però, per l’ennesima volta, che quelle libiche sono divisioni fabbricate dalle lotte di potere in corso per il controllo del Paese e non generate, né gradite da buona parte della popolazione che in questa crisi ha mostrato ancora una volta di sentire di fare parte di un popolo unito.